domenica 3 dicembre 2006

Il feudalesimo (Marco Tangheroni)

Il feudalesimo
(da un articolo di Marco Tangheroni)

• Per una definizione
Nato non per imposizione arbitraria dall'alto e in base a un disegno astratto, bensì dal fluire stesso della vita, dall'incarnarsi e articolarsi dei princìpi informatori di un'epoca, dal solidificarsi di una consuetudine che tardi raggiunge la codificazione in testi scritti e tardi conosce la riflessione sistematica dei giuristi, il feudalesimo pone indubbiamente alcune difficoltà a chi voglia tentare una definizione.
Questa, tuttavia, è necessaria per chiunque si preoccupi della correttezza del discorso; ed è d'altronde possibile ove si ricerchino i tratti costanti, i denominatori comuni, senza perdersi nelle differenze locali e temporali, le quali, pur interessanti e significative, appartengono - variazioni sul tema - alla storia interna del fenomeno e non concorrono, quindi, alla sua definizione.
Secondo la prospettiva qui assunta non può essere vista l'essenza del feudalesimo nell'immunità, cioè nella esenzione amministrativa, fiscale e giuridica che spesso, e in modo crescente, si accompagnò ai feudi. Siamo, in questo caso, di fronte a una delle conseguenze più significative e interessanti del fenomeno, ma non già alla sua genesi o alla sua essenza. E, a rigore, tale carattere non può essere riconosciuto neppure al beneficio, cioè all'elemento cessione terriera, data non in libera e assoluta proprietà, ma in godimento: anche il beneficio è, preso isolatamente, insufficiente a dare un'idea precisa del feudalesimo, pur essendone indubbiamente un aspetto.
Ciò che è veramente centrale è il rapporto di vassallaggio, ossia la diffusione e istituzionalizzazione di un tipo particolare di rapporti personali e bilaterali ai diversi livelli della struttura sociale. Molto opportunamente lo storico francese Robert Boutruche da inizio alla sua ampia opera sulla signoria e sul feudalesimo con questo quadro:
Ogni anno, dal IX al XVI secolo, migliaia di volte nella maggior parte dell'Occidente, si ripeteva questo rito. Davanti ai testimoni riuniti nella sala grande di un castello o di una residenza ecclesiastica, si fronteggiavano due personaggi: uno destinato ad obbedire, l'altro a comandare. Il primo, a testa nuda e disarmato, pone le sue mani giunte tra quelle del secondo, si dichiara suo uomo, suo vassallo e qualche volta scambia con lui un bacio sulla bocca. Poi giura, "toccando cuti la mano destra" una reliquia o un Vangelo, di rimanergli fedele. A sua volta il signore promette di essere buono e leale. Di solito la cerimonia è chiusa da un ultimo atto [...]: il subordinato ottiene l'investitura di un feudo [...]. Spesso i due contraenti sono dei potenti di questo mondo; ma possono essere anche modesti signori e poveri vassalli.
Questo è veramente l'elemento generatore e comune che ci consente di parlare, in epoche e luoghi diversi della Cristianità, di feudalesimo. Questo è anche il punto dal quale prendere le mosse per la comprensione del fenomeno. E', del resto, l'elemento che ritroviamo alla base della definizione data dallo storico belga Ganshof:
Il feudalesimo [la féodalité] può essere definito come un insieme di istituzioni legate a obblighi di obbedienza e di servizio principalmente militare da parte di un uomo libero, detto "vassallo", verso un uomo libero, detto "signore", e da obblighi di protezione e di mantenimento da parte del "signore" nei confronti del "vassallo".
Intorno a questo sistema di relazioni si articolò tutta una società, caratterizzata, sempre secondo le definizioni di Ganshof, dallo sviluppo dei rapporti tra uomo e uomo, dalla esistenza di un ceto militare specializzato, da uno spezzettamento estremo del diritto di proprietà e da un frazionamento del potere pubblico che dette vita "a una gerarchia di istanze autonome". In questo senso è preferibile parlare non più di feudalesimo in senso proprio e ristretto bensì di società feudale.

• Il rapporto feudo-vassallatico
Come abbiamo visto, il rapporto feudo-vassallatico può essere stretto soltanto tra uomini liberi. Di, più, esso deve essere concluso per spontanea scelta dei due contraenti. Troviamo questo principio espresso molto chiaramente da un sovrano carolingio, Carlo il Calvo, nipote di Carlo Magno, nell'847: "noi vogliamo anche che ogni uomo libero nel nostro regno possa scegliere come signore chi egli vorrà, noi stessi o uno dei nostri fedeli". Ma, una volta concluso, il contratto - espresso, secondo il diritto altomedioevale, non già da testi scritti, ma da gesti intensamente simbolici quali l'immixtio manuum1, il giuramento e il bacio - non poteva essere rotto unilateralmente. Certamente, ci sono noti alcuni casi in cui, in realtà, l'omaggio fu forzato, ma essi ci sono segnalati dai cronisti sempre come una biasimevole rottura dell'ordinamento consuetudinario: eccezioni, sono appunto sentite come tali dai contemporanei.
Accanto alla libertà, elemento essenziale di questo rapporto è la sua bilateralità. A seguito dell'omaggio sorgevano dei doveri tanto per il vassallo quanto per il signore; questi doveri hanno, al di là dei contenuti concreti, che possono su certi punti cambiare a seconda dei luoghi e dei tempi (perché strettamente uniti al diritto consuetudinario locale), una base unica: la reciproca lealtà. Ciò porta, innanzitutto, una conseguenza negativa, cioè l'obbligo di astenersi da azioni che possano nuocere all'altro uomo, quello al quale si è prestato omaggio o, all'inverso, quello del quale si è accettato l'omaggio, prendendolo sotto la propria protezione. Ma accanto a questo contenuto negativo vi erano anche dei contenuti positivi. Il vassallo deve al suo signore auxilium et consilium, cioè il servizio militare (in tempi e modi fissati dalle consuetudini) e l'aiuto materiale in casi particolari (per esempio: un contributo per il riscatto del signore caduto prigioniero), nonché l'obbligo di assistere il signore con i propri consigli, in particolare nella discussione delle cause giudiziarie presso il tribunale del signore, ma, in generale, anche per altre decisioni da prendere. […]
Quanto al signore, egli deve al suo vassallo "protezione, difesa e garanzia". Gli scrittori medioevali insistono fortemente su questa reciprocità. Così, in una lettera indirizzata nel 1020 al duca di Aquitania, il vescovo Fulberto di Chartres afferma chiaramente: "Dominus quoque fideli suo in his omnibus vicem reddere debet", il signore deve obbedire nei confronti del vassallo a tutte le regole cui questi è tenuto verso il signore. E' la formula che troviamo ripresa, quasi alla lettera, nello Speculum Iuris di Guglielmo Durant: "il vassallo è tenuto verso il suo signore alla stessa fedeltà cui è tenuto il signore verso il vassallo". E, ancora, è esplicita l'affermazione di Filippo, sire di Beaumanoir: "secondo la nostra consuetudine, tanta fede e lealtà deve l'uomo al suo signore, in ragione del suo omaggio, altrettante ne deve il signore al suo uomo".
Allorché uno dei contraenti veniva meno ai suoi impegni, si aveva quel comportamento che veniva chiamato fellonia. Questo comportamento giustificava la rottura del vincolo della fidelitas o fides, con tutte le sue conseguenze: la confisca del feudo, da parte del signore al vassallo fedifrago, o il passaggio del vassallo, col suo feudo, al servizio di un altro signore. Naturalmente, nella pratica, i contrasti di interpretazione potevano essere frequenti; tuttavia, la lettura sia delle cronache che dei poemi dell'epoca ci convince della forza di dissuasione che queste norme erano capaci di esercitare.
A sostegno di questo rapporto vi era indubbiamente, oltre alla sacralità di un impegno preso sul Vangelo, anche un profondo sentimento, che nell'epoca d'oro del feudalesimo (secoli IX-XII) appare generalmente diffuso e anche prevalente rispetto ad altri sentimenti. "In questo periodo - scrive Lewis - il più profondo dei sentimenti è l'amore dell'uomo per l'uomo, la reciproca affezione di guerrieri che muoiono vicini, combattendo contro ogni ostacolo, il sentimento del vassallo verso il suo signore".
• Trasformazioni e decadenza
La trasformazione principale che il feudalesimo conobbe fu quella di un'accentuazione progressiva dell'elemento reale, il feudo, a danno dell'elemento personale, il rapporto feudo-vassallatico. Una deplorevole tendenza di molti storici ha portato, per la verità, a troppo anticipare e troppo generalizzare questa tendenza; l'importanza centrale del rapporto personale fu a lungo sentita, ancora per secoli come carattere essenziale e fondamentale del feudalesimo. Tuttavia la tendenza vi fu, con le sue conseguenze: gli obblighi del vassallo considerati piuttosto come oneri gravanti sui beni e il possesso del feudo visto da un punto di vista patrimoniale, nonché la pluralità degli impegni vassallatici da parte di un solo vassallo nei confronti di vari signori. Peraltro, quest'ultimo comportamento veniva avvertito come un problema da superare, come dimostra la nascita di un tipo di impegno che era considerato, in caso di conflitto, superiore all'omaggio semplice, cioè l'omaggio detto "figio". Fino al periodo di crisi generale della società medioevale, questo tipo di omaggio assoluto permise al feudalesimo di conservare il suo carattere di struttura portante dal punto di vista istituzionale e sociale, pure in presenza di una più complessa e articolata rete di rapporti umani.
Si è voluto vedere un segno precoce di decadenza nell'ereditarietà dei feudi, già riconosciuta - limitatamente ai benefici maggiori - da Carlo il Calvo nell'877 e poi - per tutti i vassalli - dall'imperatore Corrado II il Salico nel 1037. In realtà non si può assolutamente parlare di decadenza del feudalesimo per questo periodo, nel quale si ebbe, anzi, una sua maggiore diffusione con la conquista normanna dell'Inghilterra, con la formazione: del Regno di Napoli nell'Italia meridionale, con la nascita, in seguito alla Prima Crociata, degli stati cristiani nel Vicino Oriente e in Terrasanta. Come osservò a suo tempo lo storico francese Marc Bloch, dove di per sé potrebbe trovare il signore un vassallo più fedele se non nella famiglia di colui che lo aveva fedelmente seguito per tanto tempo? D'altronde, la ereditarietà dei feudi non era meccanica e non toccava il carattere vitalizio del rapporto; l'omaggio doveva essere ogni volta prestato nuovamente dal nuovo vassallo. Piuttosto, la vera decadenza va vista nel progressivo venire meno del nesso beneficio-funzione. Si trattò di un processo complesso e secolare, legato al venire meno della funzione militare della cavalleria feudale, allo sviluppo della monarchia assoluta, alla patrimonializzazione sempre più crescente del feudo.
• Feudalesimo e autorità
Come si è accennato, si considera normalmente il feudalesimo come a un tempo effetto e causa ulteriore della scomparsa del potere pubblico o statale. Tipico esempio di disgregazione della società, dovrebbe tendere a scomparire non appena, e a suo dispetto, l'autorità si riorganizza. In realtà, questa unione, per quanto diffusa nei manuali e nei libri di storia in genere, non ha fondamento e nasce da preoccupazioni ideologiche e da pregiudizi moderni, per i quali l'unico modello valido di Stato - con il quale comparare tutte le altre forme di organizzazione politica esistenti nel passato - è quello moderno.
Analogamente, si attribuisce al Medioevo una confusione tra il pubblico e il privato, solo perché la distinzione che gli uomini medioevali facevano tra questi due concetti era basata su criteri nettamente diversi da quelli oggi correnti.
[Lo storico] Jacques Ellul ha scritto che "la società medioevale è una società [...] senza potere politico centralizzato e unico", in quanto i diritti e i poteri attualmente considerati come necessariamente appartenenti allo Stato erano allora ripartiti tra diverse autorità. D'altra parte, lo stesso autore aggiunge, subito dopo, che allo stesso tempo "la società medioevale è una società gerarchica", tutt'altro che disordinata, grazie, da un lato, alla presenza, come punto di riferimento, al vertice, della monarchia o, meglio, del re e, dall'altro, proprio alla catena delle gerarchie feudali.
Non siamo di fronte a una pura descrizione teorica, a un modello astratto. In realtà, le ricerche storiche ci mostrano la grande importanza avuta dal feudalesimo nei paesi cristiani sotto il profilo della organizzazione o riorganizzazione della società civile sia nel periodo precedente la nascita del Sacro Romano Impero (secolo VIII), sia in quello successivo alla sua crisi, quando, tra l'altro, una nuova ondata di invasioni pagane (Vikinghi, Ungari, Slavi, Saraceni) si abbatté sulla Cristianità (secoli IX-X).
In seguito, ancora, le monarchie nazionali si costituiranno in Francia, Inghilterra, Castiglia, Aragona, non contro, ma anzi, in una certa misura grazie ai ceti feudali; tanto che gli storici parlano ormai di "monarchie feudali", sia in contrapposizione ai vecchi concetti che volevano queste monarchie frutto esclusivo dell'intesa tra i sovrani e le borghesie mercantili, sia per distinguere questa fase dalla successiva fase assolutistica.
Si può anche aggiungere che gli stessi comuni, frutto della forte ripresa cittadina dopo il Mille, né nacquero, né si svolsero in chiare antifeudale, come vorrebbero certi vecchi e ripetuti schemi; ciò anche nella stessa Italia centro - settentrionale, nella quale, pure essi arrivarono a costituirsi in centri di minuscoli Stati, largamente autonomi, anche se di diritto inseriti nella struttura feudale dell'Impero. La nascita stessa del comune fu un fenomeno aristocratico, incomprensibile senza la ricchezza di vita e la libertà d'azione che sempre più appaiono essere i connotati della società feudale. Ed è anche significativo che i rapporti tra i vari Stati (compresi i comuni), come anche i rapporti tra le città e i signori del territorio circostante, venissero definiti ricorrendo al diritto feudale, che divenne, in certo qual modo, una specie di diritto internazionale universalmente riconosciuto.

giovedì 30 novembre 2006

Il caso Galilei

Galileo Galilei
Il caso Galileo Galilei stando ai fatti: i suoi guai, più che da parte "clericale" gli erano sempre venuti dai "laici": dai suoi colleghi universitari. La difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa dall'Università. "Eppur si muove": storia di un falso
Stando a un'inchiesta dei Consiglio d'Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura. Coloro - non molti, in verità - che sono in grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase "sicuramente storica", un suo "Eppur si muove!", fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici. Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest'ultimo falso: la "frase storica" fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.

Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo "vero" (non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali - tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto - per la mitezza della pena. Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici - tra i quali c'erano uomini di scienza non inferiore alla sua - assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere. Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo "scuotimento" delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un'altra che Galileo giudicava "da imbecilli": era, invece, quella giusta. L'alzarsi e l'abbassarsi dell'acqua dei mari, cioè, è dovuta all'attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.

Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c'è da stupirsi: il Sant'Uffizio non si opponeva affatto all'evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco. In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il "novatore" Copernico, condannato invece da Lutero.
Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla sua "scommessa" copernicana, si era ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece - e giustamente - sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.

Niente frasi "titaniche" (il troppo celebre "Eppur si muove!") comunque, se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti - vedasi Bertolt Brecht - che crearono a tavolino un "caso" che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare l'incompatibilità tra scienza e fede.
La condanna: continuare il suo lavoro
Torture? carceri dell'Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il "condannato" si trasferì come ospite nel palazzo dell'arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo "Il gioiello".

Non perdette né la stima né l'amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro - Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze - che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d'Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Questa "pena", in realtà, era anch'essa scaduta dopo tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall'ergersi come difensore della ragione contro l'oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: "In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa".

Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell'indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l'8 gennaio 1642, nove anni dopo la "condanna" e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: "Gesù!".

I suoi guai, del resto, più che da parte "clericale" gli erano sempre venuti dai "laici": dai suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa dall'Università.

In occasione della recente visita del papa a Pisa, un illustre scienziato, su un cosiddetto "grande" quotidiano, ha deplorato che Giovanni Paolo II "non abbia fatto ulteriore, doverosa ammenda dell'inumano trattamento usato dalla Chiesa contro Galileo". Se, per gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si deve parlare di ignoranza, per studiosi di questa levatura il sospetto è la malafede. Quella stessa malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire e che tanti complessi di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non solo le cose non andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma proprio oggi ci sono nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della Chiesa. Il "caso" è troppo importante, per non parlarne ancora.La sua vita privata fu tenuta fuori dal processo

Il Galilei - alla pari, del resto, di un altro cattolico fervente come Cristoforo Colombo - convisse apertamente more uxorio con una donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe un figlio maschio e due femmine. Lasciata Padova per ritornare in Toscana, dove gli era stata promessa maggior possibilità di far carriera, abbandonò in modo spiccio (da qualcuno, anzi, sospettato di brutalità) la fedele compagna, la veneziana Marina Gamba, togliendole anche tutti i figli. "Provvisoriamente, mise le figliuole in casa del cognato, ma doveva pensare a una loro sistemazione definitiva: cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio. Galileo pensò allora di monacarle. Senonché le leggi ecclesiastiche non permettevano che fanciulle così giovani facessero i voti, e allora Galileo si raccomandò ad alti prelati per poterle fare entrare egualmente in convento: così, nel 1613, le due fanciulle - una di 13 e l'altra di 12 anni - entravano nel monastero di San Matteo d'Arcetri e dopo poco vestirono l'abito. Virginia, che prese il nome di suor Maria Celeste, riuscì a portare cristianamente la sua croce, visse con profonda pietà e in attiva carità verso le sue consorelle. Livia, divenuta suor Arcangela, soccombette invece al peso della violenza subita e visse nevrastenica e malaticcia" (Sofia Vanni Rovighi). Sul piano personale, dunque, sarebbe stato vulnerabile. "Sarebbe", diciamo, perché, grazie a Dio, quella Chiesa che pure lo convocò davanti al Sant'Uffizio, quella Chiesa accusata di un moralismo spietato, si guardò bene dal cadere nella facile meschineria di mescolare il piano privato, le scelte personali del grande scienziato, con il piano delle sue idee, le sole che fossero in discussione. "Nessun ecclesiastico gli rinfaccerà mai la sua situazione familiare. Ben diversa sarebbe stata la sua sorte nella Ginevra di Calvino, dove i "concubini" come lui venivano decapitati" (Rino Canimilleri).

E' un'osservazione che apre uno spiraglio su una situazione poco conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei maggiori conoscitori di questa vicenda: "Da due secoli, Galileo e il suo caso interessano, più che come fine, come mezzo polemico contro la Chiesa cattolica e contro il suo "oscurantismo" che avrebbe bloccato la ricerca scientifica". Lo stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo ancora lontano da quello spirito di autoflagellazione di tanta attuale storiografia clericale, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della Chiesa, cita, condividendola, l'affermazione di un altro studioso, il Dessauer: "Il nuovo mondo sorge essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica perché questa, con Galileo, ha cacciato gli scienziati".

Questo non risponde affatto alla verità. Il temporaneo divieto (che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una lunga simpatia) di insegnare pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana, è un fatto del tutto isolato: né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo: mai) in campo per intralciare in qualche modo la ricerca scientifica, portata avanti tra l'altro quasi sempre da membri di ordini religiosi. Lo stesso Galileo è convocato solo per non avere rispettato i patti: l'approvazione ecclesiastica per il libro "incriminato", i Dialoghi sopra i massimi sistemi, gli era stata concessa purché trasformasse in ipotesi (come del resto esigevano le stesse ancora incerte conoscenze scientifiche del tempo) la teoria copernicana che egli invece dava ormai come sicura. Il che non era ancora. Promise di adeguarsi: non solo non lo fece, dando alle stampe il manoscritto così com'era, ma addirittura mise in bocca allo sciocco dei Dialoghi, dal nome esemplare di Simplicio, i consigli di moderazione datigli dal papa che pur gli era amico e lo ammirava.

Galileo, quando è convocato per scolparsi, si sta occupando di molti altri progetti di ricerca, non solo di quello sul movimento della Terra o del Sole. Era giunto quasi ai settant'anni avendo avuto onori e aiuti da parte di tutti gli ambienti religiosi, a parte un platonico ammonimento del 1616, ma non diretto a lui personalmente; subito dopo la condanna potrà riprendere in pieno le ricerche, attorniato da giovani discepoli che formeranno una scuola. E potrà condensare il meglio della sua vita di studio negli anni che gli restano, in quei Discorsi sopra due nuove scienze che è il vertice del suo pensiero scientifico.

Del resto, proprio nell'astronomia e proprio a partire da quegli anni la Specola Vaticana - ancor oggi in attività, fondata e sempre diretta da gesuiti - consolida la sua fama di istituto scientifico tra i più prestigiosi e rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli italiani giungono a Roma, nel 1870, si affrettano a fare un'eccezione al loro programma di cacciare i religiosi, quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.

Il governo dell'Italia anticlericale e massonica fa votare così dal Parlamento una legge speciale per mantenere come direttore a vita dell'Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei maggiori studiosi del secolo, tra i fondatori dell'astrofisica, uomo la cui fama è talmente universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per ammonire i responsabili della "nuova Italia" che non intralcino un lavoro giudicato prezioso per tutti.

Se la scienza sembra emigrare, a partire dal Seicento, prima nel Nord Europa e poi oltre Atlantico - fuori, cioè, dall'orbita di regioni cattoliche - le cause sono legate al diverso corso assunto dalla scienza stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali proprio Galileo è tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi economicamente sulla cresta dell'onda possono permettersi, non certo l'Italia occupata dagli stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso trionfo.

La scienza moderna, poi, a differenza di quella antica, si lega direttamente alla tecnologia, cioè alla sua utilizzazione diretta e concreta. Gli antichi coltivavano gli studi scientifici per se stessi, per gusto della conoscenza gratuita, pura. I greci, ad esempio, conoscevano le possibilità del vapore di trasformarsi in energia ma, se non adattarono a macchina da lavoro quella conoscenza, è perché non avrebbero considerato degno di un uomo libero, di un "filosofo" come era anche lo scienziato, darsi a simili attività "utilitarie". (Un atteggiamento che contrassegna del resto tutte le società tradizionali: i cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano la polvere nera, non la trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e fucili, come fecero poi gli europei del Rinascimento, ma l'impiegarono solo per fini estetici, per fare festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi riservavano le loro straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non per edifici "profani").

E' chiaro che, da quando la scienza si mette al servizio della tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra popoli, come quelli nordici, che conoscono una primissima rivoluzione industriale; che hanno - come gli olandesi o gli inglesi - grandi flotte da costruire e da utilizzare; che abbisognano di equipaggiamento moderno per gli eserciti, di infrastrutture territoriali, e così via. Mentre, cioè, prima, la scienza era legata solo all'intelligenza, alla cultura, alla filosofia, all'arte stessa, a partire dall'epoca moderna è legata al commercio, all'industria, alla guerra. Al denaro, insomma.
Intolleranza protestante
Che questa - e non la pretesa "persecuzione cattolica" di cui, l'abbiamo visto, parlano anche storici cattolici - sia la causa della relativa inferiorità scientifica dei popoli restati legati a Roma, lo dimostra anche l'intolleranza protestante di cui quasi mai si parla e che è invece massiccia e precoce. Copernico, da cui tutto inizia (e nel cui nome Galileo sarebbe stato "perseguitato") è un cattolicissimo polacco. Anzi, è addirittura un canonico che installa il suo rudimentale osservatorio su un torrione della cattedrale di Frauenburg. L'opera fondamentale che pubblica nel 1543 - La rotazione dei corpi celesti - è dedicata al papa Paolo III, anch'egli, tra l'altro, appassionato astronomo. L'imprimatur è concesso da un cardinale proveniente da quei domenicani nel cui monastero romano Galileo ascolterà la condanna.

Il libro del canonico polacco ha però una singolarità: la prefazione è di un protestante che prende le distanze da Copernico, precisando che si tratta solo di ipotesi, preoccupato com'è di possibili conseguenze per la Scrittura. Il primo allarme non è dunque di parte cattolica: anzi, sino al dramma finale di Galileo, si succedono ben undici papi che non solo non disapprovano la teoria "eliocentrica" copernicana, ma spesso l'incoraggiano. Lo scienziato pisano stesso è trionfalmente accolto a Roma e fatto membro dell'Accademia pontificia anche dopo le sue prime opere favorevoli al sistema eliocentrico.

Ecco, invece, la reazione testuale di Lutero alle prime notizie sulle tesi di Copernico: "La gente presta orecchio a un astrologo improvvisato che cerca in tutti i modi di dimostrare che è la Terra a girare e non il Cielo. Chi vuol far sfoggio di intelligenza deve inventare qualcosa e spacciarlo come giusto. Questo Copernico, nella sua follia, vuol buttare all'aria tutti i princìpi dell'astronomia". E Melantone, il maggior collaboratore teologico di fra Martino, uomo in genere piuttosto equilibrato, qui si mostra inflessibile: "Simili fantasie da noi non saranno tollerate".

Non si trattava di minacce a vuoto: il protestante Keplero, fautore del sistema copernicano, per sfuggire ai suoi correligionari che lo giudicano blasfemo perché parteggia per una teoria creduta contraria alla Bibbia, deve scappare dalla Germania e rifugiarsi a Praga, dopo essere stato espulso dal collegio teologico di Tubinga. Ed è significativo quanto ignorato (come, del resto, sono ignorate troppe cose in questa vicenda) che giunga al "copernicano" e riformato Keplero un invito per insegnare proprio nei territori pontifici, nella prestigiosissima università di Bologna.

Sempre Lutero ripeté più volte: "Si porrebbe fuori del cristianesimo chi affermasse che la Terra ha più di seimila anni". Questo "letteralismo", questo "fondamentalismo" che tratta la Bibbia come una sorta di Corano (non soggetta, dunque a interpretazione) contrassegna tutta la storia del protestantesimo ed è del resto ancora in pieno vigore, difeso com'è dall'ala in grande espansione - negli Usa e altrove - di Chiese e nuove religioni che si rifanno alla Riforma.

A proposito di università (e di "oscurantismo"): ci sarà pure una ragione se, all'inizio del Seicento, proprio quando Galileo è sulla quarantina, nel pieno del vigore della ricerca, di università - questa tipica creazione del Medio Evo cattolico - ce ne sono 108 in Europa, alcune altre nelle Americhe spagnole e portoghesi e nessuna nei territori non cristiani. E ci sarà pure una ragione se le opere matematiche e geometriche degli antichi (prima fra tutte quelle di Euclide) che costituirono la base fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna, giunsero a noi soltanto perché ricopiate dai monaci benedettini e, appena inventata la tipografia, stampate sempre a cura di religiosi. Qualcuno ha addirittura rilevato che, proprio in quell'inizio del Seicento, è un Grande Inquisitore di Spagna che fonda a Salamanca la facoltà di scienze naturali dove si insegna con favore la teoria copernicana...

Storia complessa, come si vede. Ben più complessa di come abitualmente ce la raccontino. Bisognerà parlarne ancora.
La saggezza della Chiesa
Qualcuno ha fatto notare un paradosso: è infatti più volte successo che la Chiesa sia stata giudicata attardata, non al passo con i tempi. Ma il prosieguo della storia ha finito col dimostrare che, se sembrava anacronistica, è perché aveva avuto ragione troppo presto.

É successo, ad esempio, con la diffidenza per il mito entusiastico della "modernità", e del conseguente "progresso", per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX. Adesso, uno storico come Émile Poulat può dire: "Pio IX e gli altri papi "reazionari" erano in ritardo sul loro tempo ma sono divenuti dei profeti per il nostro. Avevano forse torto per il loro oggi e il loro domani: ma avevano visto giusto per il loro dopodomani, che è poi questo nostro tempo postmoderno che scopre l'altro volto, quello oscuro, della modernità e del progresso".

É successo, per fare un altro esempio, con Pio XI e Pio XII, le cui condanne del comunismo ateo erano sino a ieri sprezzate come "conservatrici", "superate", mentre ora quelle cose le dicono gli stessi comunisti pentiti (quando hanno sufficiente onestà per riconoscerlo) e rivelano che quegli "attardati" di papi avevano una vista che nessun altro ebbe così acuta. Sta succedendo, per fare un altro esempio, con Paolo VI, il cui documento che appare e apparirà sempre più profetico è anche quello che fu considerato il più "reazionario": l'Humanae Vitae.

Oggi siamo forse in grado di scorgere che il paradosso si è verificato anche per quel "caso Galileo" che ci ha tenuti impegnati per i due frammenti precedenti.

Certo, ci si sbagliò nel mescolare Bibbia e nascente scienza sperimentale. Ma facile è giudicare con il senno di poi: come si è visto, i protestanti furono qui assai meno lucidi; anzi, assai più intolleranti dei cattolici. E certo che in terra luterana o calvinista Galileo sarebbe finito non in villa, ospite di gerarchi ecclesiastici, ma sul patibolo.

Dai tempi dell'antichità classica sino ad allora, in tutto l'Occidente, la filosofia comprendeva tutto lo scibile umano, scienze naturali comprese: oggi ci è agevole distinguere, ma a quei tempi non era affatto così; la distinzione cominciava a farsi strada tra lacerazioni ed errori.

D'altro canto, Galileo suscitava qualche sospetto perché aveva già mostrato di sbagliare (sulle comete, ad esempio) e proprio su quel suo prediletto piano sperimentale; non aveva prove a favore di Copernico, la sola che portava era del tutto erronea. Un santo e un dotto della levatura di Roberto Bellarmino si diceva pronto - e con lui un'altra figura di altissima statura come il cardinale Baronio - a dare alla Scrittura (la cui lettera sembrava più in sintonia col tradizionale sistema tolemaico) un senso metaforico, almeno nelle espressioni che apparivano messe in crisi dalle nuove ipotesi astronomiche; ma soltanto se i copernicani fossero stati in grado di dare prove scientifiche irrefutabili. E quelle prove non vennero se non un secolo dopo.Una reazione doverosa dal punto di vista scientifico

Uno studioso come Georges Bené pensa addirittura che il ritiro deciso dal Sant'Uffizio del libro di Galileo fosse non solo legittimo ma doveroso, e proprio sul piano scientifico: "Un po' come il rifiuto di un articolo inesatto e senza prove da parte della direzione di una moderna rivista scientifica". D'altro canto, lo stesso Galileo mostrò come, malgrado alcuni giusti princìpi da lui intuiti, il rapporto scienza-fede non fosse chiaro neppure per lui. Non era sua, ma del cardinal Baronio (e questo riconferma l'apertura degli ambienti ecclesiastici) la formula celebre: "L'intento dello Spirito Santo, nell'ispirare la Bibbia, era insegnarci come si va al Cielo, non come va il cielo".

Ma tra le cose che abitualmente si tacciono è la sua contraddizione, l'essersi anch'egli impelagato nel "concordismo biblico": davanti al celebre versetto di Giosuè che ferma il Sole non ipotizzava per niente un linguaggio metaforico, restava anch'egli sul vecchio piano della lettura letterale, sostenendo che Copernico poteva dare a quella "fermata" una migliore spiegazione che Tolomeo. Mettendosi sullo stesso piano dei suoi giudici, Galileo conferma quanto fosse ancora incerta la distinzione tra il piano teologico e filosofico e quello della scienza sperimentale.

Ma è forse altrove che la Chiesa apparve per secoli arretrata, perché era talmente in anticipo sui tempi che soltanto ora cominciamo a intuirlo. In effetti - al di là degli errori in cui possono essere caduti quei dieci giudici, tutti prestigiosi scienziati e teologi, nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, e forse al di là di quanto essi stessi coscientemente avvertivano - giudicando una certa baldanza (se non arroganza) di Galileo, stabilirono una volta per sempre che la scienza non era né poteva divenire una nuova religione; che non si lavorava per il bene dell'uomo e neppure per la Verità, creando nuovi dogmi basati sulla "Ragione" al posto di quelli basati sulla Rivelazione. "La condanna temporanea (donec corrigatur, fino a quando non sia corretta, diceva la formula) della dottrina eliocentrica, che dai suoi paladini era presentata come verità assoluta, salvaguardava il principio fondamentale che le teorie scientifiche esprimono verità ipotetiche,vere ex suppositione, per ipotesi e non in modo assoluto". Così uno storico d'oggi. Dopo oltre tre secoli di quella infatuazione scientifica, di quel terrorismo razionalista che ben conosciamo, c'è voluto un pensatore come Karl Popper per ricordarci che inquisitori e Galileo erano, malgrado le apparenze, sullo stesso piano. Entrambi, infatti, accettavano per fede dei presupposti fondamentali sulla cui base costruivano i loro sistemi. Gli inquisitori accettavano come autorità indiscutibili (anche sul piano delle scienze naturali) la Bibbia e la Tradizione nel loro senso più letterale. Ma anche Galileo e, dopo di lui, tutta la serie infinita degli scientisti, dei razionalisti, degli illuministi, dei positivisti - accettava in modo indiscusso, come nuova Rivelazione, l'autorità del ragionare umano e dell'esperienza dei nostri sensi.

Ma chi ha detto (e la domanda è di un laico agnostico come Popper) - se non un'altra specie di fideismo - che ragione ed esperienza, che testa e sensi ci comunichino il "vero"? Come provare che non si tratta di illusioni, così come molti considerano illusioni le convinzioni su cui si basa la fede religiosa? Soltanto adesso, dopo tanta venerazione e soggezione, diveniamo consapevoli che anche le cosiddette "verità scientifiche" non sono affatto "verità" indiscutibili a priori, ma sempre e solo ipotesi provvisorie, anche se ben fondate (e la storia in effetti è lì a mostrare come ragione ed esperienza non abbiano preservato gli scienziati da infinite, clamorose cantonate, malgrado la conclamata "oggettività e infallibilità della Scienza").

Questi non sono arzigogoli apologetici, sono dati ben fondati sui documenti: sino a quando Copernico e tutti i copernicani (numerosi, lo abbiamo visto, anche tra i cardinali, magari tra i papi stessi) restarono sul piano delle ipotesi, nessuno ebbe da ridire, il Sant'Uffizio si guardò bene dal bloccare una libera discussione sui dati sperimentali che via via venivano messi in campo.
Contro lo scientismo, in anticipo sui tempi
L'irrigidimento avviene soltanto quando dall'ipotesi si vuol passare al dogma, quando si sospetta che il nuovo metodo sperimentale in realtà tenda a diventare religione, quello "scientismo" in cui in effetti degenererà. "In fondo, la Chiesa non gli chiedeva altro che questo: tempo, tempo per maturare, per riflettere quando, per bocca dei suoi teologi più illuminati, come il santo cardinale Bellarmino, domandava al Galilei di difendere la dottrina copernicana ma solo come ipotesi e quando, nel 1616, metteva all'Indice il De revolutionibus di Copernico solo donec corrigatur, e cioè finché non si fosse data forma ipotetica ai passi che affermavano il moto della Terra in forma assoluta. Questo consigliava Bellarmino: raccogliete i materiali per la vostra scienza sperimentale senza preoccuparvi, voi, se e come possa organizzarsi nel corpus aristotelico. Siate scienziati, non vogliate fare i teologi!" (Agostino Gemelli).

Galileo non fu condannato per le cose che diceva; fu condannato per come le diceva. Le diceva, cioè, con un'intolleranza fideistica, da missionario del nuovo Verbo che spesso superava quella dei suoi antagonisti, pur considerati "intolleranti" per definizione. La stima per lo scienziato e l'affetto per l'uomo non impediscono di rilevare quei due aspetti della sua personalità che il cardinale Paul Poupard ha definito come "arroganza e vanità spesso assai vive". Nel contraddittorio, il Pisano aveva di fronte a sé astronomi come quei gesuiti del Collegio Romano dai quali tanto aveva imparato, dai quali tanti onori aveva ricevuto e che la ricerca recente ha mostrato nel loro valore di grandi, moderni scienziati anch'essi "sperimentali".

Poiché non aveva prove oggettive, è solo in base a una specie di nuovo dogmatismo, di una nuova religione della Scienza che poteva scagliare contro quei colleghi espressioni come quelle che usò nelle lettere private: chi non accettava subito e tutto il sistema copernicano era (testualmente) "un imbecille con la testa tra le nuvole", uno "appena degno di essere chiamato uomo", "una macchia sull'onore del genere umano", uno "rimasto alla fanciullaggine"; e via insultando. In fondo, la presunzione di essere infallibile sembra più dalla sua parte che da quella dell'autorità ecclesiastica.

Non si dimentichi, poi, che, precorrendo anche in questo la tentazione tipica dell'intellettuale moderno, fu quella sua "vanità", quel gusto di popolarità che lo portò a mettere in piazza, davanti a tutti (con sprezzo, tra l'altro della fede dei semplici), dibattiti che proprio perché non chiariti dovevano ancora svolgersi, e a lungo, tra dotti. Da qui, tra l'altro, il suo rifiuto del latino: "Galileo scriveva in volgare per scavalcare volutamente i teologi e gli altri scienziati e indirizzarsi all'uomo comune. Ma portare questioni così delicate e ancora dubbie immediatamente a livello popolare era scorretto o, almeno, era una grave leggerezza" (Rino Cammilleri).

Di recente, l'"erede" degli inquisitori, il Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, cardinale Ratzinger, ha raccontato di una giornalista tedesca - una firma famosa di un periodico laicissimo, espressione di una cultura "progressista" - che gli chiese un colloquio proprio sul riesame del caso-Galileo. Naturalmente, il cardinale si aspettava le solite geremiadi sull'oscurantismo e dogmatismo cattolici. Invece, era il contrario: quella giornalista voleva sapere "perché la Chiesa non avesse fermato Galileo, non gli avesse impedito di continuare un lavoro che è all'origine del terrorismo degli scienziati, dell'autoritarismo dei nuovi inquisitori: i tecnologi, gli esperti...". Ratzinger aggiungeva di non essersi troppo stupito: semplicemente quella redattrice era una persona aggiornata, era passata dal culto tutto "moderno" della Scienza alla consapevolezza "postmoderna" che scienziato non può essere sinonimo di sacerdote di una nuova fede totalitaria.
Un titano del libero pensiero?
Sulla strumentalizzazione propagandistica che è stata fatta di Galileo, trasformato - da uomo con umanissimi limiti, come tutti, quale era - in un titano del libero pensiero, in un profeta senza macchia e senza paura, ha scritto cose non trascurabili la filosofa cattolica (uno dei pochi nomi femminili di questa disciplina) Sofia Vanni Rovighi. Sentiamo:

"Non è storicamente esatto vedere in Galileo un martire della verità, che alla verità sacrifica tutto, che non si contamina con nessun altro interesse, che non adopera nessun mezzo extra-teorico per farla trionfare, e dall'altra parte uomini che per la verità non hanno alcun interesse, che mirano al potere, che adoperano solo il potere per trionfare su Galileo. In realtà ci sono invece due parti, Galileo e i suoi avversari, l'una e l'altra convinte della verità della loro opinione, l'una e l'altra in buona fede ma che adoperano l'una e l'altra anche mezzi extra-teorici per far trionfare la tesi che ritengono vera. Né bisogna dimenticare che, nel 1616, l'autorità ecclesiastica fu particolarmente benevola con Galileo e non lo nominò neppure nel decreto di condanna e nel 1633, sebbene sembrasse procedere con severità, gli concesse ogni possibile agevolazione materiale. Secondo il diritto di allora, prima, durante e, se condannato, dopo la procedura, Galileo avrebbe dovuto essere in carcerato; e invece non solo in carcere non fu neanche per un'ora, non solo non subì alcun maltrattamento, ma fu alloggiato e trattato con ogni conforto".

Ma continua la Vanni Rovighi, quasi con particolare sensibilità femminile verso le povere figlie del grande scienziato: "Non è poi equo operare con due pesi e due misure e parlare di delitto contro lo spirito quando si allude alla condanna di Galileo, ma non battere ciglio quando si narra della monacazione forzata che egli impose alle sue due figliuole giovinette, facendo di tutto per eludere le savie leggi ecclesiastiche che tutelavano la dignità e libertà personale delle giovani avviate alla vita religiosa, col fissare un limite minimo di età per i voti. Si osserverà che quell'azione di Galileo va giudicata tenendo presente l'epoca storica, che Galileo cercò di rimediare, di farsi perdonare quella violenza, usando gran e bontà soprattutto verso Virginia, divenuta suor Maria Celeste; e noi troviamo giustissime queste considerazioni, ma domandiamo che egual metro di comprensione storica e psicologica venga usato anche quando si giudicano gli avversari di Galileo".

Prosegue la studiosa: "Occorrerà anche tenere presente questo: quando si condanna severamente l'autorità che giudicò Galileo ci si mette da un punto di vista morale (da un punto di vista intellettuale, infatti, è pacifico che ci fu errore nei giudici; ma l'errore non è delitto e non si dimentichi mai che ciò non riguarda affatto la fede: sia il giudizio del 1616 che quello del 1633 sono decreti di una Congregazione romana approvati dal papa in forma communi e come tali non cadono sotto la categoria delle affermazioni nelle quali la Chiesa è infallibile; si tratta di decreti di uomini di Chiesa, non certo di dogmi della Chiesa). Se ci si pone, dunque, a un punto di vista morale, non bisogna confondere questo valore con il successo. Tanto vale il tormento dello spirito del grande Galileo quanto il tormento dello spirito sconvolto della povera suor Arcangela, monacata a forza dal padre a 12 anni. E se poi si osserva che - diamine! - Galileo è Galileo, mentre suor Arcangela non è che un'oscura donnetta, per concludere almeno implicitamente che tormentare l'uno è colpa ben più grave che tormentare l'altra, ci si lascia affascinare dal potere e dal successo. Ma da questo punto di vista non ha più senso parlare di spirito: né per stigmatizzare i delitti compiuti contro di esso né per esaltarne le vittorie".di Vittorio Messori
da Uomini, storia, fede (BUR 2001) pp.169-182
di Vittorio Messori, "Uomini, storia, fede" 2001

Le crociate. Una storia da riscrivere

Le crociate. Una storia da riscrivere
La leggenda nera delle crociate è stata costruita da una certa storiografia illuminista. La storia vera è un'altra. Da sempre, si chiamava "piazza delle Crociate". Da poco più di un anno è "piazza Paolo VI". Al cambio di nome dello slargo milanese, accanto alla insigne basilica di San Simpliciano, non è estraneo il fatto che su di esso si apra l'ingresso della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale. Dicono ci siano state pressioni clericali perché si cambiasse quell'indirizzo. Era sentito come imbarazzante ben più da certo milieu cattolico che dalle laiche autorità municipali. Queste, pronte a onorare l'arcivescovo di Milano divenuto Papa, furono sorprese che lo si volesse fare a spese di antichi eventi nei quali anche il Comune ambrosiano ebbe una parte rivendicata per secoli come gloriosa. Sta di fatto che le vecchie targhe sono state tolte.
Il termine "crociata" è stato inventato nel SettecentoQuesta milanese non è che una conferma tra le tante di un fatto sconcertante: dopo due secoli di propaganda incessante, la "leggenda nera" costruita dagli illuministi come arma della guerra psicologica contro la Chiesa romana, ha finito per instillare una "cattiva coscienza" nella intellighenzia cattolica, oltre che nell'immaginario popolare. É, infatti, nel Settecento europeo che, completando l'opera della Riforma, si stabilisce il rosario, divenuto canonico, delle "infamie romane". Per quanto riguarda le Crociate, la propaganda anticattolica ne inventò persino il nome: alla pari, del resto, del termine "Medio Evo", escogitato dalla storiografia "illuminata" per indicare la parentesi di buio e di fanatismo tra gli splendori dell'Antichità e quelli del Rinascimento. Sta di fatto che coloro i quali, novecento anni fa, presero d'assalto Gerusalemme, si sarebbero assai stupiti se qualcuno gli avesse detto che davano così compimento a ciò che sarebbe stata chiamata "prima Crociata". Quello, per loro, era iter, "peregrinatio", succursus, passagium. Quegli stessi "pellegrini armati" sarebbero rimasti ancor più sorpresi, qualora avessero previsto che gli sarebbe stata attribuita l'intenzione di convertire gli "infedeli" o di assicurare sbocchi commerciali all'Occidente o di creare "colonie" europee in Medio Oriente... Ma lo stesso Papa, Urbano II, sarebbe caduto dalle nuvole, apprendendo che gli avrebbero attribuito l'indizione, nella cattedrale di Clermont o di Piacenza, della "prima Crociata" e l'esortazione alla cristianità di conquistare Gerusalemme! I "pamphlétaires", insomma, inventano un nome e gli costruiscono attorno una "leggenda nera". Un'aggressione costruita dalla storiografiaNon solo: sarà quella stessa propaganda europea che "rivelerà" al mondo musulmano (che se ne era dimenticato, o lo aveva considerato del tutto legittimo o, spesso, non se ne era neanche accorto) di essere stato "aggredito", molti secoli prima, da dei mascalzoni che, brandendo la croce, volevano distruggere l'Islam. In Occidente, l'oscura invenzione "crociata" ha finito coll'imprigionare nei sensi di colpa certi uomini della Chiesa stessa, ignari ormai del come le cose siano davvero andate. Ma, in Oriente, la leggenda si è rivoltata contro l'intero Occidente: ne paghiamo tutti - e ne pagheremo ancor più - le conseguenze, con il desiderio di rivalsa delle folle musulmane che chiedono vendetta contro il "Grande Satana". Che non è solo l'America, ma l'intera cristianità; quella, appunto, delle "Crociate": non sono forse gli occidentali stessi che insistono nel dire che sono state una terribile, imperdonabile aggressione contro i pii, devoti, mansueti seguaci del Corano? Chiunque abbia rispetto per il lavoro dello storico, sa che questo va tenuto al riparo dal moralismo, soprattutto se secondo la vulgata "politicamente corretta" in quel momento. Eppure, se proprio volessimo metterci su questo piano insidioso, c'è una domanda che dovremmo porci: nel quadro più che millenario di rapporti tra cristianità e Islam, chi fu l'aggredito e chi l'aggressore? I fattiQuando, nel 638, il califfo Omar conquista Gerusalemme, questa da ormai più di tre secoli è cristiana. Poco dopo, i seguaci del Profeta invadono e distruggono le gloriose chiese prima dell'Egitto e poi di tutto il Nordafrica, portando all'estinzione del cristianesimo nei luoghi che avevano avuto vescovi come sant'Agostino. Tocca poi alla Spagna, alla Sicilia, alla Grecia, a quella che verrà chiamata Turchia e dove le comunità fondate da san Paolo stesso diventano cumuli di rovine. Nel 1453, dopo sette secoli d'assalto, capitola ed è islamizzata, la stessa Costantinopoli, la seconda Roma. Il rullo islamico risale la Balcania, come per miracolo è fermato e costretto ad arretrare sotto le mura di Vienna. Intanto, sino addirittura al XIX secolo, tutto il Mediterraneo e tutte le coste dei Paesi cristiani che vi si affacciano sono "riserva" di carne umana: navi e paesi sono assaliti dagli incursori islamici, che se ne tornano nei covi magrebini carichi di bottino, di donne e di ragazzi per il piacere sessuale dei ricchi e di schiavi da far morire di fatiche o da far riscattare a caro prezzo da Mercedari e Trinitari. Si esecri, giustamente, il massacro a Gerusalemme nel 1099 ma non si dimentichi Maometto II nel 1480 a Otranto, semplice esempio di un corteo sanguinoso di sofferenze. Ancor oggi: quale Paese musulmano riconosce ad altri che non siano i suoi, i diritti civili o la libertà di culto? Chi si indigna del genocidio degli armeni ieri e dei sudanesi cristiani oggi? Il mondo, secondo i devoti del Corano, non è tuttora diviso in "territorio dell'Islam" e "territorio della guerra", tutti i luoghi, cioè, non ancora musulmani ma che devono diventarlo, con le buone o con le cattive? Non è questa l'ideologia sottesa, stando a molti, alla immigrazione di massa verso l'Europa? Un semplice ripasso della storia, pur nelle sue linee generali, conferma una verità evidente: una cristianità in continuo atteggiamento di difesa nei riguardi di una aggressione musulmana, dagli inizi sino ad oggi (in Africa, ad esempio, è in corso un'offensiva sanguinosa per islamizzare le etnìe che i sacrifici eroici di generazioni di missionari avevano portato al battesimo). Ammesso - e, probabilmente, non concesso - che qualcuno, nella storia, debba chiedere scusa a qualcun altro, dovranno forse essere i cattolici a farsi perdonare per quell'atto di autodifesa, per quel tentativo di tenere almeno aperta la via del pellegrinaggio ai luoghi di Gesù che fu il ciclo crociato?
di Vittorio Messori, Corriere della Sera, 26/7/1999

Il medioevo e la scienza

Il medioevo e la scienza
La creatività scientifica del Medioevo è poco praticata dagli storici. Una creatività che non ha nulla da invidiare a quella dei protagonisti della "rivoluzione scientifica" del Seicento.
Se osservate le statue che ornano il portale destro della facciata della cattedrale di Chartres, noterete due personaggi chini sotto il peso di due figure slanciate sovrastanti: sono Aristotele che regge sulle sue spalle la Logica e Pitagora che sostiene la Musica. L'idea è stata probabilmente suggerita allo scultore da uno dei maestri della scuola fiorita proprio a ridosso della cattedrale nel XII secolo, il cosmologo Bernardo di Chartres che così scriveva: «Siamo come nani sulle spalle di giganti, sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l'acutezza della nostra vista, ma perchè sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti». La frase esprime una consapevolezza diffusa tra gli studiosi medievali, soprattutto tra quelli delle scuole sorte a cavallo del Mille e che sono state il preludio alla grande epopea della prime università europee. I giganti erano naturalmente i filosofi e matematici greci, riscoperti, tradotti e studiati da quei "rozzi" e "dogmatici" monaci che così esprimevano con profondità di pensiero due categorie ancor oggi basilari per il progresso scientifico e tecnologico: il radicamento nella tradizione e la libertà di immaginare il nuovo. La miscela di questi due ingredienti ha fatto da detonatore per l'esplosione di una creatività scientifica il cui resoconto è poco praticato dagli storici militanti (ancor meno dagli autori di manuali scolastici) ed è inimmaginabile da quanti hanno costruito la loro visione del Medioevo leggendo Il nome della rosa e Il codice da Vinci.
Una creatività che non ha nulla da invidiare a quella dei protagonisti della "rivoluzione scientifica" del Seicento. [...] Un lavoro che si è poi sviluppato nel tentativo di rispondere nel modo più razionale possibile alle domande circa il comportamento della natura: con il potente supporto della logica, asse portante della formazione culturale dei medievali; e con la grande intuizione che la matematica era il linguaggio adatto a rispondere a quel tipo di interrogativi.
E di cose da raccontare ce ne sono tante. Come ha anticipato a Tempi il fisico Peter Hodgson, decano del Corpus Christi College di Oxford.
Per quale motivo, per chi si occupa di scienza oggi può essere interessante riscoprire le sue origini storiche e, in particolare, quelle maturate nel Medioevo europeo?
Per comprendere cos'è la scienza bisogna sapere come ha avuto inizio. Perché la scienza, come la conosciamo oggi, si è sviluppata proprio nella nostra civiltà occidentale e non in qualcuna delle altre grandi civiltà del passato? Quali sono le condizioni necessarie perché ciò possa accadere? Quale visione del mondo è essenziale per la nascita della scienza e da dove deriva? A queste domande si può rispondere guardando come la scienza moderna è iniziata nel Medioevo e come ciò è stato reso possibile dalla teologia cattolica che ha fornito la necessaria idea di una natura buona, ordinata, razionale, contingente e aperta alla mente umana. Le principali ricerche scientifiche oggi sono condotte lungo piste ben stabilite nell'ambito delle teorie più accreditate; per riuscire in tale impresa non è necessario sapere tutto circa le origini storiche della scienza. Ma quando si raggiunge un punto critico, quando le teorie correnti si rivelano inadeguate, allora diventa utile risalire ai fondamenti e lì cercare qualche "fresca" idea per ripartire. È accaduto così quando è apparso evidente che in alcuni casi la dinamica di Newton era insufficiente: e una nuova via è stata aperta da Einstein con la teoria della relatività. I più grandi scienziati sono partiti da una conoscenza profonda delle basi della scienza per sviluppare nuovi modi di guardare il mondo.
Se guardiamo ai risultati così come oggi vengono misurati nella comunità scientifica (cioè in termini di leggi, di risultati sperimentali, di pubblicazioni.), il bilancio del periodo medievale può sembrare deludente. Perchè allora uno scienziato dovrebbe occuparsene?
Ci vuole sempre del tempo perché appaiano i frutti di un grande sforzo; nessuno si aspetta di cogliere delle mele pochi mesi dopo aver seminato. La cosa essenziale però è che i semi siano piantati in un terreno buono, ben concimato e protetto dagli agenti infestanti; col tempo diventerà una pianta e darà frutti abbondanti. Vediamo allora a Oxford Roberto Grossatesta fondare il metodo sperimentale; a Parigi Giovanni Buridano, ispirato dalla dottrina cristiana della Creazione, fare il primo passo decisivo verso la elaborazione della dinamica proponendo il concetto di impetus, poi sviluppato da Newton nella prima legge del moto. Questi sono stati i passi essenziali, i semi dai quali è derivato l'enorme sviluppo della scienza moderna.
Allo stesso modo, la profonda credenza cattolica nella dignità dell'uomo ha incoraggiato l'invenzione e la realizzazione, soprattutto nelle abbazie, di macchine e strumenti come mulini (a vento e ad acqua), orologi, seghe; ma anche la staffa, il collare rigido e la rotazione delle colture, che hanno aumentato enormemente i raccolti sostenendo la crescita della popolazione. Questi risultati medievali costituiscono la prima rivoluzione industriale.
Quali sono gli aspetti culturali e sociali del Medioevo che è importante indagare per comprendere l'originalità della conoscenza scientifica e del suo metodo?
Per comprendere la peculiarità della conoscenza scientifica bisogna considerare la concezione della natura sulla quale è basata, insieme alle teorie e alle tecniche sperimentali necessarie per concretizzarla. I medievali, a partire dalle opere degli antichi greci, hanno tracciato le linee essenziali del metodo scientifico, ovvero: il riconoscimento della realtà oggettiva di un mondo razionalmente ordinato, l'esigenza di compiere esperimenti per rivelare i suoi segreti, il contributo vitale della matematica per fare emergere tale razionalità in modo sempre più preciso. Su queste basi si è sviluppato tutto il sapere scientifico fino ad oggi. Affinché ciò si realizzasse, era necessaria una struttura sociale tale da consentire e incoraggiare un dibattito libero e incondizionato. Ciò può verificarsi all'interno di gruppi ben tutelati dalle leggi e dalle autorità civili. Ed è proprio quello che offrivano le università medievali, fondate dalla Chiesa per insegnare teologia, filosofia e scienze naturali. Talvolta le autorità ecclesiastiche hanno dovuto intervenire direttamente, come nel 1277 quando il vescovo di Parigi, Etienne Tempier, ha condannato una lista di affermazioni contrarie alla fede in quanto limitatrici della potenza divina. Ma questo, paradossalmente, ha sortito l'effetto di incanalare le discussioni nella direzione che alla fine ha portato alla scienza moderna.
Ci sono delle figure della scienza medievale che si presentano come particolarmente esemplari e possono portare contributi utili al dibattito attuale sulla scienza e sui suoi rapporti con la cultura e la società?
Ho già accennato ai lavori pionieristici di Grossatesta e Buridano, ma posso citarne altri come Oresme, allievo di Buridano, o i matematici del Merton College come Bradwardine, Heytelsbury, Swineshead e Dumbleton. I loro contributi, e la scienza medievale in generale, sono stati studiati con notevole dettaglio nel Novecento da Pierre Duhem, Alistair Crombie, Marshall Clagett, James Weisheipl, Annalise Maier, J. H. Randall, Dana Durand, Edward Grant e molti altri. In particolare Pierre Duhem è considerato il fondatore della storiografia della scienza: i dieci volumi del suo monumentale Système du Monde, offrono un'ampia documentazione che permette di confutare l'idea persistente che l'oppressione di una Chiesa autoritaria abbia impedito ogni significativo progresso scientifico nel periodo tra l'antica Grecia e il Rinascimento.
di Mario Gargantini, Tempi, 19/07/2005

mercoledì 29 novembre 2006

Intervista a S. L. Jaki, storico esperto del caso Bruno

Intervista a S. L. Jaki, storico esperto del caso Bruno
da Cristianità, maggio-giugno 2000. Bruno non ha nulla a che vedere con la scienza.Bruno non è certamente un martire della scienza e neppure del libero pensiero, a meno che per "libero pensiero" non s'intenda "pensiero a ruota libera".
D. Padre Jaki, quest'anno ricorre il quarto centenario del rogo di Giordano Bruno, il filosofo e frate domenicano nato nel 1548 a Nola, nel Napoletano, e morto eretico impenitente a Roma, in Campo dei Fiori, il 17 febbraio 1600. Com'era prevedibile, i mass media hanno fatto un gran clamore, accusando la Chiesa di oscurantismo ed esaltando la figura del pensatore nolano, definito di volta in volta "martire della scienza", "apostolo della modernità", "precursore dell'illuminismo" e così via. Lei che, trent'anni fa, ha tradotto in inglese di questo autore La cena de le Ceneri. Descritta in cinque dialogi, per quattro interlocutori, con tre considerazioni, circa doi suggetti (The Ash Wednesday Supper, Mouton, L'Aia 1975), il primo scritto sull'opera del canonico e matematico polacco Mikolas Kopernik, italianizzato in Nicolò Copernico (1473-1543), può dirci qualcosa sul pensiero di Bruno? R. Per prima cosa voglio dire che Bruno non ha nulla a che vedere con la scienza. Trent'anni fa, quando decisi di tradurre il suo saggio La cena de le Ceneri, del 1584, dall'italiano-napoletano in inglese, avevo un'opinione diversa. A quel tempo pensavo che, siccome si trattava della prima opera pubblicata su Copernico, dovesse necessariamente contenere concezioni interessanti, sia su Copernico che sulla scienza copernicana. Fui completamente deluso, non solo perché in tale saggio non vi era alcuna traccia di scienza, ma addirittura il suo contenuto rappresentava un insulto a Copernico e alle sue concezioni. Purtroppo, perfino gente con un elevato grado di cultura crede ancora che Bruno abbia serie credenziali scientifiche. Altrimenti, per esempio, perché organizzare, presso l'università La Sapienza di Roma, un convegno internazionale dal titolo Giordano Bruno e la nuova scienza, al quale, il giorno 18 febbraio 2000, sono stato invitato come relatore? D. Nell'opera Giordano Bruno: A Martyr of science? (Real View Books, Royal Oak [Michigan] 2000) Lei scrive che "Bruno usò Copernico per promuovere fini non copernicani". Sembra un paradosso. Può precisare la sua argomentazione? R. Per Bruno, Copernico è solo un ariete, sicché un edificio ordinato come la visione del mondo aristotelico-tolemaica è distrutta in modo tale che la confusione, producendo rovine, diviene la regola suprema. Bruno non vuole sostituire queste rovine con la precisione dell'universo copernicano e del suo strumento, la geometria. Bruno distrugge, affinché la confusione e l'imprecisione possano regnare. D. Dunque, da parte di Bruno non si tratta di adesione alle teorie scientifiche di Copernico, ma semplicemente di un procedimento tattico? R. Sì, una tale tattica è chiaramente quella di un megalomane che, come tutti i megalomani, si mette una benda davanti agli occhi. Questo non gli permette di vedere i contorni definiti delle cose e lo induce a credere che anche tutti gli altri uomini possano chiudere i loro occhi davanti alla chiara evidenza. Perciò dovrebbe essere palese che, nell'usare Copernico, a Bruno sfugge il fatto che la sua tattica si rivelava immediatamente come qualcosa di chiaramente irrazionale. E' sempre irrazionale usare la ragione contro la ragione. Una cosa era celebrare Copernico come il grande distruttore del mondo chiuso di Aristotele (384-322 a. C.), un'altra era affermare che, una volta distrutti i confini limitati di quel mondo, rimaneva solo un'enorme entità, un "animale" - secondo un'espressione dello stesso Bruno - comprendente tutto quanto non poteva essere descritto con gli strumenti della geometria nel suo futuro corso d'azione. Una tale entità non ha confini, nessun ordine specifico e nessuna coerenza razionale. D. Uno dei luoghi comuni della cultura contemporanea vuole che Bruno sia andato al rogo per le sue idee sulla scienza. Bruno può essere considerato un "martire della scienza e/o del libero pensiero"? R. Bruno non è certamente un martire della scienza e neppure del libero pensiero, a meno che per "libero pensiero" non s'intenda "pensiero a ruota libera". Infatti, La cena de le Ceneri è una denuncia diretta e indiretta delle caratteristiche fondamentali della geometria: la precisione e la chiarezza. Lo scopo di Bruno consisteva nel promuovere una visione del mondo impregnata di misticismo occultista e magico. Invece, dall'inizio alla fine l'opera di Copernico De revolutionibus orbium caelestium libri VI, del 1543, è caratterizzata da un cospicuo uso della geometria e da una fervente ammirazione per la sua efficacia. Bruno rifiutava quell'esattezza che la geometria rappresentava. Non si cura neppure di studiare la complessità della geometria. Gli studiosi dell'università di Oxford, proprio durante il primo dibattito sul sistema copernicano, nel 1584, si rendono perfettamente conto che, a questo riguardo, Bruno non aveva compreso i punti nodali del sistema copernicano. Alle loro argomentazioni egli non replica con controargomenti, ma con aspre ingiurie. Gli studiosi di Oxford affermavano semplicemente che Bruno non conosceva realmente Copernico. Il suo interesse per la teoria copernicana aveva soltanto lo scopo di promuovere la visione di un nuovo ordine del mondo basato sull'occultismo. D. Come fondare questa affermazione? R. L'asserzione di Teofilo - il personaggio che ne La cena de le Ceneri espone il pensiero di Bruno - secondo cui, fra tutti gli uomini, solo lui può interpretare Copernico, dovrebbe suonare molto strana sulle labbra di uno che molto probabilmente non ha mai letto tutte le pagine del De revolutionibus orbium caelestium, ma solo una parte esigua di esse. D'altronde Bruno non ama la geometria, che ovunque conferma gli argomenti di Copernico, e con ogni evidenza non ha nessuna preparazione relativa al tipo di geometria necessaria per capire e per assimilare i ragionamenti copernicani. Perfino nelle traduzioni moderne il De revolutionibus orbium caelestium rimane un testo ostico da seguire per chiunque non sia preparato in quella che più tardi verrà conosciuta come geometria differenziale. D. Vi sono altre ragioni che rendono discutibile la qualifica di Bruno quale "martire della scienza"? R. Bruno non può essere considerato un martire della scienza anche perché, esaminando gli elenchi dei suoi errori compilati dai tribunali dell'inquisizione di Venezia e di Roma, si può notare come, fra le accuse, l'eliocentrismo costituisca solo una piccola parte. In realtà, Bruno è un eretico a tutto tondo: non vi è dogma della fede cristiana che egli non abbia negato, almeno implicitamente. Certamente è deprecabile che sia stato messo al rogo, ma rimane il fatto che il distacco di Bruno dall'ortodossia cristiana era così ampio e profondo, che lo stesso destino gli sarebbe stato riservato sia nella "repubblica teocratica" costruita nell'elvetica Ginevra da Jean Cauvin - italianizzato in Giovanni Calvino (1509-1564) - che nell'Inghilterra di Elisabetta I Tudor (1533-1603), se fosse rimasto in entrambe per lo stesso lasso di tempo. A Ginevra viene scomunicato dal Concistoro calvinista, e sarebbe stato immediatamente arrestato, se non fosse sfuggito alla presa della teocrazia calvinista il più velocemente possibile. D. Normalmente Bruno è considerato il filosofo dell'infinito. Già il canonico e filologo inglese Richard Bentley (1662-1742), scrivendo al matematico e fisico, pure inglese, Isaac Newton (1642-1727), intravede, fra l'altro, che l'idea di un universo omogeneo e infinito avrebbe potuto servire da copertura per l'ateismo. Alla luce della teoria della relatività Bruno, con il suo infinito, precorre la scienza moderna? R. Nell'opera De l'infinito universo et mondi, del 1584, Bruno scrive: "Ci sono soli innumerevoli e un numero infinito di terre orbita attorno a quei soli, così come i sette che noi possiamo osservare orbitanti attorno al sole che è vicino a noi". Tali e simili affermazioni sono state invariabilmente addotte dagli ammiratori di Bruno, che lo considerano un profeta della moderna visione scientifica del mondo. Quella dell'infinità era una pretesa curiosa già nel contesto dei suoi tempi, ed è un'assurdità dal punto di vista della scienza moderna. Infatti l'universo di Copernico è rigorosamente finito. L'astronomo e matematico tedesco Johannes Kepler, italianizzato in Giovanni Keplero (1571-1630), sostiene con forza che le stelle sono contenute in un ristretto guscio sferico di 2000 leghe tedesche, un'antica unità di misura, variabile a seconda delle nazioni fra i 4 e i 5,5 chilometri, in Germania pari a circa 10 mila chilometri. In verità, egli fa questa affermazione avendo presente, per oppositionem, la convinzione di Bruno che le stelle siano omogeneamente distribuite in un universo infinito. Inoltre, il fisico e matematico italiano Galileo Galilei (1564-1642) sostiene la finitezza dell'universo, senza tuttavia specificare l'ampiezza del guscio nel quale le stelle sono collocate. Newton non sostiene mai l'idea di un universo infinito e mai rigetta un suo saggio giovanile nel quale esplicitamente sosteneva la finitezza dell'universo. L'idea di un universo newtoniano infinito, che appare sporadicamente durante il secolo XVIII, diviene largamente diffusa soltanto nel secolo XIX, sebbene non tanto fra gli scienziati, quanto fra alcuni filosofi e scrittori di scienza. Gli scienziati sapevano bene che un universo infinito, nel quale le stelle siano omogeneamente distribuite, sarebbe colpito da due paradossi: quello ottico e quello gravitazionale. Com'è ben noto, la soluzione del medico e astronomo tedesco Whilelm Olbers (1758-1842) al paradosso ottico era sbagliata: infatti si basava sull'asserto che una parte della luce delle stelle fosse assorbita dall'etere interstellare e conseguentemente il cielo apparisse scuro di notte; ma la soluzione sarebbe stata valida solo se l'etere, o qualsiasi altro mezzo interstellare, non si fosse a sua volta surriscaldato assorbendo luce e riemettendola all'esterno, come di fatto avviene per effetto delle leggi della termodinamica. Durante gli ultimi decenni del secolo XIX, e per la maggior parte dei primi tre decenni del secolo XX, gli astronomi credevano che l'universo visibile o investigabile fosse rigorosamente finito, e che la parte infinita fosse situata al di là di quella finita, e pertanto non avesse alcuna influenza fisica, sia gravitazionale che ottica, su quest'ultima. Nello stesso periodo l'astrofisico tedesco Johann Carl Friedrich Zöllner (1834-1882) e altri asserivano che, per evitare il paradosso gravitazionale, bisognava postulare che la massa totale dell'universo fosse finita e che tale massa doveva essere contenuta entro una sfera quadridimensionale non euclidea. Comunque, dopo la pubblicazione, nel 1917, della quinta memoria del fisico tedesco, naturalizzato svizzero, Albert Einstein (1879-1955) sulla relatività generale, che tratta delle sue conseguenze cosmologiche, la finitezza della massa totale dell'universo è divenuta una pietra angolare delle maggiori cosmologie scientifiche. Alla luce delle implicazioni cosmologiche della teoria generale della relatività anche il filosofo e fisico tedesco Moritz Schlick (1882-1936), fondatore del positivismo logico, ammette che "l'infinità spaziale del cosmo deve essere rifiutata". D. Se le asserzioni di Bruno devono essere considerate anti-scientifiche nei confronti della scienza moderna, che cosa dire di esse in relazione alla scienza medioevale? R. Bruno rifiutava qualsiasi sistema definito, sosteneva una visione del mondo per la quale ogni cosa si trasformava perpetuamente in ogni altra: agli occhi di Bruno nulla ha un carattere permanente, ogni oggetto può divenire qualsiasi altro. Nella sua visione delle cose non vi è differenza alcuna fra le stelle e i pianeti: è come se la nostra Terra si trasformasse in una stella simile al sole e viceversa. Diversamente, durante il Medioevo, uno dei versetti biblici citati più spesso era quello tratto dal Libro della Sapienza (11, 20): "Dio ha disposto ogni cosa secondo misura, calcolo e peso". Questa citazione sapienziale esprime chiaramente il clima intellettuale che si è venuto a creare in epoca medioevale per la grande considerazione in cui era tenuta la geometria. In tutte le civiltà antiche il mito dell'eterno ritorno è causa di morte prematura della scienza: nell'antico Egitto, in Cina, in India e nella Grecia classica. Solo nel Medioevo cristiano la scienza sfugge alla sindrome della sua inevitabile morte. Allora l'ipotesi dell'eternità dell'universo, presente nella cosmologia greca, viene abbandonata in considerazione del dogma cristiano della creazione ex nihilo et in tempore. Questo mutamento comporta, in particolare, una sostituzione delle leggi aristoteliche del moto con la legge del moto inerziale formulata dai filosofi e teologi scolastici francesi Jean Buridan, italianizzato in Giovanni Buridano (1300 ca.-1360 ca.), e Nicole d'Oresme (1323-1382), fatto di grande aiuto per Copernico e per i suoi primi seguaci. Un altro grande contributo dei medioevali alla scienza newtoniana è l'invenzione dell'ars latitudinis, ovvero dell'uso delle dimensioni geometriche per rappresentare le grandezze fisiche. Essa è basilare per lo sviluppo successivo della geometria analitica da parte del filosofo e matematico francese René Descartes, italianizzato in Renato Cartesio, (1596-1650) e aiuta Galileo nel calcolare che le distanze coperte dai corpi in caduta libera sono proporzionali al quadrato del tempo. Pertanto, se il mondo moderno ha una scienza, lo deve alla cultura della Cristianità medioevale. D. Ritiene che questa sua affermazione possa essere pacificamente accettata dalla cultura dominante e diffusa nell'Occidentale contemporaneo? R. Precisamente al contrario, questa verità ai nostri tempi viene misconosciuta in modo sistematico. La società moderna non potrebbe vivere un solo secondo senza l'aiuto della scienza: Internet, computer superveloci, fibre ottiche... Vi sarà sempre più sviluppo scientifico nella nostra vita. Tuttavia, questa cultura moderna vuole la totale confusione, il totale soggettivismo a livello filosofico. Il liberalismo moderno vuole distruggere tutti i princìpi, tutte le norme accettate e non vuole sostituirle con altre regole specifiche. I princìpi fondamentali del liberalismo moderno possono essere condensati in un unico concetto: l'assoluto permissivismo. In questo modo le politiche e le legislazioni moderne, profondamente ancorate a una sempre maggiore permissività, stanno portando la società occidentale al decadimento. Da questo punto di vista, Bruno deve essere considerato solamente come il perfetto precursore di quei filosofi e sociologi moderni che vogliono abbattere ogni regola e specificità. Siate assolutamente orgogliosi dell'eredità trasmessa dalla cultura cristiana.
intervista a cura di Cosimo Baldaro e Cosimo Galassotratto da Cristianità, 28 (2000) maggio-giugno, n. 299, p. 13s.

1894-1915 Il genocidio degli armeni

RAZZISMO - Il massacro pianificato dallo Stato turcoagli inizi del 1900: "soluzione finale"per 1500000 persone uccise con le armi o con la fame IL GENOCIDIODEGLI ARMENI
Andranik, leggendario comandantedella resistenza armena
di FERRUCCIO GATTUSO

Il genocidio degli armeni è stato giustamente definito il "prototipo dei genocidi del ventesimo secolo", l'esempio perfetto della distruzione il più possibile completa di un gruppo etnico da parte di uno Stato, il tragico capitolo primo di un secolo che si è chiuso con altri capitoli sanguinari, e altre pulizie etniche. L'importanza di questo genocidio, quindi, si impone non solo per un motivo cronologico. La distruzione "scientifica" del popolo armeno da parte dello stato turco si rivela un tragico paradigma sia per le tecniche impiegate che per l'elemento di ispirazione nei confronti di altri propositi genocidari.In ultimo, l'anno Duemila segna l'ottantacinquesimo anniversario del genocidio armeno. Il caso armeno rivela anche una verità sulla quale raramente ci si ferma a riflettere: un popolo diventa possibile obbiettivo di un genocidio quando si realizzano contemporaneamente due fenomeni paradossalmente contrari, quando cioè al punto di maggiore debolezza e minoranza si somma un irrazionale atteggiamento ossessivo da parte di una maggioranza antagonista. Come nel caso degli ebrei, il genocidio si rivela possibile quando il bersaglio non è attrezzato a difendersi, non quando è potente o esercita un effettivo potere d'influenza nella società in cui vive. Anche da questi presupposti nasce la necessità storica della creazione dello stato d'Israele. Seppure una serie di zelanti storici "negazionisti" si sia affannata a negare il genocidio armeno, esistono documenti inoppugnabili i quali dimostrano come il governo turco abbia pianificato e pianifichi freddamente l'eliminazione fisica del popolo armeno.La mancanza di un'adeguata esposizione del genocidio armeno agli occhi dell'opinione pubblica la si deve a due fondamentali fattori: l'operazione di sterminio è stata condotta in pieno conflitto mondiale (1915), in una situazione in cui operazioni militari e perdite di vite umane potevano essere meglio mascherate e l'atteggiamento calcolatore delle Potenze occidentali, che hanno sempre riconosciuto alla Turchia un importante ruolo di baluardo e contenimento, prima verso l'integralismo islamico, poi verso l'imperialismo sovietico.Armenia, una porta verso l'Oriente - Gli armeni giunsero intorno al VII secolo a.C. in quel territorio situato a sud del Caucaso e del mar Nero, a est dell'altopiano anatolico, a ovest del mar Caspio, in una zona montuosa, fertile e strategica, dal momento che attraverso essa passa una delle fondamentali vie per l'Oriente. Da sempre, quindi, l'Armenia è una regione che fa gola a tutti i popoli dominatori adiacenti, dai persiani ai greci, dai romani agli arabi. L'unico modo per sopravvivere è quello, tradizionale, di giocarsi periodicamente le alleanze, sfruttando le rivalità tra Bisanzio e la Persia. La sopravvivenza, però, passa anche per una propria precisa identificazione: gli armeni diventano così, tra il IV e il VI secolo d.C., cristiani, ma appartenenti ad una Chiesa nazionale, che li pone in contrasto con quella occidentale.Periodiche invasioni turche spingono gli armeni verso la Cilicia dove, tra le montagne dell'Amano e del Tauro, prende forma la Nuova Armenia, che resisterà fino alle porte del XVI secolo. Si affaccia infatti sulla scena l'impero Ottomano che
La sepoltura delle vittime dopo il massacroavvenuto a Erzerum (ottobre del 1835)
occupa la parte occidentale dell'Armenia, mentre quella orientale finisce alla Persia. Da questo momento gli armeni diventano cittadini ottomani, di un impero plurinazionale che, benché di maggioranza musulmana, si dimostra tollerante verso le minoranze cristiane, rispettandone lingua e cultura. È, tutto questo, parte di un "contratto", che prevede comunque, per i non musulmani, una condizione di inferiorità nel campo dei diritti civili: quella del Sultano è una teocrazia, dove l'Umma (comunità credente) domina i dhimmis (i "protetti").Questi ultimi sono cristiani ed ebrei, che non possiedono terre proprie, pagano più imposte e, di fronte alla sharia - combinazione di legge civile e religiosa basata sul Corano - si rivelano cittadini di classe inferiore. In un processo, ad esempio, una testimonianza di un cristiano contro un musulmano non ha valore. Gli armeni, quindi, non hanno il minimo accesso alla vita politica dell'Impero.La disgregazione dell'Impero: il seme del genocidio - Per quanto possa sembrare paradossale, in questa condizione di subalternità all'interno di un solido regime imperiale gli armeni non corsero alcun rischio. Questa situazione di debolezza risultò letale solo quando l'Impero ottomano cominciò la sua lunga crisi, divenendo agli occhi dell'Occidente il "malato d'Europa". Fu quindi l'inizio del declino dell'Impero sovranazionale, in contemporanea al sorgere dei nazionalismi ispirati dagli irredentismi europei, quello armeno, che cominciava ad avanzare qualche rivendicazione, e quello turco (i Giovani Turchi), a creare la pericolosa miscela di ossessione e razzismo da cui sarebbe sprigionato il genocidio. Dopo la proclamazione dell'indipendenza della Grecia nel 1822, le popolazioni balcaniche si ribellano al sultanato e chiedono autonomia.La Russia, eterna rivale dell'Impero ottomano cerca di ottenere vantaggi da questa crisi: da più di un secolo la Russia si propone come la protettrice degli ortodossi in Medio Oriente, strategia che le permette una continua ingerenza nell'area. I trattati di Londra del 1827 e di Parigi del 1856 si rivelano una fastidiosa arma di intervento nella zona di pertinenza ottomana da parte delle Potenze occidentali, per di più l'Europa chiede alla Sublime Porta (il governo ottomano) continue riforme.È una politica del tira e molla da parte delle Potenze europee, perché l'Impero Ottomano è comunque alleato fondamentale per il contenimento della Russia. Da parte loro, gli armeni, esercitano una pressione autonomistica su un fronte legale (il patriarcato di Costantinopoli porta la questione armena sulla scena internazionale) e illegale (dal 1890 nascono partiti rivoluzionari che sostengono la lotta armata, come la Federazione Rivoluzionaria Armena, il FRA).Questa particolare combinazione di pressioni esterne ed interne all'Impero si rivelerà fatale per gli armeni. "Nessuno stato -scrive inconfutabilmente Claude Mutafian - è più crudele di un grande impero in agonia".1894-1986: i primi massacri - Quasi a voler saggiare la capacità di reazione delle Potenze europee, il sultano Abdul Hamid pianifica nel 1894 il primo massacro di massa contro gli armeni. Il piano criminale scatta nella regione di Sassun, a ovest del lago Van. Una campagna di disinformazione, che accusava gli armeni di tradimento e complottismo, servì ad accendere gli animi della maggioranza musulmana. In nemmeno due anni i primi pogrom anti-armeni causano la morte di più di 200.000 persone, la conversione forzata all'Islam di decine di migliaia di persone, e un esodo di massa fuori dai confini dell'Impero. L'eccidio viene perpetrato davanti agli osservatori europei, che non mancano di informare (in documenti perfettamente reperibili) i propri governi, i quali decidono comunque di non intervenire. È il segnale che il sultanato attende: la scintilla era scoccata, e negli anni seguenti avrebbe incendiato tutta l'Armenia.La fine dell'Impero Ottomano - L'eccidio era stato però l'ultimo atto disperato di un potere destinato al crollo. Per quanto possa sembrare paradossale, considerando gli eventi successivi, i rivoluzionari armeni si alleano ai nazionalisti turchi in chiave anti-ottomana e, nel luglio 1908 un putsch condotto dal partito Unione e Progresso chiude l'era ottomana e stabilisce un regime costituzionale. Sono i Giovani Turchi, nome col quale l'Europa definisce, ottimisticamente, i rappresentanti di una Turchia che si immagina finalmente europea a tutti gli effetti. I Giovani turchi, in realtà, sono divisi al loro interno, e finisce per
Una donna armena e i suoi bambini morti di stentiin un campo di sterminio organizzato dai Turchi
vincere l'ala più oltranzista, decisamente anti-ottomana e di conseguenza più nazionalista. L'indipendenza della Bulgaria, il passaggio della Bosnia-Erzegovina all'Impero austro-ungarico, quello della Tripolitania all'Italia nel 1911, i conflitti balcanici nel 1912 e nel 1913 smembrano progressivamente l'ex-Impero Ottomano, e questo non può che radicalizzare il nuovo governo turco.Il misto di sconfitte e nazionalismo crea quindi le basi per il genocidio armeno agli albori del XX secolo. Nell'aprile 1909 una seconda ondata di massacri colpisce gli armeni, nella zona della Cilicia, prima ad Adana, la città maggiore, poi in tutta la provincia. In due ondate violentissime il partito Unione e Progresso (Ittihad) pianificano il massacro di 30.000 persone, nel silenzio generale da parte delle Potenze europee. Intanto il governo si trasformava in una dittatura oligarchica affidata a tre "uomini forti", Djemal, Enver e Talaat, che avrebbero ottenuto i ministeri della Marina, della Guerra e dell'Interno.La Grande Guerra e il genocidio armeno - La Grande Guerra offre al governo turco l'opportunità di "chiudere i conti" con gli armeni. La Turchia entra in guerra a fianco delle Potenze centrali. Da parte loro, gli armeni si dividono in più fazioni: chi è per la neutralità, chi si propone di combattere per la Turchia "da cittadino ottomano" e chi si schiera con i Russi. Sul confine fra Turchia e Russia, infatti, avvengono gli scontri più duri, a tutto favore di quest'ultima. Nella loro ritirata attraverso la regione armena, i soldati turchi si convincono che buona parte della responsabilità della sconfitta risiede nei "traditori" armeni. In realtà, nelle file russe ci sono anche armeni, ma sono quelli da sempre appartenenti alla Russia, non quelli "ottomani".Il terreno è fertile per far fiorire il genocidio. Tra il dicembre 1914 e il febbraio 1915 il Comitato centrale del partito Unione e Progresso, guidato da due medici - i dottori Nazim e Behaddine Chakir - pianifica la totale soppressione degli armeni come popolo. Viene creata la famigerata Organizzazione Speciale, una struttura paramilitare dipendente dal ministero della Guerra, ufficialmente incaricata di operazioni spionistiche oltre confine, ma segretamente incaricata di sterminare gli armeni (ai messaggi ufficiali di non toccare la popolazione armena durante le operazioni militari seguivano contrordini in codice di segno opposto). Oltre a ciò, detenuti comuni vennero scarcerati e addestrati per far parte di squadre irregolari (i tchété), adibiti ai lavori più sporchi. Il piano scatta tra il gennaio e l'aprile 1915: i soldati armeni, che avevano combattuto per il governo turco, vengono disarmati, raggruppati con la scusa di eseguire lavori specifici di ricostruzione ed eliminati lontano dai centri abitati.Alla fine di aprile, con il pretesto di una rivolta armena scoppiata a Van, 2345 notabili armeni di Costantinopoli vengono arrestati, nei mesi successivi tutta l'élite intellettuale (scrittori, giornalisti, poeti come Daniel Varujan, parlamentari come Krikor Zohrab) vengono deportati verso l'interno dell'Anatolia e massacrati lungo il percorso. Tra il mese di maggio e il mese di luglio dello stesso anno gli armeni di 7 provincie orientali - Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput - vengono uccisi o deportati. Gli uomini in salute vengono uccisi sul posto, donne, bambini e vecchi vengono deportati, obbligati a sostenere lunghe marce verso il deserto, all'unico scopo di farli morire di fatica. I convogli vengono fatti attaccare da nomadi curdi al servizio del governo.Nel mese di agosto, per quanto possa sembrare incredibile, il governo turco è riuscito a sradicare completamente gli armeni da una regione nella quale avevano vissuto per secoli.
Pogrom contro gli armeni in undisegno del primo Novecento
Tra l'agosto 1915 e il luglio 1916 scatta la seconda fase del genocidio: l'eliminazione degli armeni nella altre zone della Turchia, in particolare quelle dell'Ovest, lontane dal fronte di guerra, come la Cilicia. I pochi sopravvissuti vengono raccolti in campi di concentramento in Siria, nel Sud del paese, alcuni condotti verso la Mesopotamia, per la precisione a Deir es-Zor, il cui carnaio del luglio 1916 passerà alla storia come il simbolo del genocidio armeno. In un anno solamente - queste le agghiaccianti cifre - un milione e mezzo di armeni vengono uccisi, 100.000 bambini vengono presi da turchi e curdi e cresciuti sotto l'Islam e sotto un'altra lingua.La fine della guerra e il completamento del genocidio - La sconfitta della Turchia nella Prima guerra mondiale sembrò portare ad un riscatto dei 600.00 armeni sopravvissuti al genocidio, ma paradossalmente le pressioni dei vincitori per processare i responsabili dell'immenso massacro, unite alla forzata nascita (Conferenza di Pace, Trattato di Sèvres, agosto 1920) di una Repubblica d'Armenia e di un Kurdistan indipendenti, servì solo a completare lo sterminio. Dopo la caduta di Abdul Hamid e dei Giovani Turchi il potere finisce a Mustafà Kemal, deciso ad imporre il nazionalismo turco e a completare l'opera dei predecessori nei confronti degli armeni. Kemal seppe sfruttare con astuzia la diffidenza tra la nuova Russia bolscevica e gli Alleati occidentali. Nell'indifferenza generale, e con assoluto disprezzo delle disposizioni del Trattato di Sèvres, Kemal ordinò alle proprie truppe, agli ordini del generale Karabekir, di invadere l'Armenia e, con l'aiuto della rediviva Organizzazione speciale, attuò la fase finale del genocidio. L'incendio di Smirne (settembre 1922) può essere considerato l'epilogo del genocidio. La Conferenza di Losanna del 1923 si premurò di annullare gli accordi di Sèvres, e nei protocolli sono addirittura assenti le espressioni "Armenia" e "armeno". L'Europa dava il suo avallo al massacro.Il negazionismo turco - Esistono importanti testimonianze sul genocidio armeno. Nel luglio 1915 Johannes Lepsius- un pastore tedesco che aveva già assistito ai massacri del 1894-96 - torna a Costantinopoli e assiste al nuovo eccidio. Nel 1916 il pastore pubblica il Rapporto segreto sui massacri d'Armenia, e nel 1919 una raccolta di documenti diplomatici dal titolo La Germania e l'Armenia, 1914.1918, entrambe schiaccianti testimonianze di ciò che era avvenuto. Dalle Memorie dell'ambasciatore americano Morgenthau è invece possibile raccogliere le confidenze ottenute dallo stesso ministro Talaat (del quale vergognosamente esiste un mausoleo sulla "collina dei martiri" a Costantinopoli) il quale affermava che le deportazioni erano il "risultato di lunghe e serie riflessioni".Non solo: "Ci hanno rimproverato di non aver fatto distinzione, in mezzo agli armeni, tra gli innocenti e i colpevoli: è assolutamente impossibile, perché gli innocenti di oggi saranno forse i colpevoli di domani". O, infine: "Noi abbiamo già liquidato la posizione di tre quarti degli armeni […] bisogna che la finiamo con loro, altrimenti dovremo temere la loro vendetta".
Il Libro Blu, edito nel1916, contiene piùdi 150 documentiprovenienti da testimoni neutrali
Sempre da parte americana, e per di più filo-turca, The Slaughterhouse Province (La provincia mattatoio)", del console americano a Khapurt, Leslie Davis, dove, datato luglio 1915 si può leggere in una lettera a Morgenthau :"Li hanno semplicemente arrestati e uccisi nell'ambito di un piano generale di sterminio della razza armena". Di grande importanza è anche il Libro Blu britannico redatto dal diplomatico James Bryce. In un discorso alla Camera dei Lords, il 6 ottobre 1915, Bryce documentò l'uccisione premeditata di almeno 800.000 armeni.Il Libro Blu, edito l'anno successivo, contiene più di 150 documenti provenienti da testimoni neutrali, con contributi anche fotografici. Il negazionismo turco del genocidio armeno poggia su tre argomenti. Il primo, sostenuto sin dal 1915, cerca di ribaltare le responsabilità, accusando gli armeni di aver tradito la Turchia, di avere attuato un genocidio contro i Turchi (il riferimento è ad alcuni attacchi a villaggi turchi da parte di bande armene venute dalla Russia). Il secondo argomento - che cerca di smontare l'intera esistenza del genocidio - nega che da parte del governo turco ci sia stata l'intenzione e la premeditazione dello sterminio.La Turchia ammetterebbe la deportazione e i massacri, ma non la pianificazione scientifica del genocidio. Nel 1988 la pubblicizzata apertura degli archivi ottomani (trattati con cura nei settant'anni precedenti) rivelerà solo la clamorosa falsificazione di documenti che, nell'intenzione di Ankara, attesterebbero l'innocenza turca. Il terzo argomento è quello della sfida delle statistiche. Quanti erano gli armeni nell'Impero Ottomano prima del genocidio? Il sopravvissuto patriarcato armeno di Costantinopoli dice 2.100.000 persone, i turchi 1.290.000, mentre la cifra delle vittime sarebbe, per gli armeni, 1.500.000, per i turchi da 200.000 a 800.000.Anche seguendo l'indicazione turca, non si potrebbe fare a meno di constatare che più della metà degli armeni sono stati eliminati. Dal 1973 al 1987 il riconoscimento del genocidio armeno subisce un percorso incerto, soprattutto a causa del governo turco, il quale fa pesare sulla bilancia il proprio fondamentale ruolo atlantico nella Guerra Fredda. Il 18 giugno 1987 il Parlamento europeo ammonisce che il rifiuto di riconoscere il genocidio armeno costituisce un ostacolo all'ingresso della Turchia nella Comunità Europea.

Bibliografia
"Lo stato criminale" di Yves Ternon, pp.227426, Edizioni Corbaccio, 1997
"Metz Yeghérn - Breve storia del genocidio degli armeni", di Claude Mutafian, pp. 76, Edizioni Angelo Guerini e associati, 1995
"Il secolo del martirio" di Andrea Riccardi, pp. 522, Arnoldo Mondadori Editore, 2000
"Armeni - Un popolo in esilio", di David Marshall Lang, pp.204, Edizioni Calderini, 1989

martedì 28 novembre 2006

L'inquisizione secondo gli studi recenti
La Chiesa con l'inquisizione creò dei meccanismi giuridici per la garanzia dell'imputato.
Ecco come il napoletano Giovanni Romeo e il danese Gustav Henningsen con due libri recenti, hanno capovolto uno dei luoghi comuni della storia europea. Nascita della leggenda nera «Preferivo (...) essere consegnato ai selvaggi e mangiato vivo piuttosto che cadere negli artigli spietati dei preti ed essere trascinato davanti all'Inquisizione». E' una paginetta di Robinson Crusoe di Daniel Defoe, che fu il breviario della borghesia britannica ed europea. Una borghesia rapace, lanciata nella conquista coloniale, nella riesumazione del più feroce schiavismo e nella pratica sistematica del genocidio: dall'India alle praterie dei pellerossa americani, agli indigeni australiani. Ma che nei suoi salotti raffinati fremeva indignata al sentir parlare di Sant'Uffizio. Ricordate la «leggenda nera» dell'Inquisizione? E la crudele follia degli inquisitori, aguzzini per vocazione, belve assetate di sangue? Da almeno due secoli come un macabro ritornello grava sulla Chiesa questa colpa storica. Ebbene: «Il XX secolo si appresta a lasciare in eredità al terzo millennio che s'apre un'immagine sorprendentemente nuova dei tribunali come quelli inquisitoriali, tradizionalmente relegati dal nostro immaginario collettivo tra gli orrori del fanatismo clericale». Lo scrive Giovanni Romeo, storico, docente, all'Università di Napoli e autore del libro Inquisitori, esorcisti e streghe (nell'Italia della Controriforma), uscito di recente da Sansoni. Gli storici non hanno dubbiPer gli specialisti, ormai, è un'acquisizione pacifica. Si cominciò negli anni Sessanta, quando due studiosi francesi nel volume L'Inquisition arrivarono alla conclusione che «il Sant'Uffizio era talvolta l'organismo più obbiettivo della sua epoca». La rivista Critica storica ha scritto addirittura che con gli anni e il boom delle ricerche d'archivio si è «continuato ripetendo continuamente elogi sulla razionalità delle procedure e sulla mitezza dei tribunali dell'Inquisizione». Scoperta non più come un'entità demoniaca quanto come «una istituzione dotata di regole razionali e capace all'occorrenza di moderare l'uso della tortura e di scoraggiare denunce e delazioni». Luigi Firpo, lo storico più laicista d'Italia, a cui il cardinale Ratzinger volle aprire le porte dell'Archivio dell'ex Santo Uffizio, arrivò a dichiarare: «Davanti a quel tribunale, più che dei colpevoli di reati di opinione, dei paladini della libertà di pensiero, comparvero delinquenti comuni, persone colpevoli di atti che anche il diritto moderno considererebbe reati... Gli Ucciardone e le Rebibbia di oggi sono vere bolge infernali rispetto alle troppo diffamate celle dell'Inquisizione... era per esempio prescritto che lenzuola e federe si cambiassero due volte la settimana: roba da grande albergo (...). Una volta al mese i cardinali responsabili dovevano ricevere uno a uno i prigionieri per sapere di cosa avessero bisogno». Le garanzie giuridiche L'Inquisizione, naturalmente, non fu un benevolo salotto da raccomandare per piacevoli conversazioni, eppure ideò garanzie giuridiche sconosciute ai tribunali laici del tempo (comprese le licenze ai detenuti, che non sono state inventate dal senatore Gozzini). Ma è una realtà storica pressoché sconosciuta, fuori dalla cerchia degli specialisti. Vi fu addirittura uno storico che leggendo nelle sentenze «carcere perpetuo» intese ergastolo, mentre significava semplicemente tre anni di prigione spesso da scontare in un convento o a casa propria (l'ergastolo è un'invenzione moderna, della Rivoluzione francese). Ma fuori dalle accademie per specialisti la leggenda nera, da due secoli, continua ad imperversare su libri, mass media, manuali e giornali. Le Goff sconfessa la leggenda nera Due secoli dopo Defoe, un best seller del nostro tempo, Il nome dello rosa, in omaggio alla superficialità, dipinge di nuovo l'inquisitore Bernardo Gui, come un torvo e forsennato sanguinario. E' toccato a Jacques Le Goff, che, per la Chiesa non ha mai dimostrato molte simpatie, prendere le distanze dalla falsificazione storica di Eco, che nel caso di Bernardo Gui è addirittura scandalosa (cfr. Tuttolibri, 18 ottobre 1986). Le Goff cita il manuale dell'Inquisitore scritto da Bernardo Gui nel XIV secolo, dove emerge una saggezza giuridica e un senso dell'umanità che sono ben rari nelle moderne magistrature: «In mezzo alle difficoltà e ai contrasti» scriveva Gui «l'inquisitore deve mantenere la calma, né mai cedere alla collera e all'indignazione... Non si lasci commuovere dalle preghiere e dall'offerta di favori da parte di quelli che cercano di piegarlo; ma non per questo egli dev'essere insensibile sino a rifiutare una dilazione oppure un alleggerimento di pena, a seconda delle circostanze e dei luoghi. Nelle questioni dubbie, sia circospetto, non creda facilmente a ciò che pare probabile e che spesso non è vero. Né sia facile a rigettare l'opinione contraria, perché sovente ciò che sembra improbabile può risultare vero. Egli deve, ascoltare, discutere e sottoporre a un diligente esame ogni cosa, al fine di raggiungere la verità. Che l'amore della verità e la pietà, le quali devono sempre albergare nel cuore di un giudice, brillino dinanzi al suo sguardo, sicché le sue decisioni non abbiano giammai ad apparire dettate dalla cupidigia o dalla crudeltà». La tesi di Henningsen: il Medioevo cristiano fu immune dalla follia della caccia alle streghe All'avanguardia negli studi è stato lo storico danese Gustav Henningsen, autore di un importante saggio sulla figura dell'inquisitore spagnolo Alonso de Salazar Frìas. Il libro, uscito negli Usa nel 1980, è stato finalmente tradotto in Italia da Garzanti che l'ha mandato in libreria proprio in questi giorni: L'avvocato delle streghe (eretici e inquisitori nella Spagna del Seicento) (pagg. 368, L. 39.000). Quale la sua tesi? Innanzitutto il Medioevo cristiano fu immune dalla follia criminale della caccia alle streghe. Per più di mille anni, per tutti i cosiddetti «secoli bui», non esistono né cacce, né roghi di streghe: il pronunciamento della Chiesa, che fa testo per tutto il Medioevo, su quel fenomeno è il Canon episcopi, attribuito al Concilio di Ancira del 314 d.C., che dissolve con tolleranza, scetticismo e perfino ironia tutte le tenebrose superstizioni -comprese le streghe- che le popolazioni europee avevano ereditato dall'antichità pagana. Un fenomeno moderno ispirato da Lutero e Calvino L'ossessione sanguinaria della caccia alle streghe è un fenomeno tutto moderno: comincia sul finire del 1400 e prosegue per un paio di secoli, soprattutto nei Paesi protestanti. Tra gli ultimi tragici episodi vi è quello di Salem, nel New England, la terra nuova della tolleranza protestante e dei diritti dell'uomo, dove furono bruciate venti presunte streghe. «Non devono avere alcuna compassione per queste malvagie, vorrei bruciarle tutte» sentenziava Martin Lutero. Calvino, poi, nella sua Ginevra, fu un vero piromane. Il regno di terrore non colpiva solo i cattolici e i dissidenti. Michelet ha scritto che nel 1513, in soli tre mesi, bruciarono 500 streghe. Il mondo protestante fu davvero scatenato nei confronti delle streghe. Con l'ossessione del demoniaco e del male irredimibile, la Riforma produsse «effetti dilanianti per le coscienze religiose dell'epoca, aumentando enormemente il senso di insicurezza personale e collettiva» (M. Romanello). Il Romeo scrive che «le autorità dell'Inquisizione romana (cattolica) evitarono una persecuzione sanguinosa della stregoneria, non solo perché non erano convinte sino in fondo della realtà della setta delle streghe e dei loro crimini, ma anche perché, soprattutto nel tardo '500, sapevano di poter contare sulla rinnovata presenza di un sofisticato apparato protettivo». Più avanti si legge: «Le perplessità dei più autorevoli esponenti della Chiesa e dell'Inquisizione romana di fine '500 non trovano riscontro negli atteggiamenti delle Chiese protestanti degli stessi anni. In queste ultime prevale, rinfocolato anche dal fondamentalismo biblico che le caratterizza, lo zelo intransigente, la propensione al bagno di sangue purificatore. E la distruzione della rete protettiva assicurata dal cristianesimo tradizionale potrebbe aver contribuito in maniera determinante ad innescare le spinte persecutorie». I protestanti accusavano il Sant'Ufizio di complicità con le streghe In quegli anni i protestanti lanciavano accuse di fuoco contro la moderazione del Sant'Uffizio, esibita come prova della complicità della Chiesa di Roma con le streghe: anche i cattolici insomma erano accusati di «magia». Nei secoli successivi la Chiesa si è vista imputare anche gran parte dei crimini e dei roghi allestiti dai protestanti. Come fece il 4 ottobre 1985 Hans Küng su Repubblica che rivelò: «Furono circa nove milioni le vittime dei processi contro le streghe» (gli storici parlano di 20-30mila condanne). Fomentatori: Coke, Bacone, Boyle, Grozio, Cartesio... Certo si trattò di un'ossessione collettiva che insanguinò tutta l'Europa. Un massacro abominevole in cui anche i cattolici ebbero le loro colpe. Ma fra i più convinti fomentatori di questa ossessione criminale vi furono proprio le élite intellettuali del tempo. Alcuni nomi? Coke, Bacone e Raleigh, i cervelli della Rivoluzione inglese. E poi Boyle, Ugo Grozio e Cartesio. Il fior fiore della cultura laica del tempo: «Se questi due secoli» scrive Trevor-Roper «furono un'epoca di lumi dobbiamo ammettere che, sotto un certo aspetto, l'epoca delle tenebre fu più civile». Hobbes, nel Leviatano arrivò ripetutamente ad assimilare maghi, streghe e cattolici. «Tutta la cultura dell'epoca» scrive Giorgio Galli «si schiera per la prosecuzione della caccia, che in Inghilterra tocca il culmine proprio nel periodo della Rivoluzione con Matthew Hopkins come grande cacciatore, a conferma della connessione tra persecuzione e affermazione della democrazia parlamentare e rappresentativa». Il campione intellettuale della caccia alle streghe fu però Jean Bodin, il quale oggi è ritenuto il pensatore politico dello Stato moderno e il teorico della tolleranza religiosa. Bodin fu l'autore di un manuale giudiziario per la tortura e lo sterminio delle streghe, la Démonomanie, del 1580. Fa un certo effetto paragonare la furia sanguinaria di questi intellettuali moderni alla moderazione illuminata di uomini come Don Alonso de Salazar Frìas. L'inquisizione promosse il diritto laddove prevaleva l'esecuzione sommariaDal libro di Henningsen si apprende che, contrariamente a tutte le istituzioni giudiziarie del tempo, l'Inquisizione non usava normalmente la tortura. Questo non solo perché «Ecclesia abhorret a sanguine», ma anche perché «l'Inquisizione si mostrava scettica sul valore della tortura come mezzo per ottenere prove». L'Inquisizione che, fra l'altro, non comminava la morte, perché «non aveva il potere di eseguire il rogo degli eretici» (Henningsen) introdusse insomma -dicono oggi gli storici- un potente principio di trasparenze, di moderazione e -come poté- di diritto dove il potere politico e il popolo intendevano procedere a giustizia sommaria ed esemplare. «Di fatto» scrive Henningsen «la popolazione cattolica non odiava, né temeva il Sant'Uffizio quanto molti storici hanno voluto farci credere. La gran maggioranza doveva considerare l'Inquisizione come un baluardo contro l'eresia che minacciava la società dall'interno e dall'esterno. Gli inquisitori non erano mostri, né torturatori, ma teologi e giuristi, spesso rispettati e stimati. In maggioranza erano religiosi che avevano preso gli ordini. Molti avevano iniziato la loro carriera come sacerdoti o monaci ed avevano alle spalle lunghi anni di studi teologici». In Italia, Spagna e Portogallo dunque la caccia alle streghe iniziò con più moderazione del resto d'Europa e molto presto il già iniziale scetticismo del Sant'Uffizio divenne una vera e propria barriera di regole che soffocò questa ossessione.di Antonio Socci Il Sabato, 28.04.1990, n. 17