sabato 20 dicembre 2008

La Chiesa condannò l’antisemitismo

articoli di Andrea Tornielli, Il Giornale 17.1208 e di Giovanni Sale, La Civiltà Cattolica 2008 e 2002
Per la Chiesa da sempre esiste una sola razza: quella umana. Come dimostrò anche durante il fascismo.
Leggi razziali e Chiesa tratto da un articolo di Andrea Tornielli, Il Giornale 17.12.08 La questione è complessa, densa di sfumature. Pio XI non è rimasto in silenzio, ma ha parlato pubblicamente contro il «Manifesto della razza». Il 15 luglio 1938, il giorno dopo la pubblicazione, durante un’udienza a delle suore, Papa Ratti dice: «Oggi stesso siamo venuti a sapere qualcosa di molto grave: si tratta, ora, di una vera apostasia». E aggiunge parole contro «quel nazionalismo esagerato, che ostacola la salvezza delle anime, che innalza barriere tra i popoli». Il 21 luglio, ricevendo in udienza gli assistenti ecclesiastici di Azione Cattolica, ritorna sulla questione: «Cattolico – dice il Papa – vuol dire universale, non razzistico, nazionalistico, separatistico». Queste ideologie – continua – finiscono «con il non essere neppure umane». Il 28 luglio rivolgendosi agli alunni di Propaganda Fide, Pio XI ribadisce: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali... La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana».La stampa cattolica imbavagliataNegli ultimi mesi del 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali, la linea della Santa Sede è quella di cercare di attenuarne gli effetti, come dimostrano le trattative serrate e spesso tesissime, tra Vaticano e governo. La Civiltà Cattolica non condanna pubblicamente la legislazione antisemita, anche se in vari articoli pubblicati in precedenza aveva preso le distanze dalle teorie razziste. Il «silenzio» dell’autorevole rivista dei gesuiti è provocato da un decreto ministeriale che impone «la proibizione di pubblicare commenti sulla questione razziale divergenti dal senso del Governo nazionale». È il fascismo, dunque, a imbavagliare gli organi di informazione cattolici proibendo loro di intervenire contro il manifesto della razza e anche di rendere note le parole già pronunciate da Pio XI. L’8 agosto 1938 Montini, sostituto della Segreteria di Stato, informa il governo americano di questi provvedimenti, in modo che all’estero non si dica che il Vaticano e la stampa cattolica tacciono sui provvedimenti per pusillanimità o per complicità con il regime. Azione concrete per contrastare l'antisemitismoDai documenti degli archivi vaticani risulta dunque che il Papa aveva fatto il possibile per evitare la promulgazione di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, e poi aveva tentato di limitarne gli effetti. In quei mesi la Santa Sede metterà in moto iniziative per aiutare gli ebrei discriminati, chiedendo attraverso le nunziature che fossero accolti in vari Paesi, come dimostrano i dispacci inviati dal Segretario di Stato Pacelli. Su input del cardinale Bibliotecario Mercati, il Papa sottoscriverà un appello in favore degli scienziati e degli studiosi che avevano perso il posto, chiedendo ai porporati d’oltreoceano di favorire il loro inserimento.
La legislazione antisemita e la Santa Sede
tratto da un articolo di Giovanni Sale S.I. pubblicato su La Civiltà Cattolica di settembre 2008 (articolo completo)
Le reazioni dei cattolici alle leggi razziali
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La legislazione antisemita, in particolare quella sulla scuola, fu accolta dalla maggioranza degli italiani, in particolare dai cattolici, con vivo rincrescimento e a volte con rabbia; furono molte le lettere inviate in Vaticano da privati o da gruppi di persone e associazioni (anche non israelitiche), che invitavano le autorità ecclesiastiche e, in particolare, il Papa a intervenire presso il Duce in difesa degli «sventurati ebrei». «Desideriamo che il mondo sappia — scrive a Pio XI un gruppo di fascisti e cattolici di Reggio Calabria — che non siamo dei servi di un tiranno, ma che serviamo un’idea, per il nome di Dio e della Patria. Chi crede o s’illude d’avere in noi dei ciechi strumenti di ogni sua aberrazione, è bene che sappia che noi abbiamo la fierezza di dire no, e di non avanzare oltre le barriere della nostra fede». La lettera collettiva è firmata: «I fascisti d’Italia e figli Vostri e della Chiesa cattolica» (4).
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Il ministro Alfieri vieta di pubblicare i discrsi antirazzisti del papaIl giorno successivo all’adozione del decreto-legge sulla scuola, il 6 settembre Pio XI pronunciò un memorabile discorso contro il razzismo e contro l’antisemitismo: era la prima volta che ciò accadeva in modo così esplicito e diretto. Purtroppo esso non fu divulgato in Italia — infatti il 5 agosto il ministro Alfieri aveva dato disposizione ai prefetti di vietare che i discorsi del Papa contro il razzismo fossero pubblicati da riviste e giornali cattolici — e ciò avvantaggiò molto la causa razzista e diede l’impressione che il Papa, per motivi politici, non prendesse posizione su una materia così grave. Gran parte degli intellettuali cattolici, tra cui anche Dossetti, ne ebbero notizia leggendo le riviste cattoliche di oltralpe (5). Il celebre discorso fu tenuto a Castel Gandolfo, dove il Papa si trovava da tempo, davanti a un gruppo di pellegrini belgi, molti dei quali lavoravano nell’ambito delle comunicazioni. Il testo integrale, pubblicato dalla "Documentation Catholique", fu stenografato da uno dei presenti, mentre il Papa parlava. Il quotidiano vaticano, "L’Osservatore Romano", pubblicò il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei, mentre la «cronaca contemporanea» della "Civiltà Cattolica" non ne fece menzione.
Le parole del papa sull'antisemitismoLe parole del Papa sono riportate dalla rivista cattolica belga in modo abbastanza colorito: «A questo punto il Papa — è scritto — non riuscì a trattenere la sua emozione… ed è piangendo che egli citò i passi di Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo [...]. L’antisemitismo non è compatibile con il sublime pensiero e la realtà evocata in questo testo. L’antisemitismo è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare [...]. Non è lecito che i cristiani prendano parte all’antisemitismo. Noi riconosciamo che ognuno ha il diritto all’autodifesa e che può intraprendere le azioni necessarie per salvaguardare gli interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti» (6). Le parole di condanna dell’antisemitismo pronunciate con voce commossa dal Papa erano forti e chiare.
Le prudenze della Segreteria di StatoSu questa materia la Segreteria di Stato assunse un atteggiamento piuttosto prudente, pensando che in tal modo si potesse ottenere qualcosa di concreto a vantaggio degli ebrei, in particolare di quelli convertiti al cattolicesimo. Il p. P. Tacchi Venturi, fiduciario del Papa presso Mussolini, fu incaricato di trattare la delicata questione degli ebrei presso le autorità governative. Una Nota della Segreteria di Stato dell’8 settembre 1938 suggeriva al gesuita di attirare l’attenzione dell’autorità governativa soprattutto sugli ebrei battezzati e convertiti al cattolicesimo: «Non sarebbe equo — si chiedeva l’estensore — che, indipendentemente dall’origine, gli ebrei convertiti che hanno contratto in precedenza un matrimonio misto ai sensi del diritto canonico [...] fossero considerati cattolici e non già sempre e comunque ebrei sol perché tali erano i loro genitori?». Vale a dire, si chiedeva al Governo fascista di utilizzare come criterio discriminatorio non il dato biologico-razziale, ma quello religioso, cioè l’appartenenza a una determinata fede religiosa, in questo caso quella giudaica. Appare oggi imbarazzante per lo storico cattolico, soprattutto dopo le aperture del Concilio Vaticano II in tale materia, giustificare con categorie morali o religiose tale impostazione di pensiero e tal modo di procedere. Compito dello storico è però quello di ricostruire, per quanto è possibile oggettivamente, la vicenda storica, cercando di comprendere la mentalità e la cultura dei soggetti interessati, senza apriorismi di carattere ideologico. Secondo la cultura cattolica del tempo, anche se non tutti erano d’accordo con tale principio, sembrava che compito della Chiesa fosse quello di proteggere innanzitutto i propri fedeli, senza però in questo venir meno al senso di giustizia e di carità dovuti a tutti gli esseri umani.
Il papa critica Mussolini sull'antisemitismo in un messaggioAlla luce di tale principio si capiscono meglio i successivi interventi dell’autorità ecclesiastica in questa materia. L’attività svolta dal p. Tacchi Venturi a favore degli ebrei non ebbe, come è noto, grande fortuna, anche perché Mussolini era fortemente determinato a portare avanti la sua politica razziale e, in questo settore, non voleva essere secondo all’alleato tedesco. In un’udienza del 9 settembre, cioè dopo i primi decreti-legge antiebraici, il Papa disse esplicitamente al gesuita di trasmettere a Mussolini il seguente messaggio: «Il Santo Padre come italiano si rattrista veramente di vedere dimenticata tutta una storia di buon senso italiano, per aprire la porta o la finestra a un’ondata di antisemitismo tedesco» (7). Due giorni prima, il 7 settembre, il p. Tacchi Venturi aveva comunicato al Duce che «il Santo Padre per notizie e informazioni purtroppo attendibili è molto preoccupato che questo aspetto o parvenza di antisemitismo che si dà alle disposizioni prese in Italia contro gli ebrei, non abbia a provocare da parte degli ebrei di tutto il mondo delle rappresaglie forse non insensibili all’Italia» (8). [...]
I rapporti deterioratiFatto sta che, a partire dalla pubblicazione del Manifesto della razza, i rapporti tra il Governo italiano e la Santa Sede, o meglio tra Mussolini e Pio XI — nonostante la firma di un «patto di pacificazione» (16 agosto 1938) — andarono gradatamente deteriorandosi, tanto che il Duce disse in privato che quel Papa rappresentava una rovina per l’Italia e per la Chiesa. La stampa internazionale, da parte sua, amplificò in modo caricaturale tale antagonismo, fino a ipotizzare un possibile abbandono della Città Eterna e dell’Italia da parte del Papa: «A seguito del recente conflitto di idee — scriveva alla Segreteria di Stato il Nunzio a Parigi, mons. V. Valeri — che si è manifestato tra le autorità del regime fascista italiano e la Santa Sede a proposito del razzismo, alcuni organi di stampa francese, la quale ha seguito largamente da vicino l’episodio, si sono spinti sino a prevedere nientemeno la possibilità futura di un esilio del Papato da Roma, e, più frequentemente, la nomina di un pontefice non italiano» (10). Tale fatto, riportato anche dal quotidiano cattolico parigino "La Croix", dà la misura della serietà del conflitto esistente tra il Governo fascista e la Santa Sede a motivo della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici.
Note(4) Cfr Archivio Segreto Vaticano - Affari Ecclesiastici Straordinari (ASV-AAEESS), Italia, 1054, 730, 23. La lettera è datata 2 agosto 1938. (5) Cfr E. Fattorini, Pio XI, "Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa", Torino, Einaudi, 2007, 182. (6) "La Libre Belgique", 14 settembre 1938. Su tale materia si veda Y. Chiron, "Pie XI", Paris, Perrin, 2004, 375 s; cfr G. Miccoli, "I dilemmi e i silenzi di Pio XII", Milano, Rizzoli, 2000, 309. (7) ASV-AAEESS, Italia, 1.054, 727, 45. (8) Ivi, 46. (10) Ivi, 730, 36.
Pio XI e l’antisemitismotratto da “Antigiudaismo o antisemitismo? Le accuse alla Chiesa e La Civiltà Cattolica”, di Giovanni Sale in La Civiltà Cattolica 2002 pp. 419-431 (articolo completo)Già nel 1928 un decreto del Sant’Uffizio, per esplicito desiderio del Pontefice, condannò esplicitamente le moderne teorie antisemite, deprecando con forza «l’odio diffuso [dal nazismo] contro un popolo già eletto da Dio, quell’odio cioè che oggi volgarmente suole designarsi antisemitismo»(20). Ma soltanto a partire dal 1937 assistiamo a un vero e proprio cambiamento di rotta in Vaticano sulla percezione del problema ebraico. Il Papa negli anni precedenti era stato completamente assorbito dalla dolorosa questione della persecuzione contro la Chiesa cattolica da parte dei nazisti, iniziata già all’indomani della firma del Concordato con il Reich nel 1933. Sottoscrivendo quell’accordo la Santa Sede sperava di porre qualche limite allo strapotere del regime (che già iniziava ad assumere caratteri anticristiani), almeno nelle questioni religiose o in quelle concernenti l’istruzione e la formazione dei giovani.L'enciclica Mit brennender SorgeNell’enciclica Mit brennender Sorge (14 marzo 1937) diretta ai vescovi tedeschi — redatta nella parte dottrinale dal card. Faulhaber, arcivescovo di Monaco, e in quella concernente le denunce sulle violazioni del Concordato dal card. Pacelli, a quel tempo Segretario di Stato — Pio XI condannò il nazionalismo esasperato e il culto della razza, nonché le aberrazioni del nazismo e le dottrine anticristiane da esso sostenute. In essa si leggono, a questo proposito, parole molto forti: «Chi, con indeterminatezza panteistica, identifica Dio con l’universo, materializzando Dio nel mondo e deificando il mondo in Dio, non appartiene ai veri credenti»(21), e subito dopo: «Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nelle ristrettezze etniche di una sola razza, Dio creatore del mondo, re e legislatore dei popoli»(22). L’enciclica denuncia, poi, senza mezzi termini le cosiddette «rivelazioni arbitrarie che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza», e minaccia l’ira divina contro «colui» [cioè Hitler] che predica o permette che siano predicate tali aberranti dottrine(23)."siamo spiritualmente semiti"Il Papa, inoltre, durante un’udienza concessa agli operatori belgi delle radio cattoliche, nel settembre 1938, con le lacrime agli occhi per l’emozione, pronunciò, in modo informale, alla fine del suo discorso(24) la celebre frase: «L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo tutti spiritualmente semiti». Qualche mese prima, il 29 luglio, nella residenza pontificia di Castelgandolfo, rivolgendosi agli alunni del Collegio romano di Propaganda Fide, disse: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali […]. La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana. Questo è il pensiero della Chiesa». Il messaggio del Papa fu molto criticato dalla stampa tedesca; esso fu considerato contrario alla cultura e alla dignità della Germania nazista, poiché negava l’esistenza di «razze speciali», e fu accolto dai capi del nazismo come un’aperta dichiarazione di guerra da parte del Papato contro il nazionalsocialismo.L'eciclica antirazzista mai pubblicataNel giugno dello stesso anno Pio XI aveva dato l’incarico allo statunitense p. John Lafarge (che fu aiutato in quest’opera da due suoi confratelli gesuiti: il tedesco p. G. Gundlach e il francese p. G. Desbuquois) di scrivere una bozza di enciclica contro il razzismo, che il Papa avrebbe poi emanato. Lo schema fu discusso con Pio XI, a quel tempo già molto malato, e da lui approvato. Il documento che ci è pervenuto, e che è stato anche pubblicato(25), si può perciò dire che corrisponda in linea di massima al progetto originario voluto dal Papa. Gli studiosi considerano in due modi opposti quest’enciclica mai emanata (che probabilmente avrebbe avuto come titolo Humani generis unitas), poiché il Pontefice morì nel febbraio 1939, ed essa non piacque ad alcuni superiori gesuiti che la ebbero in esame, compreso il Generale. Secondo alcuni(26), essa riproponeva i vecchi modelli «dell’antisemitismo cattolico» e della cosiddetta «segregazione amichevole», in ogni caso non rispondeva alle urgenze del tempo e alla gravità del momento. Secondo altri invece(27), essa avrebbe segnato un punto importante nella storia del magistero pontificio: per la prima volta in un documento solenne della Chiesa l’antisemitismo razzista sarebbe stato condannato, e questo avrebbe alla lunga indebolito il tradizionale antigiudaismo cattolico(28). Secondo noi invece il progetto di enciclica raccoglieva in sé ambedue le istanze, frutto anche della mentalità delle persone che la redassero: quella tradizionale, che ripeteva i soliti temi dell’antigiudaismo religioso(29), e quella più moderna, più vicina alla sensibilità di Papa Ratti, tendente alla denuncia pubblica dell’antisemitismo razziale(30).L'enciclica di Pio XII paracadutata dagli alleati sui territori nazistiIl nuovo Pontefice, Pio XII, non pubblicò l’enciclica, che era ancora in elaborazione. Ma ciò non significa che egli non fosse sensibile ai problemi da essa affrontati. Era stato Segretario di Stato del suo Predecessore e ne aveva condiviso tutte le più importanti e coraggiose iniziative di governo. Nel frattempo però era cambiato il contesto storico-politico nel quale l’enciclica era stata pensata (Hitler si preparava a occupare la Polonia): il problema grave da risolvere era ormai quello della guerra da evitare e in particolare quello di limitarne i danni. Il Papa nella sua prima enciclica, Summi Pontificatus (20 ottobre 1939), indicava ai credenti un nuovo modello di società cristiana da realizzare, fondata sul diritto naturale e sul rispetto di tutti gli uomini indipendentemente dalla loro nazionalità o razza. L’enciclica in realtà era capita e interpretata dai suoi contemporanei come un atto di condanna di ogni forma di totalitarismo. I capi nazisti compresero che il documento pontificio era una forte denuncia contro la loro politica di aggressione e di violazione dei diritti umani e, per questo motivo, ne impedirono la diffusione nel Reich. Migliaia di copie però furono paracadutate in Germania e in Polonia dagli Alleati: e questo dice molto sul valore che essi attribuivano al documento pontificio. Lo stesso Pio XII chiese alla nostra rivista di tener presente negli articoli di commento «gli errori condannati dall’enciclica, in particolare si difenda l’unità del genere umano contro i razzismi, e la dipendenza dello Stato dalla legge morale»(31).La chiesa ha sempre condannato l'antisemitismo razzialeIn conclusione, va detto chiaramente che la Chiesa non intende nascondersi dietro definizioni di comodo o strumentali, quale sarebbe, secondo alcuni studiosi, la distinzione tra antigiudaismo e antisemitismo, per non riconoscere le proprie responsabilità nei confronti degli ebrei. Al contrario, essa non ha difficoltà ad affermare che l’antigiudaismo professato da molti cattolici durante i secoli ha fortemente contribuito alla discriminazione delle comunità ebraiche della diaspora — condannandole a una forma spesso disumana di segregazione e di aperta discriminazione sociale — e quindi a chiedere perdono per gli errori commessi dai suoi figli contro i loro «fratelli maggiori», come del resto Giovanni Paolo II ha già fatto a Gerusalemme davanti al Muro del Pianto. Ma gli storici non possono addossare alla Chiesa responsabilità di fatti (come l’antisemitismo razziale) che non ha commesso e che anzi ha combattuto e condannato. Note:20 Ivi, 338.21 «Lettera enciclica di S. S. Pio XI sulle condizioni della Chiesa cattolica nel Reich germanico», in AAS 29 (1937) 145-147 e in Civ. Catt. 1937 II 196.22 Ivi, 197.23 Ivi, 200. Sono note le vicende sulla divulgazione di questa enciclica, che fu stampata di nascosto contemporaneamente in sette tipografie ubicate in altrettante città della Germania e letta dai pulpiti delle chiese nella stessa domenica. Le copie ancora in commercio furono immediatamente confiscate dal regime, che protestò energicamente in Vaticano. A questo proposito si legge nel nostro Diario delle consulte: «Il Santo Padre passò a parlare delle vicende religiose e politiche in Germania per effetto della recente Enciclica che riguarda quei fedeli e della inconcepibile pretesa espressa nella protesta diplomatica del Governo del Reich, che dalla Santa Sede non si sarebbe davvero dovuto fare quel passo, senza preavvisarne il Governo» (ACC, Diario delle consulte, 12 maggio 1937).24 La frase pronunciata dal Papa alla fine dell’udienza in modo informale, non essendo riportata nel testo ufficiale che il Pontefice lesse ai pellegrini, non fu poi riportata dall’Osservatore Romano né dalla Civiltà Cattolica. Alcuni studiosi hanno costruito su questo fatto leggende a dir poco fantasiose. La celebre frase del Papa, subito divulgata dai pellegrini (poi accuratamente riportata nel suo diario dal capodelegazione belga), fece immediatamente il giro del mondo. E ciò dispiacque molto ai nazisti.25 Cfr G. PASSELECQ - B. SUCHECKY, L’enciclica nascosta di Pio XI, Milano, Corbaccio, 1997. Su questa materia si veda G. MICCOLI, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano, Rizzoli, 2000, 312-324.26 Cfr D. KERTZER, I Papi contro gli ebrei…, cit.; M. PHAYER, La Chiesa cattolica e l’Olocausto, cit.; R. TARADEL, «L’antisemitismo ci fu. Perché nasconderlo?», cit.27 Cfr G. MICCOLI, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, cit., 312-324; R. MORO, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna, il Mulino, 2002, 88.28 Secondo G. Miccoli la novità di questo progetto di enciclica, rispetto alla Mit brennender Sorge, sta nel fatto che nel primo non si condanna soltanto il razzismo neopagano e anticristiano, ma l’antisemitismo in genere. Nel progetto di p. Lafarge si dice chiaramente che il razzismo è un puro pretesto per perseguitare gli ebrei: «Risulta chiaramente che la lotta per la purezza della razza finisce coll’essere unicamente la lotta contro gli ebrei» (G. PASSELECQ - B. SUCHECKY, L’enciclica nascosta di Pio XI, cit., 284).29 Si legge nel progetto di enciclica su questo punto: «La pretesa questione giudaica nella sua essenza non è una questione né di razza, né di nazione, né di nazionalità terrena, e neppure di diritto di cittadinanza fra gli Stati. È una questione di religione» (ivi, 243).30 Significative sono le ultime parole che Pio XI, un mese prima della morte, disse al direttore della nostra rivista. Come in una profezia esse annunciavano alla Chiesa l’avvento di giorni tristi e bui in un mondo devastato dalla guerra totale: «Il Santo Padre si intrattenne a parlare sui giorni cattivi che corrono per la religione, in particolare nella Polonia colpita dalla recente morte del cardinale A. Kakowski, nella Germania dove la persecuzione rinverdisce sempre più, e in Italia nella quale si procede con poca lealtà da parte del Governo su una via cattiva» (ACC, Diario delle consulte, 3 gennaio 1939).31 Ivi, 30 ottobre 1939.

martedì 2 dicembre 2008

1914 Cause del primo conflitto mondiale

risponde SERGIO ROMANO
Il barile di polvere del Ventesimo secolo
Ho letto sul Corriere che secondo Vittorio Messori quello che ha portato alla grande guerra sono state le proiezioni ideologiche della modernità, ovvero «marxismo, darwinismo, nazionalismo». Sul ruolo del nazionalismo, niente da obiettare (a parte il fatto che più facilmente viene associato a persistenze ataviche, tradizionaliste, più che propriamente moderne), ma in che modo, secondo lei, marxismo e darwinismo potrebbero avere contribuito allo scoppio della grande guerra? Gregorio Praderio gregorio.praderio@libero.it
Caro Praderio, fra i nazionalismi «atavici», di cui lei parla nella sua lettera, e quelli del 1914 corre una grande differenza. Quello che esplode agli inizi del Novecento e trascina nel conflitto i maggiori Paesi europei è un fenomeno nuovo, creato e alimentato dall' apparizione degli Stati nazionali e dalle grandi novità del secolo precedente: la rivoluzione francese, la coscrizione obbligatoria, la rivoluzione industriale, la partecipazione delle masse, anche se manipolata e orchestrata, all' esercizio del potere, la rapida crescita di alcune megalopoli (Londra, Parigi, Berlino, Vienna), pericoloso vivaio di proteste sociali, tensioni etniche, rabbie collettive, ambizioni nazionali. Giuseppe Mazzini aveva affermato che i protagonisti della storia d' Europa sarebbero state le nazioni, non i re. E aveva aggiunto che ogni nazione avrebbe svolto e perseguito la propria missione. Era un messaggio nobile, ispirato dal sentimento che le diverse missioni dei popoli europei potessero convivere armoniosamente in uno spirito di fratellanza e tolleranza. Ma di lì a credere che la missione di un popolo fosse molto più importante di quella degli altri, il passo è breve. Ed è ancora più facile credere che la propria legittima ambizione sia stata mutilata e umiliata dalla tracotanza di un' altra nazione. La causa principale della guerra, nell' estate del 1914, fu una esplosiva combinazione di arroganza e vittimismo, spesso contemporaneamente presenti in uno stesso Paese. Il colpo di pistola di Sarajevo fu soltanto il fiammifero lanciato sul barile di polvere. Alla miscela, per esplodere, bastava una scintilla. Credo che Vittorio Messori abbia ragione quando chiama in causa, sul banco degli imputati, il marxismo e il darwinismo. Queste due ideologie non furono le cause del conflitto. Ma contribuirono a diffondere la convinzione che la vita fosse uno scontro tra forze contrapposte. Il marxismo predicò la lotta di classe ad alcune generazioni di leader politici e sindacali. Il darwinismo (che non ha nulla a che vedere con le geniali teorie di Charles Darwin) inoculò in molti la convinzione che la vita fosse una continua lotta per la sopravvivenza della specie più forte, più dura, più abile. Non è difficile comprendere perché la guerra dei nazionalismi sia rapidamente divenuta, grazie alla rivoluzione bolscevica, guerra di classe e, grazie al nazismo, guerra di razze.
Romano Sergio
Pagina 23(27 marzo 2006) - Corriere della Sera

domenica 30 novembre 2008

Olanda e prostituzione: un fallimento taciuto

Olanda e prostituzione: un fallimento taciuto
Maurizio De Santis, www.giustiziagiusta.info, giovedì 27.11.2008
La legalizzazione della prostituzione in Olanda ha aumentato forme di sopruso
Tutti gli osservatori concordano sul fatto che il traffico di donne, avviate alla prostituzione, sia l'attività della criminalità organizzata che sta conoscendo la più fiorente espansione.Secondo l'Ufficio Internazionale del Lavoro, i dati del 2005 attestano che nella “tratta delle bianche”, per il 90-92% dei casi, esse sono destinate alla fabbrica del sesso. La rimanente percentuale ad altri lavori forzati (soprattutto domestici o agricoli). L'Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine attesta, dati alla mano, che praticamente nessun paese al mondo è risparmiato dalla tratta di esseri umani: individua 127 paesi “fornitori” e qualcosa come 137 paesi “consumatori”.L’Olanda si staglia quale uno dei dieci maggiori referenti del traffico internazionale della prostituzione. Lo stesso sito nazionale (www.Olanda.cc), dichiara che solo il 30% delle 25.000 prostitute regolari sono olandesi. Quello che però non dice è che esse sono molte di più, il 70% delle quali prive di documenti. Vittime della tratta delle donne a fini di prostituzione, controllata dalla criminalità organizzata. L’Olanda, ricordiamolo, è il paese che nel 2000 ha legalizzato la prostituzione ed ha regolamentato l’esercizio dei bordelli in specifiche zone a “luci rosse” (già presenti ad Amsterdam, ma non legali). Grande vantaggio fiscale (un miliardo di euro annui drenati dall’erario), “normalizzazione” commerciale (i bordelli possono farsi pubblicità), nonché garanzie individuali delle professioniste (assistenza medica, pensione, ecc).Non solo. La legalizzazione della prostituzione, confinandola nei bordelli e nelle case di tolleranza doveva, se non cancellare, porre almeno un forte freno alla piaga della prostituzione di minorenni. L'Organizzazione per i diritti del fanciullo, ritiene che il numero dei minori che si prostituiscono in Olanda sia passato dai 4.000 nel 1996 ai 15.000 nel 2001, un terzo dei quali provenienti dall'estero.Il traffico dei minori non accompagnati è in piena espansione, come in altri paesi europei che hanno legalizzato la prostituzione regolamentata. I minori rifugiati, che richiedono asilo, sin dall'arrivo all’aeroporto di Schiphol (Amsterdam) sono condotti in case di accoglienza dalle quali, puntualmente, scompaiono. Il rapido ritmo di queste sparizioni mise la pulce nell’orecchio alle forze di sicurezza olandesi che, proprio nell’ottobre 2007, smantellarono una vasta rete di traffico di minori provenienti dalla Nigeria, destinati alla prostituzione.Il sindaco di Amsterdam ha recentemente iniziato la chiusura del quartiere a luci rosse, ammettendo implicitamente un colossale fallimento. Il piano, chiamato “Project 1012”, ha già trasformato parte delle famose vetrine in ateliers di alta moda.Karina Schaapman, ex prostituta e consigliere della città, non ha peli sulla lingua: "Invece di regolamentare il settore, la politica delle licenze concesse ai bordelli, dal 2000 ad oggi, ha portato ad una situazione incontrollabile",Da tempo la stampa (non solo nazionale), stigmatizzava il fatto compiuto di un quartiere consegnato a trafficanti di persone e di droga. Così, la legalizzazione della prostituzione è rapidamente scaduta da simbolo della liberazione delle donne, “libere di disporre di se stesse”, ad una svilita questione di sfruttamento.

mercoledì 12 novembre 2008

Per questi motivi, Eluana non può morire

di Viviana Daloiso, Avvenire È Vita, 6 novembre 2008
Un riepilogo delle ragioni per non togliere la vita alla ragazza in stato vegetativo
Martedì prossimo la Corte di Cassazione dirà quella che potrebbe essere l’ultima parola sulla travagliata vicenda di Eluana Englaro. In quella data, a sezioni unite, i giudici decideranno se accettare o meno il ricorso presentato dalla Procura di Milano, secondo cui la sentenza che ha autorizzato il distacco del sondino che nutre e idrata la giovane lecchese non avrebbe chiarito due questioni fondamentali: primo, se lo stato vegetativo di Eluana sia davvero irreversibile; secondo, se le volontà della ragazza fossero davvero quelle accertate nel corso del processo. Due condizioni stabilite come imprescindibili dalla stessa Cassazione, il 16 ottobre del 2007. E a cui si aggiungono altri importanti argomenti, emersi nel corso del dibattito degli ultimi mesi, che qui vogliamo riepilogare.Eluana non è «un vegetale» Della triste storia di Eluana Englaro sappiamo tutto: l’incidente, la disperazione della famiglia, le battaglie giuridiche e mediatiche del padre. Eppure conosciamo poco della sua condizione. Sappiamo che è in stato vegetativo da 16 anni, per esempio, eppure in pochi hanno spiegato che questa situazione non è uguale al coma: Eluana, cioè, «presenta un regolare ciclo sonno-veglia, respira autonomamente, non è attaccata a nessun macchinario» (Matilde Leonardi, responsabile Neurologia alla Fondazione Irccs Carlo Besta di Milano, «Avvenire» 11 settembre). Insomma, non ci sono "spine" da staccare. Sappiamo che è alimentata e idratata attraverso un sondino naso-gastrico, accudita e curata esemplarmente, ma queste azioni non sono assimilabili a "trattamenti terapeutici", né tanto meno ad accanimento: «Acqua e cibo sono i supporti basilari forniti a ogni paziente, ai disabili, ai malati di Parkinson, Sla e Alzheimer in fase avanzata, o ai neonati se incapaci di nutrirsi spontaneamente» (Giuliano Dolce, direttore scientifico della clinica Sant’Anna di Crotone, 12 luglio). Sono necessari al suo sostentamento, non alla sua guarigione. Sappiamo che una sentenza ha decretato che le venga tolto quel sondino, che possa essere "lasciata morire", eppure nessuno aggiunge che la morte per fame e per sete può essere preceduta da una lunga agonia (anche più di 15 giorni), proprio come accadde a Terri Schiavo.Eluana non è «irreversibile» Lo stato vegetativo non è una malattia terminale e i pazienti in questa condizione, come Eluana, «sono vivi a tutti gli effetti, il loro cervello produce ormoni, fa pulsare il cuore» (Mario Guidotti, ospedale Valduce di Como, 25 luglio). Non a caso la stessa sentenza della Corte d’Appello di Milano raccomanda che Eluana, una volta tolto il sondino, sia sedata e che le vengano tenute bagnate le mucose, affinché non soffra. Lo stato vegetativo è invece una forma di disabilità estrema, in cui sussiste un difetto di coscienza: «Non è una malattia che porta a morte. In questi casi interrompere l’alimentazione non ha alcun fondamento medico» (Rodolfo Proietti, docente di Anestesia e rianimazione all’Università Cattolica di Roma, 20 luglio). Inoltre lo stato vegetativo non può mai essere definito irreversibile, o permanente: lo ha stabilito la conferenza di Londra del 1996, quando neurologi e ricercatori di tutto il mondo si confrontarono su questa patologia, i cui decorsi possibili sono ancora sconosciuti (oggi oltre il 50% dei pazienti in questo stato riacquistano, anche dopo anni, un margine seppur minimo di coscienza). E lo hanno confermato gli studi più recenti: «Attraverso la risonanza magnetica funzionale ci siamo resi conto che, alla richiesta di compiere mentalmente delle azioni elementari, le aree cerebrali che si attivano nei pazienti in stato vegetativo e nei soggetti sani sono esattamente le stesse. Un fatto fondamentale per due ragioni: il paziente in stato vegetativo dimostra di essere cosciente (e questo non era mai stato provato prima) e, ciò che è sbalorditivo, di comprendere il senso delle parole che gli vengono rivolte, addirittura di conservare una memoria delle azioni che erano normali nel suo passato» (Adrian Owen, responsabile dell’Unità neurologica dell’Università di Cambridge, 3 agosto).Chi la lascerà morire? Il decreto della Corte d’Appello di Milano presenta almeno tre aspetti problematici su cui è bene tornare alla vigilia della decisione della Cassazione. In primo luogo, autorizza il tutore di Eluana (il padre) a interrompere idratazione e alimentazione artificiali, ma senza alcun obbligo di dare esecuzione a quanto si consente. Motivo per cui la Regione Lombardia, per esempio, ha già rifiutato la disponibilità di eseguire quella sentenza in una delle sue strutture. Il Codice deontologico e il giuramento professionale dei medici, d’altra parte, prescrivono che il personale sanitario si occupi di curare i pazienti, non di causarne la morte. E ancora, come ribadito dalla stessa Regione Lombardia nella sua risposta alle richieste di Beppino Englaro, ospedali, cliniche e hospice sono luoghi in cui si riconosce la dignità della vita fino all’ultimo giorno: «L’accoglienza di Eluana in un hospice snaturerebbe completamente il motivo per cui è nato: quello di sorreggere una vita in fase terminale con la palliazione e il sollievo dei sintomi. Gli hospice sono essenzialmente luoghi di vita, non di morte, dove le persone malate vengono sostenute nel vivere la vita che gli rimane nel modo più dignitoso possibile» (Giovanni Battista Guizzetti, responsabile del reparto Stati vegetativi al Centro Don Orione di Bergamo, 4 settembre).Quali «volontà»? Altro capitolo sui cui occorre fare chiarezza è quello delle volontà "dedotte" di Eluana. Che la Corte d’Appello di Milano ha ricostruito durante il processo, visto che la ragazza non le ha mai espresse in modo manifesto e inequivoco. Ora, se anche nel nostro ordinamento esistessero elementi che consentano di ritenere che un soggetto possa rivendicare un "diritto alla morte" («Per quanti sforzi io faccia, non li trovo. Mentre al contrario troviamo sempre e soltanto il principio del "favor vitae", del diritto alla vita», Vincenzo Nardi, avvocato generale presso la Corte di Cassazione, 19 luglio) la stessa Suprema Corte recentemente, rispondendo al ricorso di un testimone di Geova, è stata chiara: «Nell’ipotesi di pericolo grave e immediato per la vita del paziente il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivocabile, attuale, informata». E ancora: «L’efficacia di un dissenso "ex ante" privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica deve ritenersi altrettanto impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente». (sentenza n. 23676 della Terza Sezione Civile, 15 settembre 2008). Queste condizioni valgono (e devono valere) anche per Eluana Englaro. Ora più che mai.

venerdì 22 agosto 2008

La verità dell' "Humanae vitae" di Karol Wojtyla

La verità dell'«Humanae vitae»
di Karol Wojtyla, L’Osservatore Romano, 5 gennaio 1969
Ecco ciò che scrisse all’epoca Karol Wojtyla sull’enciclica che quest’anno compie 40 anni
Gandhi e il significato della sessualitàSembrerà strano che noi cominciamo le nostre riflessioni sull'enciclica Humanae vitae partendo dall'autobiografia di M. Gandhi. «A mio avviso - scrive il grande uomo indiano - affermare che l'atto sessuale sia una azione spontanea, analoga al sonno o al nutrirsi, è crassa ignoranza. L'esistenza del mondo dipende dall'atto del moltiplicarsi - dalla procreazione, diremmo noi - e poiché il mondo è dominio di Dio e riflesso del suo potere, l'atto del moltiplicarsi - della procreazione, diremmo noi - deve essere sottoposto alla norma, che mira a salvaguardare lo sviluppo della vita sulla terra. L'uomo che ha presente tutto questo, aspirerà ad ogni costo al dominio dei suoi sensi e si fornirà di quella scienza necessaria, per promuovere la crescita fisica e spirituale della sua prole. Egli tramanderà poi i frutti di questa scienza ai posteri, oltre che usarli a suo giovamento». In un altro passo della sua autobiografia Gandhi dichiara che due volte nella sua vita ha subito l'influsso della propaganda che raccomandava i mezzi artificiali per escludere la concezione nella convivenza coniugale. Tuttavia egli arrivò alla convinzione, «che si deve piuttosto agire attraverso la forza interiore, nella padronanza di se stesso, ossia mediante l'autocontrollo».La legge scritta nel cuore di ogni uomo Rispetto all'enciclica Humanae vitae, questi tratti dell'autobiografia di Gandhi acquistano il significato di una particolare testimonianza. Ci ricordano le parole di san Paolo nella lettera ai Romani, riguardo alla sostanza della Legge scolpita nel cuore dell'uomo e attestata dal dettame della retta coscienza (Romani, 2, 15). Anche al tempo di san Paolo una tale voce della retta coscienza era un rimprovero per quelli che, pur essendo "i possessori della Legge", non la osservavano. Forse è bene anche per noi avere davanti agli occhi la testimonianza di questo uomo non cristiano. È opportuno avere presente "la sostanza della Legge" scritta nel cuore dell'uomo e attestata dalla coscienza, per riuscire a penetrare la profonda verità della dottrina della Chiesa, contenuta nell'enciclica di Paolo VI Humanae vitae. Per questo all'inizio delle nostre riflessioni, che mirano a chiarire la verità etica e il fondamento obiettivo dell'insegnamento dell'Humanae vitae, siamo ricorsi ad una tale testimonianza. Il fatto che essa sia storicamente antecedente all'enciclica di qualche decennio, non diminuisce per nulla il suo significato: l'essenza del problema infatti rimane in entrambi la stessa, anzi le circostanze sono molto simili.L’amore coniugale è inscindibile dalla paternità responsabile Per rispondere alle domande formulate all'inizio dell'enciclica (Humanae vitae, 3), Paolo VI fa l'analisi delle due grandi e fondamentali "realtà della vita matrimoniale": l'amore coniugale e la paternità responsabile (n. 7) nel loro mutuo rapporto. L'analisi della paternità responsabile costituisce il tema principale dell'enciclica, poiché quelle domande poste all'inizio pongono appunto questo problema: «Non si potrebbe ammettere che l'intenzione di una fecondità meno esuberante, ma più razionalizzata, trasformi l'intervento materialmente sterilizzante in un lecito e saggio controllo delle nascite? Non si potrebbe ammettere cioè, che la finalità procreativa appartenga all'insieme della vita coniugale, piuttosto che ai suoi singoli atti? (...) non sia venuto il momento di affidare alla ragione e alla volontà più che ai ritmi biologici dell'organismo - umano - il compito di trasmettere la vita?»y (n. 3). Per dare una risposta a queste domande il Papa non ricorre alla tradizionale gerarchia dei fini del matrimonio, fra i quali il primo è la procreazione, ma, come si è detto, fa l'analisi del mutuo rapporto tra l'amore coniugale e la paternità responsabile. È la stessa impostazione del problema, propria della Costituzione pastorale Gaudium et spes.Il matrimonio come amore totale, che impegna tutto l'uomo Una retta e penetrante analisi dell'amore coniugale presuppone un'idea esatta del matrimonio stesso. Esso non è "prodotto della evoluzione di inconscie forze naturali", ma "comunione di persone" (n. 8), basata sulla loro reciproca donazione. E per ciò un retto giudizio sulla concezione della paternità responsabile presuppone "una visione integrale dell'uomo e della sua vocazione" (n. 7). Per acquistare un tale giudizio, non bastano affatto "le prospettive parziali, siano di ordine biologico o psicologico, demografico o sociologico" (n. 7). Nessuna di queste prospettive può costituire la base per una adeguata e giusta risposta alle domande sopra formulate. Ogni risposta che emana da prospettive, parziali non può essere che parziale. Per trovare una risposta adeguata, occorre avere presente una retta visione dell'uomo come persona, poiché il matrimonio stabilisce una comunione di persone, che nasce e si realizza attraverso la loro mutua donazione. L'amore coniugale si caratterizza con le note che risultano da tale comunione di persone e che corrispondono alla personale dignità dell'uomo e della donna, del marito e della moglie. Si tratta dell'amore totale, ossia dell'amore che impegna tutto l'uomo, la sua sensibilità, la sua affettività e la sua spiritualità, e che insieme deve essere fedele ed esclusivo. Questo amore "non si esaurisce tutto nella comunione tra i coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite" (n. 9); è perciò amore fecondo. Una tale amorevole comunione dei coniugi, per cui essi costituiscono secondo le parole della Genesi, 2, 24 "un solo corpo" è come la condizione della fecondità, la condizione della procreazione. Questa comunione essendo una particolare - poiché corporale e nel senso stretto "sessuale" - attuazione della comunione coniugale tra persone, deve realizzarsi al livello della persona e convenientemente alla sua dignità. La paternità propria dell'amore di persone è paternità responsabileIn base a ciò si deve formulare un giudizio esatto della paternità responsabile. Tale giudizio riguarda prima di tutto l'essenza della paternità - e sotto questo aspetto è un giudizio positivo: «l'amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di "paternità responsabile"» (n. 10). L'enciclica in tutto il suo contesto formula questo giudizio e lo propone come risposta fondamentale alle domande poste prima: l'amore coniugale deve essere amore fecondo, ossia "orientato alla paternità". La paternità propria dell'amore di persone è paternità responsabile. Si può dire che nell'enciclica Humanae vitae la paternità responsabile diventa il nome proprio della procreazione umana. Questo giudizio, fondamentalmente positivo, sulla paternità responsabile richiede però alcune precisazioni. Solamente grazie a queste precisazioni troviamo una risposta universale alle domande di partenza. Paolo VI ci offre queste precisazioni. Secondo la enciclica, la paternità responsabile significa «sia (...) la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia (...) la decisione (...) di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita» (n. 10). Se l'amore coniugale è amore fecondo, cioè orientato alla paternità, è difficile pensare che il significato della paternità responsabile, dedotto dalle sue proprietà, essenziali, possa identificarsi solamente con la limitazione delle nascite. La paternità responsabile viene perciò realizzata sia da parte dei coniugi, che grazie alla loro ponderata e generosa deliberazione si decidono a procreare una prole numerosa, come da parte di quelli che vengono nella determinazione di limitarla, "per gravi motivi e nel rispetto della legge morale" (HV 10). Processi biologici e rispetto della dignità della personaSecondo la dottrina della Chiesa, la paternità responsabile non è, e non può essere solo l'effetto di una certa "tecnica" della collaborazione coniugale: essa infatti ha anzitutto e "per sé" un valore etico. Un vero e fondamentale pericolo - al quale l'enciclica vuole essere appunto un rimedio provvidenziale - consiste nella tentazione di considerare questo problema fuori dell'orbita dell'etica, di fare degli sforzi per togliere all'uomo la responsabilità delle proprie azioni che sono così profondamente radicate in tutta la sua struttura personale. La paternità responsabile - scrive il Pontefice - «significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare sulle tendenze dell'istinto - e delle passioni (n. 10). Questo dominio presuppone perciò "conoscenza e rispetto dei processi biologici" (n. 10), e ciò pone questi processi non soltanto nel loro dinamismo biologico, ma anche nella personale integrazione, cioè a livello della persona, poiché "l'intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che riguardano la persona umana» (n. 10). L’atto coniugale e il senso del vero amoreL'amore è comunione di persone. Se ad essa corrisponde la paternità, e paternità responsabile, il modo di agire che conduce a una tale paternità, non può essere moralmente indifferente. Anzi, esso decide, se l'attuazione sessuale della comunione di persone sia o non sia autentico amore, «Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore» (n. 12). L'uomo «non può rompere di sua iniziativa la connessione inscindibile tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (n. 12). È proprio per questo che l'enciclica sostiene la precedente posizione del Magistero e mantiene la differenza fra la così detta naturale regolazione della natalità, che comporta una continenza periodica e l'anticoncezione che fa ricorso a mezzi artificiali. Diciamo "mantiene", perché «i due casi differiscono completamente tra di loro» (n. 16). C'è tra di loro una grande differenza riguardo alla loro qualificazione etica. Una norma iscritta nel cuore umanoL'enciclica di Paolo VI come documento del supremo Magistero della Chiesa presenta l'insegnamento della morale umana e insieme cristiana in uno dei suoi punti chiave. La verità dell'Humanae vitae è dunque anzitutto una verità normativa. Ci ricorda i principi della morale, che costituiscono la norma obiettiva. Questa norma è scritta pure nel cuore umano, come prova almeno quella testimonianza di Gandhi, a cui abbiamo fatto appello all'inizio di queste considerazioni. Non di meno, questo obiettivo principio di morale subisce facilmente sia delle soggettive deformazioni sia un comune oscuramento. Del resto simile è la sorte di molti altri principi morali, come ad esempio di quelli che sono stati rievocati nell'enciclica Populorum progressio. Nell'enciclica Humanae vitae, il Santo Padre esprime anzitutto la sua piena comprensione di tutte queste circostanze che sembrano parlare contro il principio della morale coniugale, insegnata dalla Chiesa. Il Papa si rende conto anche delle difficoltà, alle quali è esposto l'uomo contemporaneo, come pure delle debolezze, a cui è soggetto. Tuttavia, la strada per la soluzione delle difficoltà e dei problemi non può passare che attraverso la verità del Vangelo: «Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime» (n. 29). Il motivo di carità verso le anime, e nessun altro motivo, muove la Chiesa che «non lascia (...) di proclamare con umile fermezza tutta la legge morale, sia naturale che evangelica» (n. 29).Il valore della vita umana La verità normativa dell'Humanae vitae è strettamente legata a quei valori che si esprimono nell'obiettivo ordine morale, secondo la loro propria gerarchia. Questi sono gli autentici valori umani che sono legati alla vita coniugale e familiare. La Chiesa si sente custode e garante di questi valori, come leggiamo nell'enciclica. Di fronte a un pericolo che li minaccia, la Chiesa si sente in dovere di difenderli. I valori autenticamente umani costituiscono la base e nello stesso tempo la motivazione dei principi della morale coniugale, rammentati nell'enciclica. Conviene metterli in risalto, sebbene si siano già rilevati nelle argomentazioni precedenti, e la cosa è ben chiara, poiché il vero significato della paternità responsabile è stato nell'enciclica già espresso nel rapporto all'amore coniugale. Il valore che sta alla base di questa dimostrazione, è il valore della vita umana, cioè della vita già concepita e anche nel suo sbocciare, nella convivenza dei coniugi. Di questo valore parla la stessa responsabilità della paternità, alla quale l'intera enciclica è principalmente dedicata.Il concepimento della persona attraverso le persone Il fatto che questo valore della vita già concepita o anche nel suo sbocciare non si esamini nell'enciclica sullo sfondo della procreazione stessa come fine del matrimonio, ma nella prospettiva dell'amore e della responsabilità degli sposi, pone il valore stesso della vita umana in una luce nuova. L'uomo e la donna nella loro convivenza matrimoniale che è convivenza di persone, devono dare origine a una nuova persona umana. Il concepimento della persona attraverso le persone - ecco la giusta misura dei valori, che deve essere qui adoperata. Ecco nello stesso tempo la giusta misura della responsabilità, che deve guidare la paternità umana. L'enciclica riconosce questo valore. Sebbene essa non sembri parlarne molto, non di meno indirettamente lo fa risaltare ancor più, quando lo pone fermamente nel contesto di altri valori. Questi sono valori fondamentali per la vita umana, e insieme i valori specifici per il matrimonio e per la famiglia. Sono specifici, poiché soltanto il matrimonio e la famiglia - e nessun altro ambiente umano - costituiscono il campo specifico, in cui appaiono questi valori, quasi un suolo fertile, nel quale crescono. Uno di questi è il valore dell'amore coniugale e familiare, l'altro è il valore della persona, ossia la sua dignità che si manifesta nei più stretti e più intimi contatti umani. Questi due valori si permeano così profondamente, che in certo qual modo costituiscono un solo bene. Il raggiungimento della piena maturità spiritualeQuesto appunto è il bene spirituale del matrimonio, la migliore ricchezza delle nuove generazioni umane: «i coniugi sviluppano integralmente la loro personalità arricchendosi di valori spirituali: essa (la disciplina) apporta alla vita familiare frutti di serenità e di pace (...); favorisce l'attenzione verso l'altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l'egoismo, nemico del vero amore, ed approfondisce il loro senso di responsabilità nel compimento dei loro doveri. I genitori acquistano con essa la capacità di un influsso più profondo ed efficace per l'educazione dei figli; la fanciullezza e la gioventù crescono nella giusta stima dei valori umani e nello sviluppo sereno ed armonioso delle loro facoltà spirituali e sensibili» (n. 21). Ecco il pieno contesto e nello stesso tempo la prospettiva universale dei valori, sui quali è fondata la dottrina della paternità responsabile. L'atteggiamento di responsabilità si estende su tutta la vita coniugale e su tutto il processo di educazione. Solo gli uomini che hanno raggiunto la piena maturità della persona attraverso una completa educazione riescono a educare i nuovi esseri umani. La paternità responsabile e la castità dei mutui rapporti dei coniugi ad essa inerente, sono una verifica della loro maturità spirituale. Essi perciò proiettano la loro luce sull'intero processo di educazione, che si compie nella famiglia.L'amore coniugale: autentica donazione di una persona ad un'altra personaL'enciclica Humanae vitae contiene non solo perspicue ed esplicite norme concernenti la vita matrimoniale, la conscia paternità e la giusta regolazione della natalità, ma attraverso queste norme indica anche i valori. Essa conferma il loro retto senso e ci mette in guardia da quello falso. Essa esprime la profonda sollecitudine di salvaguardare l'uomo dal pericolo di alterare i valori più fondamentali. Uno dei valori più fondamentali è quello dell'amore umano. L'amore trova la sua sorgente in Dio che "è Amore". Paolo VI pone questa verità rivelata al principio della sua penetrante analisi dell'amore coniugale, perché esso esprime il più grande valore che si deve riconoscere nell'amore umano. L'amore umano è ricco di esperienze che lo compongono, ma la sua ricchezza essenziale consiste nell'essere una comunione di persone, cioè di un uomo e di una donna, nella loro mutua donazione. L'amore coniugale è arricchito dalla autentica donazione di una persona ad un'altra persona. Appunto questa mutua donazione della persona stessa non deve essere alterata. Se nel matrimonio si deve realizzare l'amore autentico delle persone attraverso la donazione dei corpi, cioè attraverso "l'unione nel corpo" dell'uomo e della donna, proprio per riguardo al valore stesso dell'amore, non si può alterare questa mutua donazione in nessun aspetto dell'atto coniugale interpersonale.La castità matrimoniale a salvaguardia dell’amore Il valore stesso dell'amore umano e la sua autenticità esigono una tale castità dell'atto coniugale, quale è richiesta dalla Chiesa ed è richiamata nell'enciclica stessa. In vari campi l'uomo domina la natura e la subordina a sé, mediante i mezzi artificiali. L'insieme di questi mezzi equivale in qualche modo al progresso e alla civilizzazione. In questo campo però, in cui si deve attuare attraverso l'atto coniugale, l'amore tra persona e persona, e dove la persona deve dare autenticamente se stessa (e "dare" vuol dire anche "ricevere" vicendevolmente) l'uso dei mezzi artificiali equivale ad un alteramento dell'atto di amore. L'autore dell'Humanae vitae ha presente il valore autentico dell'amore umano che ha Dio come sorgente e che viene confermato dalla retta coscienza e dal sano "senso morale". E proprio nel nome di questo valore il Papa insegna i principi della responsabilità etica. Questa è anche la responsabilità che salvaguarda la qualità dell'amore umano nel matrimonio. Questo amore si esprime pure nella continenza - anche in quella periodica - poiché l'amore è capace di rinunciare all'atto coniugale, ma non può rinunciare all'autentico dono della persona. La rinuncia all'atto coniugale può essere, in certe circostanze, un autentico dono personale. Paolo vi scrive a proposito: «questa disciplina, propria della purezza degli sposi, ben lungi dal nuocere all'amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano» (n. 21).La donazione presuppone autodominioEsprimendo la premurosa sollecitudine per l'autentico valore dell'amore umano, l'enciclica Humanae vitae si rivolge all'uomo e richiama il senso della dignità della persona. L'amore infatti, secondo il suo autentico valore, deve essere realizzato dall'uomo e dalla donna nel matrimonio. La capacità ad un tale amore e la capacità all'autentico dono della persona richiedono da entrambi il senso della dignità personale. L'esperienza del valore sessuale deve essere permeata di una viva consapevolezza del valore della persona. Questo valore spiega appunto la necessità della padronanza di sé che è propria della persona: la personalità infatti si esprime nell'autocontrollo e nell'autodominio. Senza di essi l'uomo non sarebbe capace né di donare se stesso né di ricevere. L'enciclica Humanae vitae formula questa gerarchia dei valori che si dimostra essenziale e decisiva per tutto il problema della paternità responsabile. Non si può capovolgere questa gerarchia e non si può mutare il giusto ordine dei valori. Rischieremmo una tale inversione e mutamento dei valori, se per risolvere il problema noi partissimo da aspetti parziali e non invece "dalla integrale visione dell'uomo e della sua vocazione".Altri aspetti del problema Ognuno di questi aspetti parziali in se stesso è molto importante e Paolo VI non diminuisce affatto la loro importanza: sia dell'aspetto demografico-sociologico, che bio-psicologico. Al contrario, il Pontefice li considera attentamente. Egli vuole impedire soltanto che uno qualsiasi degli aspetti parziali - qualunque sia la sua importanza - possa distruggere la retta gerarchia dei valori e possa togliere il vero significato all'amore come comunione di persone e all'uomo stesso come persona capace di autentica donazione, nella quale l'uomo non può essere sostituito dalla "tecnica". In tutto questo però il Papa non trascura nessuno degli aspetti parziali del problema, anzi Egli li affronta, stabilendone il contenuto fondamentale e, legata ad esso, la retta gerarchia dei valori. E proprio su questa strada esiste la possibilità di un controllo delle nascite e quindi anche la possibilità di risolvere le difficoltà socio-demografiche. E perciò Paolo VI ha potuto scrivere con tutta sicurezza, che «i pubblici poteri possono e devono contribuire alla soluzione del problema demografico» (n. 23). Quando si tratta dello aspetto biologico e anche di quello psicologico - come appunto insegna l'enciclica - la via della realizzazione dei rispettivi valori passa attraverso la valorizzazione dell'amore stesso e della persona. Ecco le parole dell'eminente biologo, professore P. P. Grasset dell'Accademia delle Scienze: «L'enciclica va d'accordo con i dati di biologia, rammenta ai medici i loro doveri e all'uomo segna la via, sulla quale la sua dignità - così da parte fisica come da quella morale - non subirà nessuna offesa» (Le Figaro, 8 ottobre 1968).Si può dire che l'enciclica penetra nel nucleo di questa problematica universale che ha impegnato il Concilio Vaticano II. Il problema dello sviluppo "del mondo", sia nelle sue istanze moderne, come pure nelle sue prospettive più lontane, desta una serie di domande che l'uomo si pone su se stesso. Alcune di esse, sono espresse nella Costituzione pastorale Gaudium et spes. Non è possibile una giusta risposta a queste domande senza rendersi conto del significato dei valori che decidono dell'uomo e della sua vita veramente umana. Nell'enciclica Humanae vitae Paolo VI si impegna nell'esame di questi valori nel loro punto nevralgico.La testimonianza cristiana L'esame dei valori e attraverso di esso la norma stessa della paternità responsabile formulata nell'enciclica Humanae vitae portano su di sé una particolare impronta del Vangelo. Ciò conviene ancora rilevare alla fine delle presenti considerazioni, sebbene fin dall'inizio nessuna altra idea sia stata il loro filo conduttore. Le questioni che agitano gli uomini contemporanei «esigevano dal Magistero della Chiesa una nuova approfondita riflessione sui principi della dottrina morale del matrimonio: dottrina fondata sulla legge naturale, illuminata ed arricchita dalla Rivelazione divina» (n. 4). La Rivelazione come espressione dell’eterno pensiero di Dio ci permette e nello stesso tempo ci comanda di considerare il matrimonio come la istituzione per trasmettere la vita umana, nella quale i coniugi sono "liberi e responsabili collaboratori di Dio Creatore" (n. 1). Cristo stesso ha confermato questa loro perenne dignità e ha innestato l'insieme della vita matrimoniale nell'opera della Redenzione e l'ha inserita nell'ordine sacramentale. Dal sacramento del matrimonio «i coniugi sono corroborati e quasi consacrati per l'adempimento fedele dei propri doveri, per l'attuazione della propria vocazione fino alla perfezione e per una testimonianza cristiana loro propria di fronte al mondo» (n. 25). Essendo stata esposta nell'enciclica la dottrina della morale cristiana, la dottrina della paternità responsabile, intesa come retta espressione dell'amore coniugale e della dignità della persona umana, costituisce un'importante componente della testimonianza cristiana. E ci pare che sia proprio di questa testimonianza un certo sacrificio che l'uomo deve compiere per i valori autentici. Il Vangelo conferma costantemente la necessità di un tale sacrificio e anzi lo conferma l'opera stessa, della Redenzione che si esprime totalmente nel Mistero Pasquale. La croce di Cristo è diventata il prezzo della redenzione umana. Ogni uomo che cammina sulla via dei veri valori, deve assumere qualche cosa di questa croce come prezzo che egli stesso deve pagare per i valori autentici. Questo prezzo consiste in un particolare sforzo: «la legge divina, come scrive il Papa, richiede serio impegno e molti sforzi», e subito aggiunge che «tali sforzi sono nobilitanti per l'uomo e benefici per la comunità umana« (n. 20). Lo sforzo necessario per raggiungere il valore dell’amoreL'ultima parte dell'enciclica è un appello a questo serio impegno e a questi sforzi, sia all'indirizzo delle comunità, affinché «creino un clima favorevole all'educazione della castità» (n. 22), sia a riguardo dei pubblici poteri, come pure agli uomini di scienza, affinché riescano «a dare una base sufficientemente sicura ad una regolazione delle nascite, fondata sull'osservanza dei ritmi naturali di fecondità» (n. 24). L'enciclica fa appello infine ai coniugi stessi, all'apostolato delle famiglie per la famiglia, ai medici, ai sacerdoti e ai vescovi come pastori delle anime. Agli uomini contemporanei, irrequieti e impazienti, e nello stesso tempo minacciati nel settore dei più fondamentali valori e principi, il Vicario di Cristo rammenta le leggi che reggono questo, settore. E poiché essi non hanno pazienza e cercano delle semplificazioni e delle apparenti facilitazioni, Egli ricorda loro quale debba essere il prezzo per i veri valori e quanta pazienza e sforzo occorra per raggiungere questi valori. Sembra che attraverso tutte le argomentazioni e appelli dell'enciclica, pieni per altro di una drammatica tensione, ci giungano le parole del Maestro: «con la vostra perseveranza salverete le vostre anime» (Luca, 21, 19). Poiché in definitiva si tratta proprio di questo.(©L'Osservatore Romano - 28-29 luglio 2008)

Un comitato per far meglio conoscere Pio XII

Un comitato per far meglio conoscere Pio XII
Su iniziativa di Emilio Artiglieri, giugno 2008
Gettò le basi per il Vaticano II e si dimostrò difensore dei deboli durante la Guerra
Si avvicina il Cinquantenario del transito del grande papa Pio XII avvenuto in Castelgandolfo il 9 ottobre 1958. La Chiesa del Concilio è a lui debitrice non meno che a Papa Giovanni XXIII. Se si guardano le minute delle discussioni dei Padri conciliari il suo nome è citato in ben 1.500 interventi. Nelle note dei documenti conciliari Pio XII è citato oltre 200 volte. È la citazione più ricorrente, eccezion fatta per le Sacre Scritture. Il riconoscimento unanime delle virtù eroiche del Servo di Dio da parte della Congregazione per le Cause dei Santi l’8 maggio del 2007 attende di essere sancito da Benedetto XVI.Nessuna discontinuità nella storia della Chiesa nel XX secoloUna migliore conoscenza e valorizzazione della figura di Pio XII contribuiranno alla corretta ermeneutica del Concilio Vaticano II. Infatti, secondo taluni, esisterebbe una linea di discontinuità tra la Chiesa preconciliare e quella successiva al Concilio. Coloro che privilegiano questa interpretazione tendono a contrapporre Pio XII a Giovanni XXIII, dimenticando tra l’altro il grande riconoscimento che questi fece nell’orazione funebre e nella prima enciclica Ad Petri Cathedram definendolo “Doctor optimus, Ecclesiae sanctae lumen, divinae legis ad monitor”. Sono i tre titoli che un’antifona liturgica del Messale romano conferisce ai dottori della Chiesa. In realtà, come ha ricordato Papa Benedetto XVI nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, non esiste una discontinuità nella storia della Chiesa, ma un processo lineare. Anticipatore del ConcilioPapa Pio XII ha anticipato e preparato il Concilio, si pensi solo alla riforma liturgica da lui avviata con l’enciclica Mediator Dei o all’enciclica Divino afflante Spiritu sullo studio della Sacra Scrittura. Il Concilio ha quindi portato a conclusione quello che era stata avviato sotto il suo Pontificato. Non esiste una “contrapposizione” tra Pio XII e Giovanni XXIII, come aveva sottolineato Papa Paolo VI avviando contemporaneamente la causa di beatificazione dei suoi due predecessori.Ricordiamo infine, che Pio XII ha lottato contro le ideologie e le dittature del suo tempo, restando a Roma quando tutte le altre autorità erano in fuga. Il motto del suo pontificato opus iustitiae pax sintetizza il sacrificio della sua vita per la pace attraverso la promozione della giustizia verso i più discriminati, consumato in umiltà e prudenza. I fedeli e i cittadini di Roma lo hanno scolpito nella memoria definendolo Defensor Civitatis come attesta la targa nella piazza a lui intitolata, antistante San Pietro.I sottoscritti intendono costituire un Comitato al fine di diffondere la conoscenza della figura del Servo di Dio, approfondirne il magistero e incoraggiare le iniziative opportune a partire da quelle per il Cinquantenario della morte che cade il 9 ottobre 2008 p.v. Elenco adesionida considerarsi provvisorio, in quanto stanno giungendo nuove adesioni 1. ACCAME Dott. Giano2. ALBERONI Prof.ssa Rosa3. ALFANO Prof. Giulio4. ALLAM Dott. Magdi Cristiano5. ANDREOTTI Sen. Giulio6. ARMATO On. Baldassarre7. BACCARI Prof. Maria Pia8. BACCARI Prof. Renato9. BELFIORI Dott. Fausto10. CANTAGALLI Dott. David11. CANTELMI Prof. Tonino12. CAUCCI von SAUCKEN Prof. Paolo 13. CAVALLERI Dott. Cesare14 CIANCIARELLI Prof. Francesco15. COLAFEMMINA Dott. Francesco16. CUOCOLO Anna17. DE CARLI Dott. Giuseppe18. DE LEONARDIS Prof. Massimo 19. DE MATA Dott. Luca20. FAZIO Dott. Antonio21. FIORI On. Avv. Publio22. FONTANA Prof. Sandro23. GARAVAGLIA Prof.ssa Maria Pia24. GARIBALDI Dott. Luciano25. GASPARI Dott. Antonio26. GIANFRANCESCHI Dott. Paolo27. GIUBILO Dott. Pietro28. GIULIANI Prof. Ubaldo29. LEVI DI GUALDO Dott. Ariel30. MAZZA Dott. Mauro31. MERCADANTE Prof. Francesco32. MERLI BRANDINI Prof. Pietro33. MESSORI Dott. Vittorio34. MONTI BRAGADIN Prof. Stefano35. MURA Prof. Gaspare36. NAPOLITANO Prof. Matteo Luigi37. PEDRIZZI Dott. Riccardo38. PERILLI Plinio, poeta e scrittore39. PESCHIERA Prof. Filippo40. REBECCHINI Ing. Gaetano41. RISÈ Prof. Claudio42. ROMANO Dott. Tommaso43. SAVONA Prof. Paolo44. SOCCI Dott. Antonio45. SQUITIERI Dott. Pasquale46. TORNIELLI Dott. Andrea47. VARI Prof. Massimo48. VARI Prof. Filippo49. VARNIER Prof. Giovanni Battista50. VASSALLO Prof. Pierangelo51. ZAVATTARO Dott. FabioARTIGLIERI Avv. Emilio, Segretario e Coordinatore

Accanimento terapeutico e testamento di vita

tratto dal dossier “Accanimento terapeutico e testamento di vita”, Fides.org 7 giugno 2008
Riflessioni sulle problematiche che riguardano l’introduzione del testamento di vita
(clicca qui per il dossier integrale: http://www.fides.org/aree/news/newsdet.php?idnews=19905&lan=ita )«A X affido il compito di rendere edotti i medici curanti dell’esistenza di questo testamento di vita con il quale, in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante, o malattia che mi costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione, chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico né a idratazione e alimentazione forzate e artificiali in caso di impossibilità ad alimentarmi autonomamente».È questa la proposta del testamento biologico presentata il 23 giugno 2006 dal prof. Veronesi non è una novità: è la copia conforme di un testo reso pubblico il 18 febbraio 1994 dalla British Medical Association e successivamente bocciato dalla Camera dei Lord di Londra.L’accanimento terapeutico è già vietatoLe dichiarazioni anticipate possono essere uno strumento per escludere l’accanimento terapeutico. Ma l’accanimento è concordemente condannato. Perciò che utilità hanno le dichiarazioni? Inoltre, non si può prevedere a tavolino in astratto un quadro clinico futuro e fissare dei limiti oltre i quali ci sarebbe accanimento.I dubbi sulle volontà espresse anticipatamenteCosa dire in merito al suo contenuto? Innanzitutto la prudenza che nasce dall'esperienza della vita concreta può fare tre obiezioni.1. Nessuna persona sana e nel pieno possesso delle facoltà mentali può sapere cosa si prova quando si è colpiti da una malattia incurabile e si è entrati nella fase avanzata di essa. Chi scrive il testamento è estraneo al vissuto della malattia. Perciò, invocare il principio del consenso informato per giustificare le dichiarazioni anticipate di trattamento rischia di essere fuorviante.2. Nessuno può prevedere con certezza quali saranno i progressi scientifici e medici nella diagnosi e nella cura di una particolare malattia. Terapie oggi penose per il malato, domani grazie ai progressi della tecnica potrebbero essere praticate con minori oneri. Perciò, il testamento reso oggi per un futuro prossimo o remoto potrebbe diventare impreciso o fuori luogo.3. Non è detto che le volontà che io oggi esprimo corrispondano esattamente a ciò che io desidererò quando sarò colpito da una malattia grave. Potrei aver cambiato idea e non aver avuto il tempo di manifestarlo. Posti tutti questi dubbi circa un bene fondamentale, com'è quello della vita, è doveroso astenersi da qualsiasi atto che possa pregiudicarla.Lo stravolgimento del rapporto medico-pazienteEntrando maggiormente nel merito, noteremo che il testamento biologico stravolge il rapporto medico-paziente. Infatti, esso rappresenta una delle estreme esasperazioni dell’autonomia del paziente. Rifiutando in modo deciso il modello paternalistico viene adottato il modello autonomistico o contrattualistico sulla base di una presunta parità fra i contraenti del rapporto, cioè tra medico e paziente. Ma tutto ciò altera l'identità delle due figure in gioco. Il medico, da professionista che agisce nell’interesse e nel bene della salute del paziente, è degradato ad essere un esecutore delle volontà del paziente. Il rapporto virtuosamente asimmetrico tra medico e pazienteIn questo modello il medico potrà essere anche abilissimo tecnicamente, ma sarà sempre incompetente dal punto di vista decisionale. Il paziente, invece, diventa un puro cliente che può chiedere tutto al medico. In realtà, la parità tra i due contraenti non esiste, perché il medico “sa”, mentre il paziente, anche quando è perfettamente informato delle sue condizioni e delle possibilità terapeutiche, non è libero di sfuggire alla malattia e spesso è incapace di un confronto obiettivo con istanze morali e scientifiche. Il rapporto medico-paziente è un rapporto strutturalmente asimmetrico. Il medico, se non vuole essere ridotto a semplice erogatore di servizi, deve conservare la sua autonomia professionale e la sua dignità etica per cui, avendo di mira il bene e la vita del paziente, valuterà sempre se le richieste del paziente o il trattamento terapeutico adottato siano adeguati al caso concreto. Inoltre, se il medico non potesse fare riferimento al bene del paziente (ricerca della salute o eliminazione progressiva del dolore), non potrebbe sorgere l’alleanza solidaristica tra medico e paziente. Autonomia esasperata che lede la dignitàNel modello dell’alleanza terapeutica il medico terrà conto delle dichiarazioni espresse dal paziente, ma le potrà disattendere sulla base delle conoscenze e dei progressi della medicina e interpreterà le intenzioni del paziente all'interno del contesto in cui il paziente le ha manifestate. Inoltre, dobbiamo riconoscere che l'autonomia del paziente non può essere esasperata fino a farne un assoluto, perché spesso il paziente non è in grado di valutare appieno la sua malattia e lo sviluppo della scienza e dell'arte medica. Piuttosto è fondamentale che il medico si faccia carico dello stato complessivo del paziente suo interlocutore, creando tutte le condizioni perchè il paziente, mediante il dialogo, l'informazione e l'incoraggiamento, possa orientarsi verso la scelta migliore per la sua persona. Perciò, il testamento biologico, mentre sembra esaltare la libera scelta del malato, in realtà ne lede gravemente la dignità, perché il valore di un individuo umano, per quanto malato, non dipende dalla più o meno normale vita di relazione, che è in grado di vivere.Alimentazione e idratazione non sono terapieNel testo proposto si legge che il malato chiede «di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico né a idratazione e alimentazione forzate e artificiali in caso di impossibilità ad alimentarmi autonomamente». In pratica il malato che redige il testamento biologico si espone volontariamente, ma forse ne è ignaro, al rischio di morire di fame e di sete in quanto rinuncia all'idratazione e all'alimentazione mediante flebo. Proporre questo tipo di testamenti sarebbe un atto di solidarietà e di pietà? Le motivazioni addotte a favore del testamento biologico giocano su un’ambiguità: per evitare l'accanimento terapeutico si propone il testamento biologico, cioè la generica e vaga rinuncia a terapie. Tuttavia, mentre è moralmente lecito, anzi doveroso, sospendere tutti quegli atti diagnostici o/e terapeutici che si configurano come accanimento ostinato, non è mai lecito omettere di idratare e alimentare, perché idratare e alimentare non sono terapie. Se lo fossero, allora tutte le volte che ci sediamo a tavola ci sottoporremo a una terapia? Ma il testamento biologico è l'unica cosa che un oncologo può offrire a un malato in fase avanzata? Esistono delle alternative?Le pressioni eutanasicheLe proposte a favore del testamento biologico destano sconcerto. Nella sua genericità legittima l’abbandono terapeutico di molti malati che grazie alle moderne tecnologie potrebbero continuare a vivere e ad esprimere la loro personalità. Attenua la solidarietà umana e il vincolo morale e professionale che lega il medico al bene della persona malata. Spinge verso l’eutanasia volontaria e preventiva. Dal punto di vista sociale è particolarmente pericolosa perché le persone più anziane e più sole, più vulnerabili sarebbero più esposte al richiamo «di farla finita al più presto». D’altronde come ha riconosciuto un’associazione di psicologi olandesi dopo la legalizzazione dell’eutanasia, gli individui più vulnerabili avvertono una pressione, reale o immaginaria, che li spinge a richiedere di accelerare la morte e sono spesso assaliti dal dubbio di essere di peso alla società.La terapia del doloreLo sconcerto aumenta se pensiamo che la proposta è stata lanciata da un noto oncologo, il quale dovrebbe essere esperto nel lenire il dolore, se non è possibile la cura, e non nel suggerire una morte anticipata e dolorosa. Desta meraviglia anche il fatto che i mass media parlino tanto di eutanasia o di testamento biologico, mentre tacciono sui continui progressi nel trattamento del dolore, soprattutto grazie a un dosaggio calibrato di morfina. La proposta a favore del testamento biologico risulta deprimente. Mentre le proposte solidaristiche, che mirano ad accogliere le esigenze dei malati in fase acuta e avanzata, sono quelle che puntano sulla ricerca scientifica e farmacologica nel trattamento del dolore e sulla formazione di personale specializzato nel sostegno e nella cura dei malati e dei loro congiunti. Il principio che sorregge questo strumento è discutibile e la sua credibilità è più che dubbia, vista «la frequenza dei casi in cui il malato sconfessa il suo documento quando è giunta l’ora di applicarlo». La convenzione di biomedicina del Consiglio d’EuropaLa Convenzione di biomedicina, firmata dal Consiglio d’Europa a Oviedo il 20 settembre 1996, all’art. 9 afferma che «Saranno presi in considerazione i desideri espressi in precedenza in merito a un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà». Al paragrafo 62 del rapporto esplicativo di questa convenzione si afferma che tenere presenti i desideri del paziente non significa che essi debbano essere necessariamente eseguiti, perché potrebbero non aver tenuto conto dei progressi scientifici e delle nuove terapie disponibili.Il Comitato Nazionale per la BioeticaIl Comitato Nazionale per la Bioetica il 18 dicembre 2003 ha approvato il documento: Dichiarazioni anticipate di trattamento. Offre una visione positiva delle dichiarazioni anticipate presentandole come una legittima opportunità di «continuazione del dialogo», sia pure imperfetto, tra medico e paziente. Le dichiarazioni non possono servire a richiedere pratiche che siano contra legem, come tecniche eutanasiche. Il CNB indica due modalità per rendere più «efficaci» e meno astratti i contenuti: redigere le dichiarazioni 1) all’inizio della malattia o nel corso di essa quando si delineano meglio evoluzione e prognosi; 2) con l’assistenza del medico curante. In questo modo viene coinvolta l’integrità morale e la responsabilità deontologica del medico che assiste il suo paziente in questo delicato momento informativo. Le dichiarazioni non hanno carattere giuridico vincolante per il medico, proprio per questo è stata preferita la dizione «dichiarazioni» a «testamento di vita».Disporre del bene vitaLa meta molto probabile dell’introdurre il testamento biologico o le dichiarazioni anticipate di trattamento è disporre del bene vita, cioè disporre di un bene indisponibile e inalienabile di ogni essere umano. È verosimile che si voglia percorrere una strategia «carciofo»: prima mossa, ti faccio democraticamente scegliere come morire; seconda mossa, determiniamo in astratto quali sono quelle condizioni di vita insostenibili e non degne di essere vissute; terza mossa, alcuni decideranno quale vita è degna di essere vissuta e quale no.La vita ridotta a “vita biologica”Inoltre, il testamento biologico suppone che la vita sia solo la vita nel suo aspetto biologico. E gli altri aspetti della complessa esistenza umana? Altro timore è che queste leggi o i vari documenti di fine vita siano interpretati di fatto come un’apertura all’eutanasia passiva o all’abbandono del malato e che poi vengano usati a nostro danno personale, magari per risparmiare costi o liberare un letto. Infine, alla base di queste proposte del testamento biologico c’è una cultura del sospetto, il sospetto nei confronti del medico, come si stentasse a credere che oggi il medico sia in grado di assumere una decisione che miri al vero bene del paziente.Dietro la domanda di morte: solitudine e pauraDi fronte alle varie iniziative di introdurre più o meno apertamente forme di eutanasia è necessario ricordare che la domanda di morte espressa da un paziente va interpretata e che dietro di essa nella stragrande maggioranza dei casi si cela la domanda di aiuto e di non restare soli. Coloro che propongono la legalizzazione dell’eutanasia sono soliti portare esempi di singoli pazienti la cui decisione di morire sembra consolidata e irreversibile. Ma dobbiamo riconoscere che la situazione della stragrande maggioranza dei malati oncologici e in fin di vita è ben diversa: questi non chiedono di farsi uccidere, chiedono piuttosto di non essere abbandonati né dai parenti, né dagli amici, né dai medici. L’eutanasia si rivela perciò come la risposta sbagliata a un problema realmente drammatico. Esistono delle risposte umanamente eccellenti a questo problema, come le cure palliative, la sedazione del dolore, e l’accompagnamento verso la morte con senso di compassione e con prossimità, valori accettabili anche da chi non crede.Riduzionismo eutanasicoInoltre, l’eutanasia e il testamento biologico operano almeno due forme di riduzionismo: riducono la morte a una meccanica prassi burocratica e standardizzano casi clinici, ognuno dei quali ha una sua tipicità del tutto singolare; riducono impercettibilmente il medico da professionista che si obbliga nei confronti del malato a impiegare determinati mezzi al mero operatore che si obbliga a ottenere precisi risultati.Il tabù della morteÈ particolarmente urgente fugare qualsiasi tabù sulla morte e, anzi, riscoprire che il momento finale dell’esistenza è tanto carico di significato quanto la vita che lo ha preceduto. Se l’esistenza è stata qualitativamente alta, il momento della morte sarà altrettanto alto.La tentazione di distinguere vite degne e vite indegneAltrettanto urgente è assicurare da un lato la libertà di rifiutare le cure e dall’altro costruire un sistema di garanzie e cautele che non lascino adito a dubbi perché sbagliare in questo campo è un gesto senza rimedio e si chiama omicidio. Non insistere in terapie inutili è una buona e legittima scelta dettata dal buon senso e corrisponde a rifiutare l’accanimento: il medico si assume la responsabilità tipica del professionista di valutare insieme al paziente gli effettivi benefici della cura in quel concreto quadro clinico. Senza mai cedere alla tentazione di distinguere vite di qualità da vite non più degne di essere vissute, una civiltà umana degna di questo nome si sforzerà, per quanto è attualmente possibile, di garantire una alta qualità di vita anche ai malati che sono oramai giunti alla fine.Note1 Mirabel X., Tra rinuncia e accanimento terapeutico, cit., 45.2 Cf. il sito www.governo.it/bioetica/index.html. Per un commento si legga: BOMPIANI A., Le Dichiarazioni anticipate di trattamento del Comitato Nazionale per la Bioetica: l’ispirazione alla Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, in «Medicina e morale» 2004, 1115-1131.

Donne e lavoro: il prezzo del pregiudizio

Donne e lavoro: il prezzo del pregiudizio
di Andrea Bassanini, Anne Saint-Martin e Stefano Scarpetta, lavoce.info 2 luglio 2008
La scarsa occupazione è dovuta ad assenza di servizi per la famiglia e a pratiche discriminatorie
In Italia solo il 46 per cento delle donne in età lavorativa ha un lavoro, uno dei livelli più bassi tra i paesi Ocse, superiore solo a quello di Messico e Turchia.Pochi asili nido e detrazioni fiscali insufficienti per le famiglieUn tasso di occupazione così basso è innanzitutto il risultato della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, dovuta a fattori ben noti, compresa la scarsa disponibilità di asili nido e altre strutture di supporto alle famiglie e l’insufficienza delle detrazioni fiscali a favore di coppie multi-reddito. La scarsa partecipazione femminile non è tuttavia l’unico fattore. Le opportunità di lavoro offerte alle donne tendono a essere meno attraenti di quelle offerte agli uomini. Per esempio, ancora nel 2005 il 15 per cento delle donne tra i 25 e i 49 anni aveva un contratto di durata determinata, contro il 9 per cento degli uomini nella stessa fascia di età (figura 1). Inoltre, come in altri paesi Ocse, le donne, pur a parità di qualificazione, tendono a essere pagate molto meno degli uomini. In altre parole, seppure negli ultimi anni si è visto un numero crescente di donne accedere a posti di comando nelle imprese e nella vita pubblica, anche in Italia, esistono ancora barriere più o meno visibili che limitano il completo inserimento delle donne nel mondo del lavoro.Diversità di trattamento in base al sessoDiversi fattori entrano in campo per spiegare questi differenziali nell’accesso al lavoro e nelle retribuzioni tra donne e uomini pur con qualificazioni simili. Il primo è sicuramente il campo di specializzazione professionale: le donne tendono a concentrarsi in settori a più bassa produttività e più soggetti a fluttuazioni della domanda dove i contratti a durata determinata sono prevalenti. Ma anche negli studi empirici che tengono conto di questi, e altri, fattori “oggettivi”, una parte rilevante (circa un quarto) dei differenziali nei tassi d’occupazione e nelle retribuzioni non può essere attribuito a caratteristiche individuali. Sia negli avanzamenti professionali che nelle assunzioni, esistono “soffitti di vetro” e “porte di vetro” che penalizzano le donne, e sono, entro certi limiti, dovuti a pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro, vale a dire a una diversità di trattamento tra individui ugualmente produttivi unicamente a causa della loro appartenenza a gruppi diversi, quali il sesso.
Figura 1. Proporzione degli occupati con contratti a durata determinata, 2005

La liberalizzazione dei mercati fa diminuire la discriminazione?Identificare pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro non è semplice. (1) Un approccio utilizzato in letteratura, e suggerito originariamente dal premio nobel Gary Becker nel 1957, consiste nell’analizzare l’effetto che un aumento nel grado di concorrenza nei mercati di beni e servizi ha sulle disparità di salario o occupazione tra sessi (o razze). Becker, infatti, suggerì che se la discriminazione è basata su pregiudizi da parte dei datori di lavoro, ed è quindi inefficiente, una maggiore concorrenza, riducendo i margini di profitto, ridurrebbe altresì la possibilità per le imprese di usare pratiche discriminatorie, pena la perdita di quote di mercato e il rischio di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa stessa.Una ricerca Ocse mostra che le pratiche discriminatorie persistonoUna ricerca pubblicata nelle Prospettive occupazionali dell’Ocse mette in relazione la liberalizzazione dei mercati di beni e servizi di 21 paesi Ocse tra il 1975 e il 2003 con le disparità d’occupazione e salario tra uomini e donne. (2) Se Becker ha ragione, ci si dovrebbe aspettare che la maggiore concorrenza generata da liberalizzazioni e privatizzazioni abbia portato a una riduzione nei differenziali d’occupazione e di retribuzione con effetti più marcati là dove l’effetto delle riforme è stato maggiore. Lo studio tiene conto di un insieme di altri fattori che possono incidere sui differenziali, tra cui l’evoluzione della domanda di lavoro aggregata, il differenziale di partecipazione tra i sessi, l’evoluzione del potere di negoziazione dei lavoratori, e il secolare aumento della parte dei servizi nell’economia. I risultati sono sorprendenti: circa l’8 per cento delle disparità d’occupazione (e fino al 30 per cento delle disparità di salario orario) possono essere associate a pratiche discriminatorie.Legislazione antidiscriminatoria: la situazione italianaSe la progressiva liberalizzazione dell’economia può contribuire a ridurre le discriminazioni sul lavoro, una rigorosa legislazione è uno strumento irrinunciabile. Ma la legislazione può agire da deterrente solo se è efficacemente applicata. Il problema è che in molti paesi, tra cui l’Italia, l’approccio legale è essenzialmente volontaristico: la repressione della discriminazione dipende principalmente dalla volontà delle vittime di sporgere querela. Un requisito prioritario è dunque che i cittadini siano informati dei loro diritti, in modo da poterli far valere. Tuttavia, gli italiani appaiono particolarmente mal informati sull’illegalità di certe pratiche: per esempio del fatto che la legge proibisce di discriminare al momento dell’assunzione (figura 2). Questo mette in luce la forte necessità di promuovere campagne d’informazione tra l’opinione pubblica.
Figura 2. Meno del 30% degli italiani sa che discriminare al momento dell’assunzione è illegale

Inoltre, per la vittima deve essere possibile poter portare avanti una causa di discriminazione sino alla sentenza finale del tribunale. Ma dimostrare la sussistenza di pratiche discriminatorie non è banale, perché l’informazione è in generale esclusivamente nelle mani dei datori di lavoro.Al querelante l’onere della prova, ma non è facileIn alcuni paesi, per esempio Australia, Canada e Stati Uniti, autorità indipendenti svolgono vere e proprie indagini, il che permette di sormontare il problema. I paesi europei, inclusa l’Italia per la discriminazione sessuale, hanno optato per il principio dello spostamento dell’onere della prova: il querelante deve provare solo l’esistenza di una diversità di trattamento, potenzialmente dovuta a discriminazione, mentre il datore di lavoro ha l’onere di provare che tale trattamento non è il risultato di pratiche discriminatorie. Tuttavia, anche provare un trattamento diverso può essere proibitivo per il querelante. In particolare in Italia, perché, al contrario di molti altri paesi, nessuna protezione speciale è accordata a testimoni, per esempio colleghi, contro possibili ritorsioni del datore di lavoro.Sanzioni efficaciDue altri fattori appaiono cruciali per dare al divieto di discriminare un efficace potere deterrente, ed entrambi sono sostanzialmente assenti o inutilizzati in Italia. Primo, la repressione della discriminazione è più efficace se non è basata solo su un meccanismo volontaristico, ma sull’attività di autorità competenti a compiere indagini anche in assenza di querele individuali, come avviene in Canada, Gran Bretagna, Norvegia o Stati Uniti. Secondo, l’impresa riconosciuta colpevole di discriminazione deve poter essere sanzionata al di là della compensazione finanziaria dovuta alla vittima. Negli Stati Uniti, per esempio, certi studi mostrano che l’introduzione della pena di esclusione dai contratti pubblici ha avuto un enorme impatto. Una norma simile esiste da parecchi anni nell’ordinamento italiano, ma non è mai stata applicata.Note(1) Per esempio, gli studi sperimentali, come i cosiddetti test situazionali, che sono molto popolari nel caso della discriminazione razziale, possono difficilmente fornire un’idea dell’effetto aggregato della discriminazione, soprattutto nel caso uomo-donna. È ben noto che in un certo numero di professioni le imprese preferiscono le donne e non gli uomini – si pensi per esempio a un posto da segretaria. Quindi, nel caso della discriminazione basata sul sesso, i test situazionali sono, inevitabilmente, affetti dal tipo di professione inclusa nel campione.(2) Oecd Employment Outlook 2008, Capitolo 3. www.oecd.org/els/employment/outlook.