giovedì 19 novembre 2009

1492-1542 La coscienza cristiana e i problemi della conquista nella formazione dell’America latina"

di Fidel González-Fernández, da AA.VV., «Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia», Piemme, Casale Monferrato 1994, pp. 281-328

La riflessione cattolica sui chiaroscuri della Conquista portò alla formulazione dei diritti universali due secoli prima della Rivoluzione francese

Premessa su una storia processata
La storiografia protestante, a partire dal secolo XVII, e poi la cultura liberal-illuminista hanno accusato la storia latino americana di tre peccati originali: la violenta colonizzazione spagnola, il cattolicesimo di cui essa è permeata e il corrotto «meticciato».
A questa storia segnata da tanta rovina si contrapporrebbe la civilizzata, pura e rispettosa presenza anglosassone e protestante. Il protestantesimo avrebbe creato nell’America del Nord l’unica terra promessa di libertà e progresso. Le Chiese della Riforma e le sette protestanti attuali hanno sempre considerato i popoli latino americani come non evangelizzati. Secondo esse il cattolicesimo è una forma sincretista e carnale di un cristianesimo pagano. Già a partire dal secolo XIX i regimi liberali hanno tentato di sradicare i popoli del continente dalle loro radici cattoliche e di aggiogarli al liberalismo protestante del Nord, con l’appoggio della cultura illuminista e del potere nordamericano. In questo progetto ebbe un ruolo fondamentale la massoneria e più tardi la cosiddetta «invasione» delle sette fondamentaliste protestanti arrivate dal Nord.
Da un’altra sponda le attuali correnti «indigeniste» sostengono la stessa tesi anche se partono da presupposti differenti. Per essi ciò che accadde a partire dal 1492 sarebbe stato l’inizio di un incontro tragico tra due mondi, il principio di un genocidio fatto di guerre di conquista, lavori forzati, punizioni disumane, malattie importate e un’evangelizzazione sotto il segno della spada. La scoperta e la conquista avrebbero generato un sistema iniquo che dura ancora oggi. I conquistatori iberici avrebbero imposto con la forza una lingua, una cultura e una fede.

Cosa si rimprovera al Cattolicesimo
Tre dunque sono i grandi capi di accusa:
1. La scoperta dell’America inizia la conquista, lo spoglio e la repressione dell’identità millenaria del continente americano.

2. L’evangelizzazione degli indios fu strumentalizzata da parte della Corona Spagnola con la collaborazione della Chiesa al servizio della ragione di Stato e per giustificare lo spoglio delle terre.

3. Il genocidio degli indios e lo spopolamento sistematico fu il risultato finale.

In appoggio a questa triplice tesi si segnalano fatti storici e si fa ricorso ad una interpretazione sulla falsa riga di quanto già alla fine del Cinquecento aveva fatto il fiammingo Theodoro de Bry con le affermazioni di Fra Bartolomè de las Casas nella sua Brevisima historia de la destrucción de las Indias.
È necessario a questo punto esaminare i dati che ci fornisce la storia partendo non da una posizione prefabbricata ma realista, per arrivare a un giudizio che tenga conto di tutti i fattori in gioco.

La prima critica della conquista
Non furono gli Indios che vennero in Europa, ma gli europei che andarono nel Nuovo Mondo. Il solo fatto della scoperta (inventio) sembrava conferire loro un titolo autentico di possesso. Solo che le immense regioni di quel Nuovo Mondo avevano già un possidente: i popoli aborigeni dell’America. I conquistadores a volte hanno offerto alleanze, ma in genere hanno invaso quelle terre. Fu un’impresa pacifica o più spesso accompagnata di violenze? Come reagì la coscienza cattolica in Spagna man mano che gli avvenimenti venivano conosciuti e chiariti?

La Spagna che scoprì il Nuovo Mondo
La Spagna che scoprì il Nuovo Mondo aveva appena raggiunto l’unità politica e religiosa e conclusa la reconquista del suo territorio occupato dai musulmani otto secoli prima. Il popolo spagnolo, provato nella lotta e retto da due grosse personalità come Isabel di Castiglia e Fernando d’Aragona, si trovava pieno d’energia giovanile e desideroso di lanciarsi a nuove imprese.

Al sud della Penisola Iberica si apriva il continente africano, e in un primo momento i regni iberici pensarono di espandersi in quella direzione. Infatti il Portogallo aveva già iniziato da tempo quella rotta, e la Castiglia aveva conquistato le isole Canarie. Queste isole diventarono il campo di sperimentazione dell’impresa sia militare come missionaria che si tenterà in America e la scala naturale nei viaggi verso quel continente.

La scoperta dell’America deviò l’attenzione spagnola dall’Africa verso l’America e condizionò in seguito la storia spagnola e anche quella mondiale. I primi navigatori-scopritori si sono trovati con genti che non conoscevano Cristo. Già Colombo nella sua lettera d’annuncio della scoperta ai Re Cattolici e in diverse pagine del suo diario annota come quelle genti facilmente diventerebbero cristiane «perché non avevano setta alcuna». In Spagna non si era tentata l’evangelizzazione dei musulmani perché si considerava impossibile la loro conversione a causa della chiusura della religione musulmana. L’osservazione di Colombo sembrava indicare come nelle Nuove Terre la situazione era differente. L’arrivo dei primi indios, come per errore furono chiamati da Colombo, portati in Spagna da Colombo, svegliò la passione missionaria spagnola.

La prima spedizione colombiana aveva avuto uno scopo geografico ed economico: trovare una nuova rotta per il commercio delle spezie e altri prodotti del Lontano Oriente. Il fatto di aver trovato un mondo popolato di genti ignare di Cristo diede un nuovo indirizzo alle scoperte. Nella prima bolla di Alessandro VI, Inter coetera del 1493, il papa riconosce che i Re Cattolici si erano consacrati all’espansione della fede nella Riconquista, già conclusa e che aveva il «progetto di cercare e trovare alcune terre e isole remote, sconosciute e non scoperte fino ad oggi da nessun altro, con lo scopo di attrarre al culto del nostro Redentore e alla conoscenza della fede cattolica i loro naturali e moratori…» (1). Le così dette bolle alessandrine giustificavano il dominio di Spagna sulle terre scoperte, ma condizionavano chiaramente la sovranità all’evangelizzazione. Così dice la bolla Inter coetera: «Dovete mandare alle terre e isole sopradette uomini retti e timorosi di Dio, dotti, periti ed esperimentati; per istruire nella fede cattolica i naturali e gli abitanti sopradetti ed indurli ai buoni costumi».

Per cui nel secondo viaggio di Colombo nel 1493 l’accompagnano alcuni missionari sotto la guida del minimo Fra Bernando Boyl. Dopo questo primo gruppo si moltiplicheranno lungo il nuovo secolo gli arrivi di missionari francescani, domenicani, agostiniani, gesuiti, mercedari ed altri.

La così detta «conquista spirituale» delle Indias del Cielo andò di pari passo con quella delle Indias de la Tierra: croce e spada camminavano spesso insieme. Nacquero così dal primo momento in quell’incontro fra Europa ed America i problemi di coscienza tanto per i missionari come per i Re di Spagna, i conquistadores e colonizzatori.

La testimonianza e il giudizio di Fra Bartolomé de las Casas
Secondo Fra Bantolomé de las Casas, dal 1492 al 1542, anno quest’ultimo in cui il frate dominicano finisce la sua Brevissima relación de la destrucción de las Indias (2), la conquista delle Nuove Terre scoperte avrebbe significato un crescendo di violenze a danno degli indigeni.
Las Casas segue l’itinerario delle conquiste e descrive lo scenario dove si verificano i fatti, dalle Antille fino al Messico, dal Centroamerica al Perù.
Nella sua opera Las Casas descrive sempre le popolazioni di queste Terre come «la gente più benevola mai vista, aperta e amica di cristiani..., mansuetissima..., molto bene disposta, sensata, politica e ben educata, caratterizzata dalla prudenza, senza vizi e peccati, .. . ricchissima in oro, argento e pietre preziose, che abitava in regioni ammirevoli per la loro fertilità, prospere, delle pile popolate del mondo...» (3). Insomma, Las Casas descrive le genti del Nuovo Mondo come il paradiso terrestre ritrovato dove abitava gente senza malvagità, senza odii né rancori, aperta alla dottrina cristiana, gente insomma quasi senza peccato originale.

In queste terre e su queste pecore mitissime caddero i conquistatori «come lupi tigri e leoni crudelissimi, affamati da molti giorni...» e «li finirono... crudelmente». Egli descrive genericamente le violenze, le crudeltà dei conquistadores, ciò che egli definisce una «tiranía infernal» che portò a «estirpare dalla faccia della terra quelle miserande nazioni» (4).

I loro metodi per raggiungere il loro scopo sarebbero stati «guerre ingiuste, crudeli, sanguinose e tiranniche» e l’oppressione dei sopravvissuti «con la più dura e orribile e aspra servitù...» (5).

Il motivo di tanta crudeltà fu la bramosia dell’oro e delle ricchezze. La conseguenza di questa politica fu per Las Casas lo spopolamento del Nuovo Mondo.

Su quali testimonianze si basa Las Casas per queste dure accuse? Anzitutto sulla propria esperienza personale nelle Indias; in almeno cinque casi porta anche la testimonianza di altrettanti missionari, mentre negli altri casi cita le sue fonti di informazione in maniera generica e imprecisa.

Le sue conclusioni sono molto dure: i conquistadores sono rei di tradimento, terrore, schiavitù, furto, menzogna e massacri. Inoltre utilizzano l’assurdo e ingiustissimo «requerimiento» (6) per poter raggiungere il loro scopo. Per cui questi cattivi cristiani compromettono Dio e il Re con le loro opere (7). Las Casas giustifica quindi le guerre degli indios contro i conquistadores come autodifesa, mentre condanna in assoluto la conquista come una guerra d’aggressione (8). La visione manichea di Las Casas sulla scoperta e sulla conquista (tutti gli scopritori e conquistadores sono stati diabolici, mentre tutti gli indios erano buoni e innocenti) è stata accettata da molti acriticamente come fonte per giudicare la conquista ed elaborare la «leyenda negra».

Le testimonianze dei conquistati aztechi
Alcune delle testimonianze più significative sulla conquista vista dai vinti appartengono agli indigeni del Messico (9). Fra queste testimonianze meritano speciale rilievo quelle note come: El códice de Aubin (10), Los cantares mexicanos (11), Los anónimos de Tlatelolco (12), Los informantes de Sahagún (13), Historia de la Nación chichimeca di Don Fernando de Alva Ixtlilxochitl (14), e la Crónica di Don Diego Muñoz Camargo (15).

Queste testimonianze si riferiscono alla conquista del Messico (febbraio 1519 - agosto 1521). Ci segnalano i fatti, i responsabili e le conseguenze negative immediate della conquista. Queste testimonianze ci segnalano le cause delle tragedie descritte e le complesse responsabilità dividendole fra i diversi protagonisti delle vicende con più o meno accuratezza: gli indios tiaxcaltecas e otomies, gli spagnoli e i mexicas (aztechi).

Nessuna fonte implica nelle responsabilità, sia politica come giuridica, la Corona spagnola. Le fonti indigene responsabilizzano principalmente i singoli soldati spagnoli; per le fonti meticce invece la responsabilità va divisa alla pari fra indios e spagnoli. Le vittime sono state un po’ tutti e le tristi conseguenze di spopolamento e repressione non si fecero aspettare (16). Ad ogni modo, indipendentemente dalle responsabilità dei singoli gruppi, le conseguenze sono state sempre drammatiche e le vittime numerosissime. Così Fernando de Alva Ixtlilxochitl parla di 240.000 Messicas morti, su 300.000 che parteciparono alla guerra di conquista dell’Impero azteco (1519-1521), durante la battaglia finale della presa di Tenochtitlán, c 30.000 tiaxcaltechi e spagnoli su 200.000 tlaxcaltcchi (gli spagnoli erano appena qualche centinaio).

Il Cantar Los últimos dias del sitio de Tenochtitlán ci dà tutta la visione drammatica di quella tragedia umana:
«en los caminos yacen dardos rotos 
los cabellos están esparcidos
destechadas están las casas 
enrojecidos tienen sus muros 
gusanos pululan por calles y plazas
y en las paredes están salpicados
sus sesos…» (17).

Il drammatico caso della conquista del Perù
La conquista dell’antico Impero degli Incas fu senz’altro il caso più drammatico, quello che farà discutere di più e metterà in crisi la stessa presenza spagnola nel Nuovo Mondo. Alla fine la Scuola teologico-giuridica di Salamanca darà il suo verdetto di invalidazione della prima conquista: i popoli indios erano sovrani e quindi per ragione della conquista non potevano essere privati delle loro proprietà e giurisdizioni, come affermò l’agostiniano Fra Alonso de Veracruz (18), discepolo di Vitoria a Salamanca, nelle sue lezioni all’Università di Messico nel 1553 e come viene riaffermato nella sua opera De dominio infidelium et iusto bello contra indos. Per cui si cercherà di rettificare la politica della conquista e di vedere a quali condizioni gli spagnoli potevano rimanere in quelle terre dove di fatto si trovavano ormai già da anni.
La scuola salmantina arriverà a formulare il principio della sovranità dei popoli indios sotto la Corona di Castiglia (Spagna) formando una comunità di nazioni libere sotto la Corona spagnola. Questa doveva essere il garante di tale libera comunione dei popoli. Ciò avrebbe esigito un cambiamento radicale della presenza coloniale nel Nuovo Mondo. Si rivendica così l’autogoverno per le Indie, come sosterrà il creolo spagnolo-messicano e cattedratico delle Università di Messico e di Valladolid (Spagna), Juan de Zapata nella sua opera De iustitia distributiva, pubblicata a Valladolid nel 1609 (19). Queste situazioni causarono tali crisi di coscienza che Carlo V (1500-1558) volle l’abbandono dell’impresa del Nuovo Mondo.
Abdica anche per questo a favore di suo figlio Filippo II (1556) e si ritira al monastero di Yuste (Extremadura in Spagna) dove morì nel 1558. Ciò causò nuovi problemi, polemiche e conflitti che dominarono la scena politico-religiosa dell’America spagnola per più di cinquant’anni.

Anche qui, in Perù, le testimonianze sono abbondanti sia da parte indigena come da parte spagnola. Ricordiamo le più importanti: dell’inca Titu Cusi Yupanqui (20), dell’indio don Juan de Santacruz Pachacuti (21), la testimonianza dell’indio don Felipe de Guaman Poma de Ayala (22), del poeta l’Inca Gancilaso de la Vega (23), e quella del «gesuita anonimo» Blas Valera (24).

Tradimento di alcuni cristiani
Poma de Ayala nella sua opera si era proposto di informare il Re di Spagna sulla reale situazione nelle Indie nel Perù. Pensa che i mali che si trovano nelle Indie non dipendono dalla Corona né dalle sue leggi, ma da alcuni coloni spagnoli. Lo scopo dell’opera è quindi quello di stabilire un’armonia fra la Spagna e le Indie. L’espressione di tale sentimento si trova in un’immagine riprodotta dove l’Inca e i quattro re dei quattro Suyu (regni) sostengono le colonne di Ercole, simbolo dell’Impero Spagnolo (25).

Anche qui le accuse sono pesanti: la conquista così com’è stata effettuata ha causato lo spopolamento dovuto sia agli spagnoli (si portano via le donne, pressione dei tributi eccessivi, lavoro eccessivo nelle miniere, guerre di conquista), sia agli indios (crudeltà e castighi durissimi, guerre intestine e civili continue...). Segnala quindi la condotta brutale di alcuni conquistadores. Le cause di tali soprusi si trovano nella cupidigia dell’oro e argento, nella bramosia del potere e nella lussuria. Tale cupidigia aveva seminato anche la discordia fra gli stessi conquistadores. Critica anche molti chierici e frati.

Risparmia altri come i gesuiti e i francescani. Considera il fatto dell’evangelizzazione positivo, anche se segnala come la fede cristiana sia stata tradita da parte di alcuni conquistadores con il loro comportamento. Poma de Ayala non trova giustificazione alcuna alle guerre di conquista, né dal punto di vista religioso né dal punto di vista politico. Gli Incas adoravano già il vero Dio e gli antichi popoli andini addirittura erano «cristiani» (26) e l’idolatria era arrivata più tardi con Manco Gapac Inca e la sua dinastia. I popoli andini avevano inoltre accettato pacificamente la sovranità del Re di Spagna. Ad ogni modo l’inca Poma de Ayala ricorda il bene fatto da tanti conquistadores spagnoli, specialmente vicerè, di cui anche offre una lista. Così di don Juan López de Quintanilla dice che era «cristianissimo, amico dei poveri e amante della giustizia» (27) e di don Luis de Velasco che «governò cristianissimamente» (28), e di don Fernando de Torres y Portugal che era «molto cristiano, amico del poveri, non interessato nell’argento» (29) e di don Martin Enríquez «che governò cristianissimamente sin dare agravio alcuno agli indios» (30).

La tirannide degli Inca
Ma non sono tutte rose neanche da parte degli indios. Poma de Ayala vede tanta barbarie e crudeltà in essi e offre numerosi esempi che mostrano soprattutto la tirannide degli Inca. In questo senso bisogna ricordare la testimonianza dell’Inca Garcilaso de la Vega, il quale parlando di Atahualpa scrive: «Maggiore e più sedienta del suo proprio sangue… fu la crudeltà di Atahualpa che non soddisfatto con quella di duecento suoi fratelli... andò avanti bevendo quella del suoi nipoti, zii e parenti...; bastava che fosse sangue reale; non fuggì nessuno né legittimo né bastardo; a tutti mandò uccidere in maniera diverse... (e descrive le raffinatissime crudeltà del tiranno)... e tutto nel tempo più breve possibile perché il tiranno voleva vederli tutti morti e sapere che lo erano» (31).
Per cui l’Inca Gancilaso conclude che la crudeltà dell’impero Incaico sui suoi sudditi non si può paragonare con gli eccessi dei conquistadores. Per lui lo spopolamento si è dovuto alle azioni di ambedue le parti.

Anche l’indio cuzqueño Don Juan de Santacruz Pachacuti denuncia il massacro e il genocidio dell’Inca Atahualpa nel momento dell’arrivo degli spagnoli. Giudica lo spopolamento come risultato delle terribili guerre civili fra Guascar e Atahualpa, della deportazione d’intere popolazioni ad opera di Atahualpa, della terribile fame e del morbillo che seguirono quelle guerre (32).

Questi vinti, discendenti degli Inca e sudditi fedeli di Sua Maestà Cattolica, accettano il fatto della conquista e trattano d’incorporare gli avvenimenti in una sintesi storica dove spagnoli e indios devono camminane insieme. Bisogna però tener presente gli interessi particolari dei diversi personaggi. Così Garcilaso si trova ormai inserito totalmente nella cultura ispana, mentre Poma de Ayala cerca di difendere i suoi pretesi diritti patrimoniali davanti al Re di Spagna mostrandosi anche suddito fedele. Calca le tinte su alcuni aspetti negativi della conquista, senza però nascondere quelli negativi degli indios.

Il «gesuita anonimo», Blas Valera non ci nasconde il fatto di alcune conversioni forzate all’inizio dell’evangelizzazione del Perù e della fretta di battezzare in alcuni (33).

I mali della conquista, dalle testimonianze di autocritica
Possiamo quindi segnalare alcuni mali della conquista a partire della mentalità aggressiva generalizzata dell’Europa dell’epoca e della Spagna della «reconquista». Ma questa segnalazione non può dimenticare altri elementi presenti che l’hanno anche temperata, e frequentemente trasformata, come l’obbligo di annunciare la fede e quello di trattare con umanità i conquistati che diventavano sudditi liberi della Corona a tutti gli effetti.

Fu soprattutto la coscienza cattolica a diventare giudice inappellabile della conquista stessa, come dimostra il fatto che le testimonianze sui misfatti ci sono pervenute sia da parte di soldati, conquistatori ed encomenderos, amministratori della Corona e missionari che da alcuni eccellenti «conquistati». Ognuno ha una propria esperienza della «conquista» e la versione che dà dipende dalla carica affettiva e dagli interessi che cerca di difendere.

Con le loro testimonianze di autocritiche si può ricostruire una mappa della conquista, con le sue grandi ombre e violenze da una parte, e con le sue grandi luci dall’altra. Quali sono però i capi d’accusa più importanti?

1. Il maltrattamento degli indios che alcuni «scopritori» della prima ora hanno tentato di giustificare con la convinzione che gli abitanti di quelle Nuove Terre erano «homines ferini», «uomini bestiali», come scriveva John Mair. Fra Antonio de Remesal, uno dei missionari della prima ora la considera «opinione diabolica» imparata «alla scuola di Satana», come anche riaffermerà anni più tardi Paolo III sollecitato dai missionari spagnoli e dalla Scuola Giuridica di Salamanca.

2. Il maltrattamento va connesso con il problema della schiavitù, consentita all’inizio, e il lavoro nelle miniere, costruzioni, pesca e altre servitù imposte agli indios. Non sono stati gli europei ad introdurre la schiavitù nel Nuovo Mondo. Tale istituzione esisteva già prima del loro arrivo e in forma brutale. Sistemi analoghi erano esistiti nel Vecchio Continente, e la servitù esisteva ancora in Europa come sistema feudale di prestazioni personali e di servitù con numerose sfumature e gradazioni. Colombo portò diversi schiavi indios nel suo secondo viaggio. Seguiva cosi l’idea aristotelica accettata allora da molti sull’esistenza di uomini schiavi per natura. Si accettava anche che i prigionieri fatti in guerra giusta diventassero schiavi. La prima vendita di schiavi fu permessa dai Re Cattolici a richiesta di Colombo il 12 aprile del 1495, ma cinque giorni dopo viene proibita da loro (34). La regina Isabel ha voluto chiedere il parere ai teologi sul caso. Lei di propria iniziativa dichiara liberi gli schiavi, comanda di risarcire i compratori con il denaro della sua propria casa, ordina che gli indios siano restituiti alla loro terra nativa, e proibisce in assoluto e ovunque la tratta dei medesimi (35). Nel 1501 Cristobal Guerra porta nuovi schiavi. I Re Cattolici ordinano la loro liberazione e l’incarcerazione e castigo dello schiavista (36).

Condanna cattolica della schiavitù, contro lo spirito di quel tempo
Nel 1503 si autorizza la schiavitù per gli indios caribes antropofagi e per i prigionieri di guerra giusta (37). Ma il problema rimane vivo e dibattuto fino alla sua totale chiarifica che darà come risultato la condanna di ogni tipo di schiavitù grazie alla riflessione della Scuola teologico-giuridica di Salamanca. Il 12 agosto del 1530 una Real Provisión di Carlo V data a Madrid sopprimeva ogni tipo di schiavitù, anche dei prigionieri di guerra giusta (38). Le Leyes Nuevas del 1542 la proibiranno con decisione. Inizia allora a sparire la schiavitù sia per manomissione sia per morte naturale degli schiavi, anche se continuarono a darsi casi isolati in zone marginali dell’America ispanica e che se conosciuti dalla Corona erano castigati (39). Tanto i Re Cattolici come specialmente Carlo V sentirono il problema come un caso personale di coscienza contro l’opinione dominante nell’Europa del loro tempo, e misero tutti i mezzi a loro disposizione per combatterla.

Inizio dell’importazione di schiavi dall’Africa, prima da parte di portoghesi, poi di protestanti, infine di inglesi
Furono anche soppressi i servizi personali delle encomiendas: si impose il lavoro libero con una paga moderata. Ma purtroppo nel contesto della nuova economia coloniale nasce l’importazione di schiavi neri dall’Africa, la storia più dura e dimenticata di questo periodo. Nel 1570 gli schiavi neri erano circa 250.000, e ad essi si dovette la risurrezione dell’agricoltura coloniale un po’ ovunque in tutte le colonie, soprattutto del Brasile, dell’America inglese, olandese e francese nel secolo XVII, con il vero oro del Nuovo Mondo, la canna di zucchero, il cotone, il caffè...

Siccome quasi subito questa tratta di africani fu in disaccordo con la legislazione spagnola, essa fu dapprima sfruttata dai portoghesi e a partire dal XVII secolo prevalentemente dai calvinisti e altri protestanti olandesi, francesi e inglesi e luterani danesi, per diventare in seguito monopolio dell’Inghilterra (trattato di Utrecht del 1713). Lo sfruttamento dei metalli, soprattutto nel secolo XVII-XVIII aumentò la richiesta di questo tipo di mano d’opera (40).

Il fenomeno dello spopolamento
3. Lo spopolamento fu un altro fatto sociale (biologico e antropologico) frutto della conquista. Nello spopolamento intervengono anche le numerose guerre civili intestine, la fame, e le numerose malattie e pestilenze che seguirono. La storia dello spopolamento che riflette la posizione di Las Casas si è vista smentita dalle ricerche storiche. Così lo storico Angel Rosenblat arriva alla conclusione che la popolazione dell’attuale regione dell’America Latina era nel 1492 di circa 11.285.000 indigeni; i nuclei più consistenti si trovavano in Messico: 4.500.000 e in Perù: 2.000.000. Nel 1570 la stessa popolazione sarebbe scesa a 9.275.100 (Messico 3.555.000, e Perù 1.585.000).

Nel 1570 la popolazione bianca costituiva l’1,16 per cento, la nera e meticcia il 2,26 per cento, e la popolazione india il 96,58 per cento. Questo 96,58 per cento rappresenta un totale di 8.957.891, ma nel 1570 gli indios che si trovavano in contatto con gli spagnoli erano solo il 18 per cento della popolazione indigena totale, e cioè 1.873.370. Quindi, ed è la sua conclusione, la diminuzione della popolazione non si deve alla conquista o ai conquistadores; ma ad altri fattori, come le epidemie, la perdita delle strutture politiche e amministrative, sparite prima dell’arrivo degli spagnoli, e in più la decadenza morale. La popolazione bianca secondo il Catálogo de Pasajeros de Indias dal 1509 al 1559 fu di 15.480 unità (mancano alcuni anni nel Catálogo). La media annuale era di 440 passeggeri, più i clandestini. La maggior parte erano scapoli, fra i 20 e i 30 anni (41).

L’importanza religiosa, sociale ed economica del meticciato è impressionante. Esso procedeva dal fatto che non c’erano pregiudizi razziali. Appaiono gruppi biologicamente preparati per il lavoro fecondo, un nuovo tipo di uomo («casta») che sa unire i due mondi contraddittori. Mentre i creoli si entusiasmarono della politica, i meticci si dedicarono in concreto all’area della produttività economica. Lo status economico del lavoratore indigeno fu superiore a quello del lavoratore europeo della stessa epoca.

Problemi sanitari ed epidemie
4. La popolazione indigena delle Americhe non fu sterminata dalle spade dei conquistadores ma dalle distinte epidemie, fra le quali l’influenza, il vaiolo, e la febbre gialla (42). Si trattò d’un problema d’immunità (43).
Quella situazione sanitaria però ebbe conseguenze nefaste non solo per il Nuovo Mondo, ma anche per la Spagna e per il resto dell’Europa. Si può vedere la ripercussione sanitaria della scoperta dell’America in Spagna nel calo quasi galoppante della popolazione: di otto milioni di spagnoli all’inizio del sec. XVII, ne rimanevano solo sette alla fine dello stesso secolo. L’epidemia del 1676 finì soltanto nel 1681 e «arrivò a produrre lungo il suo nefasto periodo il crollo dell’ordine sociale ispano». Cooperò così al «quebranto della salute della nostra già depauperata popolazione che riceveva nei suoi porti gente contagiata dalle virulente epidemie che si scatenavano nel Nuovo Mondo» (44).

La responsabilità dei singoli, la reazione delle autorità
5. In conclusione: le responsabilità dello spopolamento rimangono quindi divise fra spagnoli e indios secondo gli spazi e i tempi del processo della conquista.
Dal 1493 fino al 1540 si svolge una fase confusa e a volte anche violenta; a partire dal 1540 si entra nella fase polemica da un punto di vista teologico, morale e giuridico con la definizione precisa delle responsabilità e il primo bilancio della conquista.
È il periodo in cui si tenta una riconversione coloniale (1542-1573). Segue la fase della definitiva stabilità pacifica coloniale raggiunta (1573-1609). Dal 1609 fino alle indipendenze si sviluppa la tappa vicereale creola e meticcia.
Quanto alle responsabilità degli aspetti più negativi della conquista le testimonianze segnalano anche i conquistadores e encomenderos, frequentemente con nomi e cognomi. Tutte le testimonianze, senza eccezione, scusano la Corona dal punto di vista politico e giuridico.
Progressivamente anche la Corona, spinta continuamente dalla Chiesa, va prendendo una coscienza più chiara delle proprie responsabilità. La conquista fu dura e a volte anche violenta, non meno che le guerre che insanguinavano l’Europa dell’epoca, ma subito in America nacque una volontà ben precisa di mettere fine a quel grave disordine, e questo per grazia della coscienza cattolica.

La coscienza cattolica di fronte alla conquista. Alcune disposizioni della Corona Spagnola prima del 1526
Una disposizione dei Re Cattolici (Isabel e Fernando) del 1495 proibisce la schiavitù degli indios (45). In un’altra del 1500 si dichiara che sono liberi. Le Instrucciones reales del 1501 stabiliscono che gli indios siano evangelizzati «senza essere sottoposti ad alcuna costrizione», siano trattati bene, e si riparino le offese commesse nei boro confronti. In altre Instrucciones reales del 1503 si dispone la costruzione di villaggi per gli indios «dove ci sia una chiesa e un cappellano che si occupi di istruire e insegnar loro la nostra Santa Fede Cattolica..., insegnar loro a leggere e a scrivere..., e che allo stesso tempo faccia in modo che alcuni cristiani (spagnoli) si sposino con alcune donne indie, e le donne cristiane (spagnole) con alcuni indios, perché comunichino e si istruiscano a vicenda, per essere educati nella fede». Il cristianesimo era in funzione del villaggio la cui vita doveva essere regolata dalle campane della chiesa, in funzione della sua elevazione culturale, e dei matrimoni misti. Troviamo qui l’origine del metodo delle riducciones.

Si arriva così al codicillo di Isabel I di Castiglia (La Cattolica) del 23 novembre, tre giorni prima di morire, aggiunto da lei al suo testamento. Esso riguarda precisamente i diritti degli indios: «(i Re suoi successori) non permettano che gli indios... ricevano... alcun danno nella persona e nei beni ma facciano in modo che siano trattati bene e con giustizia. E se alcun danno hanno subito, si provveda affinché sia riparato...» (46). Altre disposizioni della Corona seguirono dopo la morte di Isabel. Fra di esse bisogna ricordare le Leggi di Burgos del 1512-1513, promulgate da Fernando il Cattolico, dove si trova un formale riconoscimento dei diritti degli indios. Questo periodo corrispondente alla reggenza di Fernando e del cardinale francescano Francisco Ximénez de Císneros, arcivescovo di Toledo, dà luogo ai primi dibattiti a proposito della conquista. Si tentano i primi esperimenti di reducciones nelle Antille. Si vede all’opera il cardinale Císneros come difensore degli indios e il suo inviato Bartobomé de las Casas nell’intento di mettere in atto un piano per la riformazione delle Indie (47). La morte di Císneros nel 1517 troncò molte speranze. Il principe Carlos, nipote dei Re Cattolici diventato re delle Spagne, dovette così affrontare quasi subito il problema indiano. Nel 1522 il suo antico cancelliere, appena diventato Papa col nome di Adriano VI, emanò la bolla Omnimoda con la quale regolava l’attività missionaria, tenendo presente soprattutto il caso del Messico (48).

Intanto in Spagna arrivavano i memoriali dei missionari, dei conquistatori e degli amministratori della Corona con i conflitti la conquista suscitava. Queste situazioni spinsero il giovane Re Carlo ad emanare l’Ordenanza sobre el buen tratamiento de los indios a Granada il 17 novembre 1526.

La coscienza cattolica di fronte alla conquista. Una nuova tappa con le «Ordenanzas» di Carlo V
Si iniziava così un nuovo periodo nella storia della legislazione spagnola delle Indie che andrà fino al 20 novembre del 1542, data della promulgazione delle cosiddette Leyes Nuevas.

La prima Instrucción della Corona sin nuovi territori era stata promulgata a Barcellona il 29 maggio 1493. In essa si assegnava allo scopritore la missione di attrarre gli abitanti del Nuovo Mondo alla Fede Cattolica. A partire da quell’anno e fino al 1526 erano trascorsi trentatré anni e si erano mandate alle Indie dozzine di instrucciones sul problema indiano.

1. All’inizio la Corona trapianta in America l’organizzazione e l’ordinamento giuridico di Castiglia.
2. Sul piano dei fatti si emanano leggi particolari per rispondere a bisogni concreti.
3. Si insiste sul fatto che i nativi di quelle terre devono essere trattati come i vassalli liberi di Castiglia secondo il diritto Castigliano (spagnolo). Così nella Instrucción del 16 settembre 1501 al governatore delle Isole e di Tierra Firme del Mar Oceano (Nuovo Mondo), fra Nicolas de Ovando si ordina che «gli indios siano ben trattati come nostri buoni sudditi e vassalli e che nessuno osi di fare danno; …e se qualcuno facesse male o danno o prendesse alla forza qualcosa di loro proprietà, che i loro capi Vi lo facciano sapere perché voi lo possiate castigare in maniera tale che da adesso in avanti nessuno osi fare loro del male» (49).
4. Lentamente emerge il fatto che la legislazione spagnola trapiantata in America era insufficiente. Comincia così un processo di revisione legale sulle Indie anche come risposta ai dubbi di coscienza che a cominciare dall’Imperatore Carlo V stesso assillano molti in Spagna (50). Questo cammino a partire dal 1526 porta ad una politica di «riconversione coloniale» (51). I soprusi denunciati, i conflitti fra i conquistadores e le polemiche su competenze aiutano tale chiarimento.

Si arrivò così alle «Ordinanzas» di Granada promulgate da Carlo V il 17 novembre e l’8 dicembre 1526, che sono state ancora più precisate con altre emanate a Madrid il 22 aprile 1528, a Toledo il 20 novembre 1528; il 4 dicembre 1528 e il 17 agosto 1529; a Madrid il 2 agosto 1530, 26 maggio 1536 e 5 novembre 1540; a Talavera il 13 febbraio 1541; a Fuensalida il 7 ottobre 1541; a Valladolid il 21 maggio 1542; a Barcellona il 20 novembre 1542, e le leggi emanate a Valladolid il 21 giugno 1543. In esse si adottano gravi misure contro i responsabili dei misfatti e si danno direttive per far fronte ai mali e difendere i diritti degli indios. Si esige un’informazione puntuale sugli eccessi commessi contro gli indios e sin colpevoli da sottomettere a processo e si stabilisce la restituzione e riparazione dei danni commessi.

Questa politica di riconversione coloniale produsse dei cambiamenti importanti e interessò alcune istituzioni sulle quali si era fondata di fatto la conquista come la servitù, l’encomienda e la guerra giusta di conquista. Si proibiscono la schiavitù e i lavori forzati degli indios (52). Si comminano pene severe per i trasgressori come la perdita degli uffici, di tutti i privilegi e concessioni date precedentemente e la confisca dei beni. L’istituzione dell’encomienda è regolata e limitata (53). Essa viene permessa come misura di protezione e in aiuto all’insegnamento cristiano degli indios, che si danno in encomienda «come persone libere e cristiane con lo scopo di essere istruite nella fede e a beneficio degli indios» (54). Si insiste nel buon trattamento di essi, si proibisce di affittare o prestare indios encomendati ad altri e i eccessivi; si stabiliscono pene severe per i trasgressori e si pongono gli indios encomendados e le comunità indiane sotto le autorità della Corona. La terza serie di misure legislative si riferisce alla così detta «guerra giusta». L’imperatore condanna i conquistadores che hanno ferito, ammazzato o preso ingiustamente i beni degli indios. Conseguentemente si sospendono tutte le licenze e le concessioni di «guerra di conquista». Fra le Ordenanzas di Granada del 1526 e le Nuevas Leyes del 1542 si era percorso un lungo cammino. La Corona assumeva le accuse con drammatico realismo, si proponeva di correggere le deviazioni e castigare i colpevoli. Essa diventava accusatrice dei reati commessi contro gli indios e difensora degli stessi (55).

La nascita d’una coscienza esplicita nei primi religiosi missionari
Il domenicano Fra Antonio de Montesinos, sostenuto dai suoi confratelli, la quarta domenica d’Avvento del 1511 denunciava in una famosa predica davanti ala prima colonia spagnola a Santo Domingo il sistema di servitù degli indigeni praticato dagli «encomenderos» contro le disposizioni dei Re Cattolici. Il frate domenicano poneva crudamente il problema giuridico della conquista. Inoltre si domandava se si poteva guadagnare qualcuno alla fede visto il cattivo esempio degli encomenderos, ponendo anche così il problema del rapporto fra missione e conquista.

Quell’episodio scatenò la polemica sulla conquista ed ebbe come risultato la promulgazione delle Leyes de Burgos del 1512-1513, che è il primo codice in favore degli indios (56). La Corona spagnola iniziò allora ad inviare sistematicamente missionari scelti esclusivamente fra gli Ordini religiosi riformati e creò le figure del visitador, e del defensor de los indios, carica quest’ultima, posta al di sopra della autorità locali e che di solito era riservata a vescovi che si distinguevano per il loro amore verso gli indios.

L’approfondimento teologico-giuridico del problema avvenne quindi successivamente. Quanto fra Antonio de Montesinos impostò a livello personale (rapporti fra le persone: spagnoli e indios), altri spagnoli, soprattutto i teologi della Scuola di Salamanca al seguito di fra Francisco de Vitoria, lo imposteranno a livello di diritto naturale e internazionale.
Sin dagli inizi sorse però un terzo genere di problema che condizionerà profondamente conquista ed evangelizzazione: i rapporti del Potere politico con l’evangelizzazione.

Il potere politico e l’evangelizzazione. Le bolle alessandrine e il patronato e la loro interpretazione
Appena i Re Cattolici conobbero la notizia della scoperta delle Nuove Terre sollecitarono dal Papa Alessandro VI (1492-1505), in accordo con il diritto allora vigente, un suo intervento per sancire a favore della Corona spagnola il diritto di possesso delle Nuove Terre scoperte così come l’invio di missionari.

Furono emanate le così dette «bolle alessandrine» del 1493. Alessandro VI con la bolla Inter cetera del 3 maggio 1493 approva il progetto di Fernando V di Aragona (Spagna) di strutturare la Chiesa del Nuovo Mondo secondo il modello di Granada, e quindi affida ala Corona spagnola l’invio di missionari alle nuove terre con altri diritti e doveri connessi (57 Secondo l’interpretazione che dal secolo XVI al secolo XVIII è stata data di tali bolle si sono dedotti i principi metodologici nell’evangelizzazione, il rapporto fra evangelizzazione e conquista, ed evangelizzazione e Corona spagnola.

Solo pochi autori del secolo XVI hanno sostenuto un’interpretazione vicariale (i re spagnoli sarebbero come vicari del Papa in materia missionaria nel Nuovo Mondo). La maggioranza invece ne dava soltanto un’interpretazione missionaria: il Papa avrebbe concesso quelle bolle alla Spagna unicamente per facilitare l’evangelizzazione dei nuovi popoli e in questo modo per difendere i convertiti. Tutti però erano d’accordo che l’evangelizzazione doveva essere portata avanti con il rispetto dovuto alla libertà dei popoli (58). Ma a queste teorie si aggiungono quasi contemporaneamente altre tesi che influiscono sulle diverse interpretazioni delle bolle pontificie, come quella che non riconosceva agli infedeli un vero diritto naturale a possedere le boro terre per il fatto della loro infedeltà, per cui giustificano la conquista sic et simpliciter da parte di re cristiani. Altri incominciano ad elaborare le tesi iusnaturaliste che distinguono nettamente lo stato naturale da quello della grazia e vogliono fondare il diritto sulla natura a prescindere dal fatto creaturale dell’uomo e del suo fine trascendente (e questo avverrà soprattutto per opera di alcuni giuristi protestanti alla fine del secolo, come Grozio). Invece altri, partendo dal fatto creaturale dell’uomo e dal suo destino trascendente, approfondiscono la tesi tomista sulla fede che presuppone sempre la libertà, ed esclude ogni violenza, e fondano in quella concezione la fonte dei diritti umani e l’ordinamento giuridico dei diritti delle società e dei popoli.
Nella seconda parte del secolo XV e nel XVI in Spagna si assiste a una rinascita del tomismo che porta con se una visione antropologica, teologica e giuridica che educa gran parte della generazione di missionari, teologi, giuristi e antropologi della Spagna del secolo XVI. Qui si inserisce la scuola di Salamanca in Spagna.

Bisogna tener presente queste concezioni per capire le posizioni che saranno assunte di fronte alla conquista e all’evangelizzazione a partire dalle diverse interpretazioni delle bolle alessandrine. Per Isabel I di Castiglia il fine primario della presenza ispanica nel Nuovo Mondo è anzitutto l’evangelizzazione. Suo marito, Fernando V d’Aragona, protende per l’interpretazione vicariale e per il patronato universale. Per altri, come il consigliere dei Re Cattolici Pedro Martir de Anglería (1459-1526), il Papa avrebbe fatto soltanto l’arbitro fra due Potenze cattoliche (Spagna e Portogallo), sui loro pretesi diritti di possesso di nuove terre.

Per altri, come Bartolomé de Las Casas o.p., il Papa non aveva assegnato quelle terre ai Re Cattolici «per farli più grandi signori né principi più ricchi di quanto già erano», ma perché propiziassero l’evangelizzazione delle persone (indios). Per il Presidente del Consejo de Indias (59), Juan de Ovando, nella sua opera Gobernación espiritual de Indias il Papa aveva dato ai Re l’incarico della missione evangelizzatrice delle Americhe, che soltanto si poteva portare avanti con mezzi soprannaturali. Gli aiuti materiali erano però necessari soltanto in funzione del primo scopo e per portare avanti l’opera educativa.
Per la Scuola di Salamanca (Francisco de Vitoria o.p.; Domingo de Soto o.p., ecc.) le bolle erano solo per evangelizzare. Il Papa non poteva concedere diritto su terre che non erano sue. I titoli di dominio caso mai bisognava fondarli su altri criteri. Vitoria imposta quindi il problema dei rapporti fra spagnoli e indios sulle basi del diritto internazionale che deve reggere i rapporti fra popoli sovrani.

Durante il secolo XVII si diffuse invece la così detta tesi vicariale assoluta, difesa da Solórzano Pereira che si scosta dalla tradizione del secolo XVI e di Salamanca (60). Essa si presenta in un momento in cui in Europa trionfa la teoria dell’origine divina del potere reale sostenuta da Giacomo I d’Inghilterra e che culminerà con il regalismo del secolo seguente. Ma gli argomenti del regalismo sono più politici che teologici. Esso rappresenta il trionfo della «ragion di Stato», della conquista pura e dell’imperialismo coloniale.

Rapporti fra evangelizzazione e conquista. Posizioni contrastanti
Queste posizioni si riflettono anche sul modo di vedere i rapporti tra conquista ed evangelizzazione. Fra coloro che hanno tentato di legittimare la conquista sic et simpliciter troviamo autori come Palacio Rubios, Matías de Paz (inizi del secolo XVI) e Juan Ginés de Sepúlveda (1490-1573) che si richiamano ad una supposta donazione pontificia e vedono nel dominio politico portato dalla conquista una necessaria facilitazione per l’annuncio del Vangelo ai popoli «barbari». Ma questa posizione, che paradossalmente avrebbe potuto contare sull’appoggio della Corona nel secolo XVI, si trovò non riconosciuta dagli interventi della stessa e ancora di più dalla Chiesa. Nella Spagna del secolo XVI in queste questioni ormai si imponeva la Scuola di Salamanca. Uno dei testi letterari che più ha lasciato un segno in queste discussioni fu l’opera lascasana La destrucción de las Indias, stampata con il permesso reale e dedicata al principe erede Filippo (II). Las Casas, molto influente nella Corte spagnola, lesse un sunto dell’opera di fronte ala Corte del Re di Spagna. Poco dopo tale lettura venne nominato vescovo su proposta del re (61). Fu in questo contesto che nacque la polemica Sepúlveda-Las Casas a Valladolid.

Il primo prendeva ingenuamente la conquista «nel senso mistico della parola», come afferma lo storico Chenu; parlava dello stato primitivo del’indio e credeva che egli aveva bisogno d’essere aiutato a superarlo. Ma condannava come furto quanto i conquistatori avevano tolto agli indios fuori del diritto di guerra giusta. Da parte sua Las Casas affermava che: a) la Chiesa non aveva diritto alcuno al castigo temporale dei peccati degli uomini; b) non era compito del Papa aumentare il potere del principe ma quello di evangelizzare con i mezzi leciti a sua disposizione; c) bisogna riconoscere l’autonomia politica degli indios anche se sono idolatri o sodomiti; d) il Re di Spagna sarebbe per loro come l’imperatore del Sacro Romano Impero Germanico per i re europei: una specie di supremo confederatore; e) se gli indios non volevano riconoscerlo come tale, non si poteva costringerli; f) se si convertivano essi potevano avere in ogni caso un certo obbligo di vassallaggio in gratitudine della fede ricevuta (62).

La Scuola di Salamanca e i problemi della conquista
Quando nel 1562, con il permesso del Consiglio reale e sotto la guida del vescovo di Charcas, si riuniva a Mama, nei dintorni di Lima, un congresso di centinaia di rappresentanti indios del Perù, ci si rese conto che si stava avviando verso la soluzione pacifica della conquista nel rispetto dei diritti degli indios e si dava un impulso decisivo ala configurazione delle nazioni iberoamenicane. Infatti questi indios, dopo aver giurato fedeltà alla Corona Spagnola, chiesero ed ottennero la riconsegna delle terre ai loro antichi e legittimi possessori. Nominarono come loro plenipotenziari di fronte al re Fra Domingo de Santo Tomás, Fra Jerónimo de Loaysa, l’arcivescovo di Lima, e Fra Bartolomé de Las Casas presente ala Corte di Madrid. In questo modo si raggiungeva un patto di mutua convivenza e rispetto nei diritti reciproci.

La conquista del Perù era stata una delle più dure. Il suo conquistador Hernando Pizarro era stato processato ed era morto assassinato. Si erano scatenate violente guerre civili. Tali fatti dolorosi avevano di conseguenza suscitato un dibattito politico, teologico e giuridico, il più grande di tutta la conquista americana. I soggetti principali di tale dibattito furono anzitutto il domenicano Francisco de Vitoria e la sua scuola salmantina con la loro riflessione teologico-giuridica (63). Il risultato fu un primo esperimento originale di governo peruviano frutto degli accordi fra la Corona spagnola e il nuovo Stato incaico con la conciliazione fra Filippo II e l’inca Tipu Cusi Yupanqui nel 1565.

Il documento fondamentale che segnò questo cammino fu senza dubbio una lettera di Francisco de Vitoria al suo confratello e superiore Miguel de Arcos, l’8 novembre 1534. Essa è una difesa da parte del maestro salmantino degli indios di fronte alla conquista. Il frate dominicano denuncia i metodi e gli scopi della conquista mentre considera giusta la guerra di difesa degli incas, prendendo l’occasione per dare un giudizio di valore su tutta l’impresa coloniale americana. Negli anni successivi fino alla sua monte il suo insegnamento a Salamanca contenuto soprattutto nelle sue Relectiones de indis non sarà altro che un approfondimento continuo del tema (64).

Vitoria esibisce le prove di quanto afferma basandosi sulle numerose fonti dirette, fra di esse in primo luogo i soldati stessi ed i cronisti di Indias. Ci si chiede fino a che punto questi autori riflettono la veracità dei fatti. Già autori contemporanei come il p. gesuita José de Acosta e Juan López de Velasco misero in dubbio la credibilità di molti di questi testimoni così spietati nelle loro critiche. Frequentemente gli uni calcavano le tinte sull’operato degli altri proprio perché si tratta di cronache per accusare gli avversari. Paradossalmente gli stessi conquistadores con i loro scritti accusatori hanno cooperato a far nascere una visione sanguinosa della conquista. Vitoria lo sapeva e ha tentato di discernere le sue fonti in maniera critica. In queste opere vengono descritti nudamente la conquista, l’atteggiamento violento di Atahualpa e le idee di fondo che animavano i conquistadores che si consideravano ambasciatori di Carlo V, imperatore e signore universale secondo i presupposti medievali, e del Papa. Questa concezione teocratica diede luogo alla politica del «requerimiento». Queste idee si esprimono, a conquista compiuta, con motivo dell’incoronazione dell’inca Manco II a Cuzco nel 1533. Si voleva instaurare un nuovo ondine socio-politico basato su tre pilastri: l’imperatore spagnolo, il governatore spagnolo e i re inca (65).

Vitoria sapeva che la sua critica poteva provocare una crisi di coscienza, come di fatto successe. Egli affermava che neanche l’infedeltà o i peccati contro la legge naturale o divina potevano autorizzare gli spagnoli, con l’autorizzazione del Papa o senza di essa, a fare la guerra agli indios nel momento in cui questi crimini non attentavano contro i diritti di altri popoli (solidarietà umana) e i diritti fondamentali dell’uomo.

Rilettura critica delle bolle alessandrine da parte della Scuola di Salamanca
Si imponeva quindi una nuova interpretazione delle bolle alessandrine. La Scuola di Salamanca sollecitava dalla Santa Sede la derogazione di quelle bolle o almeno una precisazione sul loro contenuto. Nello stesso senso si sono pronunciati diversi sinodi americani. Le idee di Salamanca diventano così popularizzate che le troviamo espresse in opere come la Cronica dell’indio Guama Poma de Ayala: «Ognuno nel suo regno è proprietario legittimo, possessore, ma non per il re ma per Dio e per la giustizia di Dio: Egli ha fatto il mondo e la terra e piantò in essa ogni semente, lo spagnolo in Castiglia, l’indio nelle Indie, il nero in Guinea».

Fu il Vitoria stesso che ne diede una rilettura critica nelle sue Relectiones del 1539 articolando il suo pensiero in tre principi fondamentali: il diritto fondamentale degli indios in quanto uomini ad essere liberi; il diritto fondamentale dei loro popoli a difendere la propria sovranità; e il diritto e il dovere dell’Orbe a collaborane nella costruzione della pace e solidarietà internazionale. A partire da questi tre nuclei Vitoria affronta il problema dei diritti fondamentali dell’indio e dei popoli indios, il tema della conquista e la posizione della Corona spagnola. In sintesi i principi affermati si snodano attorno ad alcune affermazioni fondamentali (66):

Elaborazione dei diritti fondamentali degli indios
1. «Anche gli indios sono uomini». Fra le conseguenze di questa tesi ne ricordiamo solo alcune:

— «Ogni uomo è persona e padrone del suo corpo e delle sue cose» (67). «Poiché è persona, l’indio ha diritto al suo libero arbitrio ed e padrone dei suoi atti» (68) per cui indios e spagnoli sono fondamentalmente uguali in quanto uomini.
— Il titolo che l’uomo ha delle cose deriva dal fatto che è immagine di Dio senza che perda questo dominio a ragione della sua infedeltà o i peccati di idolatria (69). Da qui segue il principio dell’uguaglianza fondamentale e giuridica di tutti i popoli. Né l’infedeltà né la barbarie tolgono agli uomini il possesso sui beni creati (70).
— Per diritto naturale tutti gli uomini sono liberi e nell’uso di questa libertà fondamentale gli indios liberamente si costituiscono in comunità e liberamente eleggono i propri governanti (71).
— Ogni uomo che ha diritto alla verità, all’educazione e a tutto quello che si riferisce alla formazione e promozione culturale e spirituale dell’uomo (72). Per diritto naturale ogni uomo ha diritto alla sua vita e integrità fisica e psichica (73). Ha anche diritto alla fama, all’onore e alla dignità personale (74). Gli indios hanno diritto a non essere battezzati e a non essere costretti a convertirsi al cristianesimo contro la loro volontà (75). Tutte le cose sono state create per il servizio dell’uomo (76). Fra i diritti della persona ricorda anche il diritto a ciò che oggi si potrebbe dire obiezione di coscienza.

2. «Anche i popoli indiani sono repubbliche sovrane» con tutti i diritti conseguenti a tale sovranità.

3. «Anche i popoli indiani sono province dell’Orbe». Per cui per solidarietà naturale e diritto di genti, tutti gli uomini, indios o spagnoli, hanno lo stesso diritto alla comunicazione, all’interscambio di persone, beni e servizi senza altri limiti che quelli imposti dal rispetto ala giustizia e ai diritti dei nativi del luogo (77). Vitoria affronta il problema del diritto di usare la forza per difendere uomini innocenti ed elabora una dottrina sulla solidarietà del genere umano come anche sui limiti imposti dalla legge naturale allo Stato di fronte ai sudditi. Tratta anche dello ius peregrinandi dei popoli o l’immigrazione.

4. Vitoria ricorda le responsabilità della Corona spagnola di fronte alle situazioni createsi in America nel campo politico, sociale e religioso. L’unico titolo valido della presenza spagnola nel Nuovo Mondo è la «difesa del diritto e il ristabilimento della pace, pace e sicurezza che soltanto si potranno garantire con rapporti di moderazione, comprensione e tolleranza (78). Il Re di Spagna è obbligato quindi a cercare prioritariamente l’utilità e lo sviluppo dei popoli indiani e non può sacrificarli a beneficio della metropoli. Il Re e i suoi consiglieri sono responsabili del contrario e non rimangono esenti da colpa nel momento di esigere responsabilità (79).

Basi etiche per lo sviluppo coloniale
La Scuola di Salamanca ebbe un notevole influsso in Spagna e nelle Americhe definendo le basi etiche e i presupposti per un progetto di riconversione coloniale. Con sano realismo tanto la Corona come i missionari abbordarono serenamente l’incontro fra quelle razze e culture con tutta la sua problematica e senza eludere alcun aspetto. Si distanziarono dall’«officialismo» rappresentato da Juan Ginés de Sepúlveda, e dalla «utopia» incarnata nelle posizioni lascasiane. Il pensiero e l’influsso della Scuola continuò in America attraverso i suoi discepoli, specialmente nelle sue università (80).

Questi umanisti e missionari della Chiesa diventano la coscienza morale del Nuovo Mondo. Infatti rivendicano i diritti fondamentali della persona e la responsabilità dei popoli contro gli aggressori dell’umanità (81). Così contro la schiavitù rivendicano la libertà fondamentale degli indios; contro la repressione religiosa la libertà di coscienza. Rivendicano la solidarietà e la sovranità popolare dei popoli indios; la protezione della Corona e il diritto di autodeterminazione e ultimamente il diritto fondamentale che ogni uomo ha all’annuncio evangelico, che deve essere accolto liberamente. Ecco perché si può dire che l’evento americano spronò la coscienza cattolica sia in America (attraverso i suoi missionari), sia in Spagna (attraverso soprattutto i suoi teologi) nella formulazione dei diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli già nel 1500. Si toccava qui il problema della libertà di coscienza.

Evangelizzazione e libertà di coscienza: punto fermo della evangelizzazione dell’America
Il missionario gesuita p. José de Acosta, consigliere di San Toribio de Mogrovejo, secondo arcivescovo di Lima, preparò un resoconto sulla prima evangelizzazione nel Nuovo Mondo per il III Concilio di Lima (1582-1583). Come risultato il Concilio pubblicò i catechismi in tre lingue (spagnolo, aymara e quechua) e diede importanti direttive di pastorale sociale e missionaria ancora attuali.

Acosta è convinto che molti fallimenti della prima evangelizzazione hanno le loro radici in una non sufficiente e decisa promozione dei diritti fondamentali degli indios, fra di essi quello della libertà religiosa.
Altri ostacoli furono le imprudenze di alcuni religiosi, influenzati dal teocratismo di Las Casas. Litigavano incessantemente con le autorità civili, negavano i sacramenti, sprofondavano in angosciose crisi di coscienza molti coloni e pretendevano anche che la Spagna abbandonasse il Nuovo Mondo e che questo fosse messo sotto la giurisdizione diretta della Santa Sede. Per Acosta questo teocratismo clericale era l’insidia più grande della nuova cristianità (82).

Il missionario gesuita sentiva anche il bisogno impellente d’una formazione teologica adeguata nel Nuovo Mondo. A volte si era giudicata troppo superficialmente la situazione americana da due estremismi utopici (pensiamo come simboli a Las Casas e a Sepúlveda) senza il necessario realismo. La rapida diffusione della fede esigeva la presenza di buoni teologi che potessero fare un lavoro di riflessione diligente e abile (oggi si direbbe d’inculturazione). Per questo patrocinava la creazione di università, di commissioni di teologi, di convocazioni di sinodi diocesani e di concili provinciali che affrontassero quei problemi. Si era pensato di mandare nelle Indie alcuni dei migliori teologi spagnoli del momento come Francisco de Vitoria.

Il problema fondamentale però che e stato affrontato con decisione fu quello delle conversioni forzate da parte di alcuni che Acosta non dubita di chiamare «i nemici più crudeli di Cristo» (83). La religione si era propagata a volte in maniera formalista senza una sufficiente una vera conversione. Gli indios stessi a volte cercavano con l’apparente conversione vantaggi economici e sociali.

Il Concilio III di Lima propone quindi un piano di catechesi globale che tocca la vita personale, sociale e politica. Si parte dal rispetto alla coscienza degli indios che sono chiamati alla salvezza, ma offerta nella libertà. Le numerose testimonianze dei missionari parlano della vocazione dei popoli indios alla fede in Cristo come una realtà gioiosa fondata su fatti certi e comprovati.

L’evangelizzazione doveva andare anche alla pari con la promozione umana completa dell’indio: «che gli indios imparino ad essere uomini e dopo ad essere cristiani», scriveva Acosta. Il diritto ad essere uomo voleva dire prima di tutto il diritto ad essere libero. Questo includeva tre condizioni: il rispetto per la loro libertà, l’educazione di questa libertà e la formazione della fede nella libertà. Credere era solo possibile nella libertà e per coloro che volevano liberamente sottomettersi al Vangelo.

La libertà di coscienza diventava così per la Scuola di Salamanca e per i suoi discepoli missionari in America un punto fermo nell’evangelizzazione in America. Questa ferma convinzione ha un valore inestimabile in un mondo come quelli del XVI e XVII secolo dominati da fanatismi politici e religiosi e delle guerre di religione.

Due secoli in anticipo rispetto alla Dichiarazione dei diritti umani della Rivoluzione francese
Questa libertà religiosa come base del pluralismo politico era affermata più di due secoli prima della Dichiarazione dei diritti umani della Rivoluzione francese.

mercoledì 6 maggio 2009

Ricominciamo dalla famiglia

La famiglia in macerie
tratto da un articolo di Gian Antonio Stella, Corriere della Sera, 5.5.09

In un libro di Antonio Sciortino tutti i dati sulla situazione italiana della cellula fondamentale della società
Il libro “La famiglia cristiana” di Antonio Sciortino pubblicato da MondadoriUn'immagine di Virgilio toglie il sonno al direttore di «Famiglia Cristiana»: «Enea che fugge da Troia in fiamme porta l'anziano padre Anchise sulle spalle e tiene per mano il giovane figlio Ascanio. L'Enea del futuro, invece, avrà sulle spalle il peso di quattro vecchi genitori e non avrà accanto nessun figlio che gli assicurerà, un giorno, di portarlo in salvo». Per questo don Antonio Sciortino, spiegando come i francesi (che «non ci stanno a finire al tappeto») abbiano «deciso di tenere aperti gli asili nido 11 mesi all'anno per 11 ore al giorno» mentre da noi il Sud ha «un indice di copertura del fabbisogno di asili nido di appena il 6%» accusa chi è stato al potere in questi anni: «Assistiamo, impotenti, al fallimento. Sulla famiglia tutti i governi, di destra, di sinistra e di centro, finora hanno sempre fallito. Non hanno mai capito che è l'unico vero ammortizzatore sociale. Aiutarla serve innanzitutto allo stesso Paese». Il libro «La famiglia cristiana» (Mondadori), in vendita da questa mattina, infilza gli uomini del Palazzo fin dal sottotitolo: «Una risorsa ignorata dalla politica». (…) Irrilevanza della spesa sociale«In Italia l'irrilevanza della spesa sociale si nota subito se consideriamo il tasso di povertà dopo l'intervento pubblico», scrive don Sciortino, «In media in Europa si riduce di 10 punti, in Norvegia scende di 19 punti, in Svezia di 17, in Germania di 14 punti, in Francia di 12 e in Olanda di 11. In Italia abbatte di soli 4 punti la quantità di popolazione povera. Segno che la nostra spesa sociale è inefficiente e inefficace, oltre a non essere alta. Rimane sotto la media europea sia in termini di percentuale sul pil, sia in termini di spesa pro capite». Più figli si fanno, più poveri si diventa Perché dunque si riempiono la bocca con la parola famiglia? «L'Italia sembra volere fargliela pagare cara a quei genitori che fanno più figli. Oltre a punire questi loro ragazzi che, nella vita, nel lavoro e nella società, avranno meno opportunità dei loro coetanei figli unici. Trenta famiglie su 100 con 3 figli sono povere (al Sud l'incidenza sfiora il 49%). È facile l'equazione: più figli si fanno, più poveri si diventa. Esattamente l'opposto di quanto avviene in Norvegia, dove avere più bambini corrisponde a un tasso di povertà più basso». «Se si analizzano i trasferimenti monetari e le misure fiscali a favore delle famiglie», insiste l'autore, «l'Italia si piazza al quartultimo posto tra i Paesi dell'Ocse. Molto indietro rispetto a Germania, Francia e Regno Unito. Se entriamo nel dettaglio, i Paesi scandinavi dedicano lo 0,6% del pil solo ai congedi parentali, percentuale che in Italia è talmente bassa da essere irrilevante... ».Denatalità e single avvantaggiatiDi più: «La Francia in pochi anni è tornata a superare i 2 figli per donna, grazie a una tenace e consistente politica di sostegno. Che è sopravvissuta ai ripetuti cambi di maggioranza». Da noi no: «vige la regola della "tela di Penelope": ogni maggioranza impegna le migliori energie solo per disfare quello che è stato fatto dal governo precedente». Risultato: «La Francia destina alla famiglia il 2,5% del suo pil, l'Italia si ferma a poco più dell'1%: una politica stitica e suicida verso la famiglia». Non solo «siamo la maglia nera» in Europa, in fondo alle classifiche, ma mentre «la Francia ha scelto la famiglia, e non l'individuo, come unità di misura per l'imposizione delle tasse (...) il bonus fiscale di Tremonti e Sacconi finisce, per l'82%, nella tasche dei single (unica categoria protetta del Paese) e di coppie senza figli». Una scelta, «che va contro la famiglia». La quale avrebbe invece bisogno, subito, di «una legge organica che la metta al centro di ogni processo, come forza di coesione sociale». Ma «questa Italia», si chiede, «è ancora cristiana, quando indebolisce e svaluta la famiglia?». Domanda scomoda. Molto scomoda...


I dati sulla popolazione
Istat, 27 aprile 2009
Dagli anni '90 il saldo naturale è negativo. GLi abitanti aumentano grazie all'immigrazione
L’Istat rende disponibili on line – su http://demo.istat.it – i dati mensili relativi al bilancio demografico e alla popolazione residente per sesso dei comuni italiani.Dagli anni ’90 popolazione aumentata esclusivamente grazie agli immigratiLa popolazione residente in Italia alla fine del mese di novembre 2008 ammonta a 60.017.677 abitanti. Viene pertanto confermata la previsione effettuata dall’Istat nella nota informativa relativa agli “Indicatori demografici” del 26 febbraio 2009: dopo cinquant’anni dal raggiungimento della soglia dei 50 milioni di residenti, avvenuto nel 1959, il nostro Paese supera quella dei 60 milioni (figura 1). A questo risultato hanno contribuito, nel primo ventennio, soprattutto la componente naturale della crescita, e successivamente, con intensità crescente e in misura pressoché esclusiva, la componente migratoria. Aumenta la popolazione ma non gli italianiCon riferimento al solo 2008, rispetto all’inizio dell’anno si è registrato un incremento dello 0,7%, pari a +398.387 unità, che si è concentrato nelle regioni delle ripartizioni del Nord-est (+1,1%), del Centro (+1,0%) e del Nord-ovest (+0,8%). I movimenti naturale e migratorio dei primi undici mesi del 2008 confermano le tendenze emerse negli ultimi anni, in particolare a partire dal 2000: un saldo naturale tendenzialmente negativo, un saldo migratorio con l’estero elevato, un aumento della popolazione soprattutto nelle regioni del Nord e del Centro. Saldo naturale negativoInfatti, complessivamente nel periodo gennaio-novembre 2008 il saldo naturale risulta negativo (-4.431) così come nei primi undici mesi del 2007 (-2.576), sebbene in misura più accentuata. Il saldo risulta negativo in tutte le ripartizioni, tranne che in quella meridionale e insulare, con un tasso di variazione naturale che varia dallo 0,8 per mille delle regioni meridionali al -0,6 per mille delle regioni dell’Italia Nord-occidentale. Nei primi undici mesi del 2008 si sono avute 528.772 iscrizioni in anagrafe per nascita, con un incremento di 9.667 unità (+1,9%) rispetto allo stesso periodo del 2007. L’aumento di nascite si concentra nelle ripartizioni del Centro (+6,0%), del Nord-ovest (+1,9%) e del Nord-est (+1,8%), mentre nelle Isole l’incremento è ridotto (+0,4%) e nelle regioni del Meridione si registra un decremento (-0,8%). Nello stesso periodo del 2008 il numero delle cancellazioni per morte risulta pari a 533.203, con un aumento di 11.522 unità (+2,2%) rispetto all’analogo periodo del 2007. Il movimento migratorioNel periodo gennaio-novembre 2008 i dati relativi al movimento migratorio con l’estero fanno registrare un saldo positivo (+420.236), di poco inferiore a quello degli stessi mesi dell’anno precedente (+455.998). Il tasso migratorio estero è risultato più elevato nell’Italia Nord-orientale e Centrale (9,8 per mille), e in quella Nord-occidentale (7,8 per mille), rispetto ad un tasso medio nazionale pari a 7,0 per mille, e contro un valore registrato nelle ripartizioni Meridionale e Insulare rispettivamente pari a 3,4 e 3,3 per mille.

La povertà in Italia
La Stampa, 22 aprile 2009
Secondo l'Istat: 2,5 milioni di poveri assoluti. Penalizzato il Sud e le famiglie numerose o con anziani
Povertà rimasta stabile tra il 2005 e il 2007In Italia 975mila famiglie si trovano in condizioni di povertà assoluta. In queste famiglie vivono 2milioni e 427mila individui pari al 4,1% dell’intera popolazione. È quanto rileva l’Istat nel rapporto sulla povertà assoluta in Italia nel 2007. Fra il 2005 e il 2007, l’incidenza di povertà assoluta è rimasta stabile e immutate sono anche le caratteristiche delle famiglie povere in termini assoluti. Il fenomeno è maggiormente diffuso nel sud e nelle isole dove l’incidenza di povertà assoluta (5,8%) è circa due volte superiore a quella osservata nel resto del Paese. Nel 2007, fra le famiglie residenti nel nord la percentuale di famiglie povere si attesta infatti al 3,5% e al 2,9% tra le famiglie del Centro.Famiglie numerose e anziani soliL’Istat ha sottolineato che la fotografia sulla povertà assoluta in Italia si riferisce a un periodo precedente all’insorgere della crisi economica esplosa nel 2008. Nel 2005, le famiglie in povertà assoluta erano 932mila pari a 2 milioni 381 individui, mentre nel 2006 le famiglie erano 968mila per un totale di 2 milioni 292mila persone in povertà assoluta. Le incidenze più elevate si osservano comunque tra le famiglie di maggiori dimensioni, in particolare con tre o più figli soprattutto se minorenni. Anche tra le famiglie con componenti anziani i valori di incidenza sono superiori alla media, soprattutto se si tratta di anziani soli. La povertà è fortemente associata a bassi livelli di istruzione, a bassi profili professionali (working poor) e all’esclusione dal mercato del lavoro. (...)


Il matrimonio in Italia
Istat, 21 aprile 2009
I dati 2007: calano le prime nozze, sposi sempre più anziani, aumentano matrimoni civili e seconde nozze
All'indirizzo web http://demo.istat.it l'Istat rende disponibili i principali risultati della rilevazione sui Matrimoni celebrati in Italia basata sui registri di Stato civile comunali, aggiornati all’anno 2007.Diminuiscono i “primi matrimoni”Nel 2007 sono stati celebrati in Italia 250.360 matrimoni (4,2 ogni mille abitanti). Rispetto al 2006 si osserva un lieve aumento: 4.368 matrimoni in più, di cui 3.144 sono primi matrimoni. Si tratta di una oscillazione congiunturale che da sola non permette di ipotizzare un’inversione di tendenza nella diminuzione delle nozze in atto dal 1972, anno in cui sono stati celebrati quasi 419 mila matrimoni (7,7 nozze per mille abitanti). A diminuire sono i primi matrimoni, ovvero la quota più consistente del totale delle celebrazioni: le nozze tra celibi e nubili sono passate da quasi 392 mila nel 1972 (il 93,5% del totale) a 217.290 nel 2007 (l’86,7% del totale). Nozze sempre più tardiveIl calo delle prime nozze è il risultato della minore propensione delle coppie a sancire la loro unione con il vincolo del matrimonio: nel 2007 si sono registrati 524,5 primi matrimoni per mille celibi e 589,6 per mille nubili, valori di poco superiori a quelli del 2006 (rispettivamente 511,2 e 576,7) e pressoché dimezzati rispetto al 1972. I primi matrimoni, inoltre, sono sempre più tardivi: gli sposi alle prime nozze hanno in media 32,8 anni e le spose 29,7 anni. Aumento matrimoni civiliAccanto alle modificazioni di intensità e calendario della prima nuzialità, si osservano importanti trasformazioni nella formazione delle unioni. Uno dei tratti più evidenti è il notevole aumento dei matrimoni celebrati con rito civile: 86.639 nel 2007 (83.628 nel 2006), aumentati del 50% in 15 anni e che rappresentano attualmente il 34,6% del totale delle unioni. Il rito civile è scelto sempre più spesso anche in occasione delle prime unioni: oltre un quarto delle nozze tra celibi e nubili è stato celebrato di fronte al sindaco nel 2007, una proporzione raddoppiata in 15 anni.In aumento i secondi matrimoniIn aumento anche i secondi matrimoni o successivi: sono 33.070 (31.846 nel 2006) e rappresentano il 13,2% del totale. Si conferma la rilevanza dei matrimoni in cui almeno uno dei due sposi è di cittadinanza straniera. Nel 2007 essi ammontano a 34.559, rappresentando il 13,8% del totale dei matrimoni.

lunedì 23 marzo 2009

Staminali etiche adulte

La cura protezionista
di Laura Borselli, www.tempi.it, 16.3.09
Il biologo Angelo Vescovi spiega perché il new deal americano sulle staminali non serve alla medicina ma a Wall Street

Cosa sono le staminali

Un goloso di dolci in una pasticceria piena di leccornie. Un paragone calorico è forse ardito ma adatto a descrivere come si deve sentire uno studioso di cellule al cospetto delle staminali. Veri e propri mattoni dei tessuti degli organi umani, indifferenziate all’origine, esse sono in grado, quando si riproducono, di trasformarsi nelle numerosissime varietà cellulari di una persona adulta. Nel corso del tempo il loro ruolo resta quello di costituire materia prima pronta a rimpiazzare tessuti rovinati (per traumi o per degenerazioni) nelle varie parti del corpo. Una sorta di pronto soccorso cellulare, che si attiva quando l’organismo segnala la necessità di un intervento. E allora chi studia le malattie del corpo umano e si dedica alla ricerca cosa potrebbe volere di più che il poter disporre di quei “mattoncini magici”, così da studiarli, riprodurli e, perché no, trapiantarli all’occorrenza quando il naturale meccanismo di autorigenerazione del nostro corpo venga per qualche motivo compromesso?

La mossa del presidente Obama

La settimana scorsa Barack Obama ha abolito il divieto di utilizzo di fondi federali per la ricerca sulle staminali embrionali voluto nel 2001 dal suo predecessore. Il presidente liberal ha dunque aperto ai golosi scienziati le porte di quella pasticceria chiusa dal torvo conservatore Bush? Troppo facile addentrarsi ideologicamente in un terreno in cui prima di tutto parlano i fatti, le continue scoperte e i punti di domanda (ebbene sì, servono anche quelli) degli stessi ricercatori. Il dibattito etico si accende intorno a un particolare tipo di staminali, le embrionali, quelle che si trovano in ogni embrione nei primissimi giorni della sua vita, cellule che hanno un enorme potenziale di sviluppo e di moltiplicazione, una «pluripotenzialità – spiega il professor Angelo Vescovi – ossia la capacità innata, intrinseca, di generare un numero spesso enorme di cellule e di tessuti».

Il problema delle staminali secondo il laico Angelo Vescovi

Ricercatore di fama internazionale, oggi direttore del centro Brain Repair di Terni, docente di Biologia all’Università di Milano-Bicocca e direttore scientifico di Stem-Gen Spa, Vescovi è un cervello rientrato in Italia stabilmente nel ’99, dopo anni di studio negli Stati Uniti e in Canada, dove, nel 1991, ha partecipato alla scoperta dell’esistenza di cellule staminali cerebrali. Da anni il giovane professore milanese va ripetendo che il problema sulle staminali embrionali è uno e uno solo: quello della loro provenienza. «Immaginiamo – spiega – che io possa creare dal nulla una cellula embrionale staminale. Chiunque può prenderla e usarla, non c’è nessun problema di tipo etico. Il problema etico nasce perché per trovare quel tipo di cellula occorre andare a prenderla da un embrione e distruggerlo». Sicché, scriveva già nel 2005 Vescovi nel suo libro La cura che viene da dentro (Mondadori), il problema non è la cellula in sé, ma dove la si va a prendere e «se noi trovassimo un modo per ottenere una cellula con le stesse caratteristiche delle embrionali staminali ma senza distruggere un embrione allora il problema etico sarebbe risolto».

Le staminali etiche (adulte)

«Ecco, oggi ci siamo arrivati», spiega. «Io alla fine del libro ipotizzavo che l’avremmo fatto in cinque anni, invece ce ne sono voluti molti meno». La scoperta («gli varrà il Nobel e se lo merita», sottolinea il professore con l’ammirazione e il pizzico di invidia di un goloso che vede un altro avanzare verso una torta) è del giapponese Yamanaka che nel 2006 ha preso delle cellule dell’epidermide, vi ha inserito dei geni molto semplici e ha ottenuto che quelle cellule si riprogrammassero diventando in tutto e per tutto delle staminali embrionali. «In pratica le ha regredite allo stadio di staminale embrionale». Eureka. Le cellule del desiderio al netto delle complicazioni etiche. «Di più, perché questo tipo di cellule, a differenza delle embrionali, si possono clonare, il che fa la vera differenza in termini terapeutici, tanto che moltissimi grandi laboratori americani che lavorano sulle embrionali staminali si sono messi a lavorare sulle cellule indotte pluripotenti».

Scelta pragmatica di protezionismo economico

E allora perché la decisione di Obama? «Sugli embrioni umani si lavora da tanto tempo e la tecnologia sviluppata per le embrionali staminali è una tecnologia che riguarda l’utilizzo di cellule staminali embrionali estratte da embrioni umani. Ma la tecnologia di Yamanaka (per cui i giapponesi stanno litigando con i tedeschi che dicono di aver depositato un brevetto prima) i brevetti sugli embrioni li scavalca a pie’ pari. Il mondo anglosassone e quello americano che per trent’anni hanno lavorato su questo ora si trovano con prodotti che rischiano di essere invalidati. Dunque quella di Obama è una scelta pragmatica su cui pesano, come è stato scritto, le lobby che hanno appoggiato la sua elezione, e anche una sorta di protezionismo economico americano». Sconcertante e anacronistica, allora, secondo Vescovi, la scelta del presidente americano, salutata come una boccata d’ossigeno alla ricerca soffocata da George Bush. «Ma questo non è affatto vero», esclama Vescovi. «Sembra che abbiano finito gli argomenti: prima era “bisogna mettere da parte i problemi etici per il bene dei pazienti”, adesso, dopo che l’alternativa che risolve i problemi etici è stata trovata, si grida alla libertà di ricerca ad ogni costo. Ma la ricerca deve farsi in un contesto sociologico, etico e morale. Se no arriviamo a dire che siccome io faccio il ricercatore posso fare quello che voglio. È nella definizione di libertà il concetto stesso di limite. Non esiste una libertà assoluta, se no è il delirio di onnipotenza. Machiavelli non diceva che il fine giustifica i mezzi sempre, ma che in alcune situazioni particolari è possibile che il fine giustifichi dei mezzi che possono non sembrare leciti. Cito Machiavelli, veda a cosa sono ridotto...»

Uno scienziato che crede nella ragione

E fosse soltanto Machiavelli. Nei tempi del referendum sulla procreazione assistita Vescovi si è speso senza riserve per l’astensione, sposando da non credente le tesi sostenute dalla Chiesa. Allora era ancora ricercatore al San Raffaele di Milano. «Me ne sono andato un anno e mezzo dopo il referendum», spiega. E non è malizia pensare che vi sia un collegamento tra la militanza nel fronte astensionista alla consultazione sulla legge 40 e l’abbandono dell’Istituto di don Verzè. «Il referendum mi ha complicato molto la vita, non solo dentro al San Raffaele, ma dappertutto. Io rispetto profondamente le diverse visioni di ogni singolo ricercatore e mi sarebbe piaciuto che questo atteggiamento fosse reciproco, ma non lo è stato». Resta da capire perché un laico si debba spendere in favore della vita e un ricercatore porre degli scrupoli. «La credenza che me lo impone è una sola e si chiama illuminismo, l’uso della ragione. La ragione mi dice che quando valuto una situazione devo cercare di integrare tutti gli elementi di cui sono a conoscenza. Come ricercatore in particolare. Per me non esiste una scienza che si possa dire tale che non sia composta da tecnologia sommata a regole etico morali che, piaccia o meno, sono quelle della nostra specie naturale».

sabato 14 febbraio 2009

La grandeza del Papa e il ritorno a casa dei "lefebvriani"

La grandezza del Papa e il ritorno a casa dei “lefebvriani”
di Marco Respinti, Il Domenicale, 13.2.09
Riepilogo che illustra il vero significato del gesto di Benedetto XVI
Quello ufficializzato da Papa Benedetto XVI il 24 gennaio è un grande gesto: di magnanimità e di governo ecclesiastico. Come si sa, in quella data il pontefice ha revocato la scomunica comminata a suo tempo a Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso de Galarreta, i quattro sacerdoti “tradizionalisti” che nel 1988 furono ordinati vescovi, con gesto intrinsecamente scismatico, da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), fondatore e superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X (FSSPX). A norma di diritto canonico, la loro ordinazione fu infatti valida ma illecita poiché amministrata senza permesso pontificio. La scomunica scattò dunque automaticamente, latae sententiae, venendo formalizzata dalla Commissione per i Vescovi il 1° luglio 1988. Colpì loro, l’ordinante (mons. Lefebvre) e, a causa del suo endorsement, anche mons. Antonio de Castro Mayer (1904-1991), vescovo di Campos in Brasile.L’ultima spondaRitirando la scomunica, il Papa ha iniziato, per parte propria, a sanare nel migliore dei modi possibili una ferita grave che da tempo insanguina il costato della Chiesa Cattolica. Il pontefice ha infatti annullato la più grave condanna che, da questa parte dell’eternità, possa colpire un cattolico.Il gesto di Benedetto XVI non è stato peraltro quello che una retorica di moda ma decisamente bolsa chiamerebbe “dialogo”, né un tentativo transigente (quindi compromissorio) di “salvare capra e cavoli”, ancora meno un’“ammissione di colpa”, un autodafè o l’“enciclica” delle scuse (tipo: “avevano ragione loro, finalmente da Papa ho capito”). Tutto infatti quel gesto significa tranne che un’indulgenza tardiva verso gli errori e le intemperanze dei “lefebvriani”.Quanto fatto dal Sommo Pontefice è infatti l’offerta agli scismatici di una possibilità reale e concreta (l’ultima?) di chiedere loro scusa al Vicario di Pietro: la richiesta esplicita di una prova inconfutabile della loro buona fede, della loro cattolicità, della purezza della loro battaglia per la verità.Come ha detto pubblicamente lo stesso Benedetto XVI il 28 gennaio, il suo è stato un atto di «paterna misericordia perché ripetutamente questi presuli mi hanno manifestato la loro viva sofferenza per la situazione in cui si erano venuti a trovare» e s’inquadra solo nel suo infaticabile impegno per cercare e per ottenere l’unità fra tutti i credenti in Cristo. Tant’è che la revoca della scomunica è stata ufficializzata nel corso della settimana di preghiera che la Chiesa indice da tempo per impetrare l’unità dei cristiani. E peraltro non annulla la sospensione a divinis degli ex scomunicati.Sì, no, forseIl pontefice, insomma, ri-accoglie come figli suoi anche i “lefebvriani” se i “lefebvriani” si riconoscono suoi figli: per questo Benedetto XVI auspica «il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa» in nome della «vera fedeltà e [del] vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II».Ora la palla passa ai “lefebvriani”. Del resto, una caparra preziosa da considerare (e il Papa in persona lo ha fatto proprio con le parole succitate) sono alcuni atti pubblici fondamentali: il pellegrinaggio compiuto dagli scismatici a Roma nel 2000 per il Giubileo “wojtyliano” e la richiesta di revoca della scomunica avanzata da mons. Fellay , superiore generale della FSSPX, con l’appoggio di quella “Crociata del Rosario” che egli ha lanciato l’ottobre scorso durante un pellegrinaggio a Lourdes nella Solennità di Cristo Re allo scopo di ottenere l’intercessione della Vergine Maria e che ha totalizzato la recita (anche via Internet) di un milione e 703mila rosari “lefebvriani”.Nel “mezzo” si situano certamente segni inequivocabili quali la promulgazione del motu proprio “Summorum Pontificum” con cui nel luglio 2007 Benedetto XVI ha liberalizzato l’uso della liturgia latina “preconciliare” e la mano tesa alla FSSPX dalla Pontifica Commissione “Ecclesia Dei”, quella istituita il giorno dopo la scomunica ai “lefebvriani”, cioè il 2 luglio 1988, per “incontrare” i “tradizionalisti” che non avevano seguito gli scismatici. In giugno infatti il suo presidente, il cardinale Darío Castrillón Hoyos, ha proposto agli scismatici una linea d’intesa che di fatto ricalca il famoso protocollo preparato nel fatidico 1988 dal cardinal Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della fede, protocollo che mons. Lefebvre firmò il 5 maggio 1988 benemeritamente ricucendo in quell’attimo la frattura, ma che, certamente anche circondato da pessimi consiglieri, il prelato rinnegò completamente dopo sole 24 ore.Ebbene, dallo scisma a oggi, il flusso dei “lefebvriani” pentiti che hanno riguadagnato la comunione con Roma è stato del resto costante e per loro la Santa Sede ha eretto ad hoc la Fraternità Sacerdotale San Pietro. Ma anche prima dello scisma diversi tra sacerdoti, religiosi (è il caso della Fraternità San Vincenzo Ferrer, domenicana) e membri di gruppi laicali (non solo uti singuli, cioè rompendo con i propri ambienti, ma anche associativamente) avevano felicemente abbandonato il “lefebvrismo” senza peraltro rinunciare alle proprie battaglie antiprogressiste. Esiste un vasto mondo “tradizionalista”, cioè, oltre il “lefebvrismo”. E questo è importante ricordarlo per almeno tre ragioni.Pentiti e born-againLa prima è evitare che la revoca della scomunica ai vescovi “lefebvriani” venga percepita da qualche commentatore distratto, o persino malevolo, come una “sanatoria” che fa di ogni erba un fascio e di ogni “tradizionalista” un born-again. Vi sono cioè “tradizionalisti” che per tempo son tornati sui propri passi e persino altri che non hanno mai dovuto farlo.La seconda ragione è che la disubbidienza di mons. Lefebvre prima e lo scisma dopo hanno oggettivamente creato le condizioni per un’ulteriore ferita nella Chiesa: quella aperta dai “sedevacantisti”, una famiglia eterogenea di credenze paracattoliche o di origine cattolica che al proprio interno conosce diverse “obbedienze”. Il “sedevacantismo” giudica eretica la Chiesa Cattolica dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II ed eretico il “lefebvrismo” che non considera eretica la Chiesa. La distinzione andrà sempre fatta, anzi gridata: ma sui propri concorsi di colpa il “lefebvrismo” un pensierino dovrà farlo, e magari comunicarlo a Pietro prima e al mondo poi.Risposte. E chiareE la terza ragione è questa. Originariamente – storicamente – il “lefebvrismo” è nato come una filiale domanda di chiarimenti al Pastore di Roma affinché egli rendesse ragione al proprio gregge di alcune mosse percepite da molti fedeli, spesso i più fedeli, come incomprensibili. Ebbene, se il “lefebvrismo” ha pensato di dover bruciare le tappe, i tempi della Chiesa Cattolica hanno invece adeguatamente risposto a quelle suppliche. Il monumentale magistero di Papa Giovanni Paolo II, la pubblicazione dell’imponente Catechismo della Chiesa Cattolica nel 1997 e l’intero insegnamento di Papa Benedetto XVI (già “teologo di Giovanni Paolo II”) hanno sancito autorevolmente la fallacia e la sconfitta di quella «ermeneutica della discontinuità e della rottura» (Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005) con cui il progressismo neomodernista ha preteso malevolmente d’interpetare il Vaticano II, causa prossima anche se non motore unico della rivolta “lefebvriana”.Se insomma una funzione storica, anche importante, il “lefebvrismo” l’ha certamente avuta, oggi la sua attesa paramessianica, che con i decenni si è trasformata in mera attesa di se stesso, non ha più senso. Oggi la risposta alla sua fondamentale domanda si chiama Chiesa Cattolica. Come sempre. Più chiaro di così, il Papa non può rispondere.Ebrei e dintorniC’è altro da dire? Sì, commentare breviter, come merita, l’incresciosa lingua lunga del vescovo Williamson sui campi di sterminio nazionalsocialisti. Premesso che il punto nodale della Shoah non sono i numeri, cioè che se non fossero 6 ma solo 5, 4, 3, 2 o anche 1 solo i milioni di ebrei criminalmente sterminati dal Terzo Reich non cambierebbe alcunché, Williamson parla evidentemente solo per sé, la FSSPX ha chiarito bene e subito di non avere alcunché a che spartire con le sue parole e il Papa pure. Del resto la scomunica che il Papa ha levato dal suo capo non fu certo comminata, come nessuna scomunica lo può essere, per le opinioni di un vescovo sui numeri dello sterminio ebraico, per bislacche che siano. Eppoi, eppoi c’è che mons. Williamson i suoi numeri li ha dati nel novembre scorso, ma che solo nella Giornata della Memoria 2009, in pendenza di revoca di scomunica, sono state passate in tivù. Forse pure, come puntualmente scrive il bravo Andrea Tornielli, su il Giornale del 3 febbraio con lo zampino, o la zampata, di due giornaliste francesi, lesbiche, “fidanzate”, filoabortiste e massone, Fiammetta Venner e Caroline Fourest. Che le due ce l’abbiano con il pontefice e con la sua paterna grandezza?
Documentazione

giovedì 15 gennaio 2009

Il caso Galilei (di Francesco Agnoli)

tratto dal sito www.storialibera.it

Uno sguardo obiettivo, per quanto possibile, che eviti sia le accuse ridicole e antistoriche alla Chiesa, sia le accuse, al contrario, a Galilei, che è stato un gigante del pensiero cattolico. Dopo il processo a Gesù, quello a Galilei è forse il più conosciuto e dibattuto nella storia. Conosciuto, in realtà, molto male, se è vero come è vero che per tantissime persone esso segna un contrasto insanabile tra fede e scienza, tra Chiesa e rivoluzione scientifica. Cercherò di dimostrare, analizzando la vita e il pensiero del grande Galilei, che i luoghi comuni, ribaditi con tenacia dai calunniatori, e ben digeriti dall'abbondanza dei ri-masticatori di frasi fatte e di pensieri già pensati, hanno avuto la capacità, nell'immaginario collettivo, di ribaltare sostanzialmente i termini del discorso. Che, in breve, sono questi: anzitutto Galilei fu sempre un cristiano, non per comodità, ma per convinzione personale; in secondo luogo il suo straordinario magistero è dovuto al suo appartenere ad una cultura, quella italiana, profondamente cattolica, che dopo oltre mille e cinquecento anni stava ancora affrancandosi, piano piano, dalle favole politeiste ereditate dal paganesimo; infine Galilei divenne il "divin uomo", lo scienziato famoso e ben pagato che fu, in buona parte grazie proprio alla Chiesa, che accolse e consacrò tutte le sue scoperte più importanti, nessuna esclusa, e che entrò in conflitto con lui, nelle persone di Roberto Bellarmino e Urbano VIII, soprattutto per questioni personali e di metodo, più che scientifiche, non senza qualche torto, e qualche ragione. Ma andiamo con ordine.E' bene anzitutto partire dal quadro storico in cui Galilei va inserito. L'Italia, sede del papato, è anche la patria delle università, dei Comuni, del rinascimento, dell'arte, della rinascita della medicina; è il luogo di studio e di formazione del canonico Copernico, e di scienziati come Vesalius ed Harvey... La religione dominante è appunto quella cattolica, che esalta Dio come Logos, come Ragione, propone la creazione come qualcosa di "buono", di bello, osteggia magia e astrologia, sempre rinascenti sull'onda del pensiero pagano, ed esclude dal creato la presenza di divinità immanenti, elementi spiritali di origine panteista. La scienza moderna dunque non nasce già calzata e vestita, d'improvviso, come un fiore nel deserto, come Atena dalla testa di Zeus.Il pensiero di fondo dell'Europa cristiana è quello di Sant'Agostino: "Lontano da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione...Lontano da noi il credere che la fede ci impedisca di trovare o cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, dal momento che non potremmo neppure credere se non avessimo un'anima razionale". Contemporaneamente, dappertutto nel mondo, vi sono credenze politeiste, irrazionali, magiche, animiste, che di per sé, da sole, escludono la possibilità stessa del concetto di legge fisica. Nel buddismo, ad esempio, il mondo è una grande illusione, e così pure la vita e l'esistenza: in questo contesto, non può certo nascere un pensiero scientifico, che indaghi la realtà, le sue leggi. Analogamente, mentre in Africa gli stregoni invocano la pioggia con le loro danze tribali, nella più evoluta Cina non si è "mai sviluppata la concezione di un legislatore celestiale e divino che impone leggi sulla Natura non umana" (J. Needham, citato in «La vittoria della ragione», Lindau).Galilei insomma, nasce nell'Italia cattolica, più precisamente nel comune di Pisa, nel 1564. Nel 1589, grazie all'appoggio del cardinal Francesco Del Monte, viene nominato lettore di matematica nella sua città; poi si sposta a Padova per 18 anni. Subito rivela doti straordinarie, insieme ad un carattere piuttosto difficile, che lo mette in contrasto molto spesso con i suoi colleghi universitari. Nel 1609, perfezionando uno strumento di invenzione altrui, costruisce il suo primo telescopio: lavora personalmente i vetri, e riesce ad aumentarne di continuo le prestazioni. Inizia così l' avventura intellettuale del grande pisano. Galilei, qui sta la novità, punta il cannocchiale al cielo, e con la pubblicazione del «Sidereus nuncius» rende edotto il mondo delle sue scoperte: il carattere scabro ed irregolare della superficie lunare, costellata di rilievi e avvallamenti; un immenso numero di stelle oltre a quelle conosciute; quattro satelliti intorno a Giove. Cosa c'è di anti-cristiano in queste scoperte? Nulla. Di anti-pagano? Tutto. Infatti la cosmologia dell'epoca è ancora quella aristotelico-tolemaica: i cristiani, soprattutto i commentatori del Genesi, la hanno spesso criticata, ma senza proporre nessuna alternativa utile. Per questo, nel XVI secolo, i dotti credono ad una Luna e a pianeti cristallini, perfetti, lisci, di quinta essenza, divini. Per costoro, come per Aristotele, esistono due fisiche: quella terrestre, e quella celeste. Anche questa visione dualista era stata già combattuta da cristiani come Ambrogio, Grossatesta, e tanti altri, i quali facevano questo semplice ragionamento: un solo Creatore, un solo legislatore universale, dunque una sola fisica. Nel suo Esamerone, più di mille anni prima, Ambrogio spiegava che "in principio Iddio Dio creò il cielo e la terra", "simultaneamente", con un "atto fulmineo della sua volontà", non come due entità qualitativamente diverse, ma come creature procedenti dallo stesso Creatore. E accennando ad Aristotele affermava: "Non concludono nulla dunque, coloro che per sostenere l'eternità del cielo hanno ritenuto di dover introdurre un quinto elemento etereo" (la quinta essenza, ndr), perché cielo e terra, avendo iniziato ad esistere nel tempo, sono entrambi "corruttibili".La reazione al Sidereus Nuncius, e cioè all'unificazione di fisica terrestre e fisica celeste, che è la grande e imperitura conquista del pisano, non si fa attendere. Chi si oppone? Gli astrologi, i medici che legano le malattie agli influssi astrali, matematici di Parigi, Bologna, Padova... cattedratici che non vogliono abbandonare la propria visione del mondo, e il proprio prestigio. Nessuna scomunica religiosa, o d'ambito cattolico, di fronte ad una constatazione che mette in crisi l'idea di una divinità immanente, ma che risulta da subito perfettamente concorde con quella di un Dio trascendente. "A Pisa, a Firenze, a Bologna, a Venezia, a Padova, molti, o mio Keplero, hanno visto, ma tutti tacciono ed esitano". Così scrive Galilei a Keplero, mentre l'aristotelico Cesare Cremonini si rifiuta di guardare nel cannocchiale, invocando l'ipse dixit del pagano Aristotele. Al disappunto e all'incredulità di molti si aggiunge presto l'invidia, con la nomina di Galilei, da parte di Cosimo II de Medici, a Primario Matematico dello studio di Pisa, con uno stipendio straordinario di 1000 scudi all'anno. Ma chi consacrerà le scoperte e la figura di questo scienziato, emergente ma anche, da subito, in grande difficoltà e con tanti avversari "laici"? L'ordine dei Gesuiti.E' Galilei stesso, dopo le sue scoperte, a volerle patrocinare a Roma, presso la prestigiosa "Accademia di matematica" dei Gesuiti del Collegio Romano. In quest'epoca i gesuiti sono un ordine forte, diffuso in tutto il mondo, con immensi meriti in campo scientifico. Padre Matteo Ricci, ad esempio, è colui che negli stessi anni introduce la scienza occidentale in Cina, facendo conoscere a quel paese l'orologio automatico, la matematica, la geometria e la cartografia dell'Occidente e insegnando ai cinesi che la terra è tonda e non quadrata. Di poco posteriori sono i gesuiti Martino Martini, autore nel 1655 del «Novus Atlas Sinensis», il primo Grande Atlante della Cina, ed Eusebio Chini, un altro missionario gesuita, esploratore, cartografo, che avviò lo sviluppo civile ed economico delle terre che oggi costituiscono lo Stato messicano del Sonora e quello americano dell'Arizona, insegnando agli indigeni l'arte della coltivazione, dell'allevamento, dell'irrigazione, della distillazione, della lavorazione del ferro... I gesuiti sono viaggiatori, missionari, instancabili costruttori di scuole, abili matematici ed astronomi. A ragione Galilei vuole passare da loro. Ed infatti è il matematico gesuita Cristoforo Clavio a tributargli "gran lode" "in quanto primo che abbi osservato questo". "La dichiarazione del Clavio, osserva il Camerota, segnò un punto decisivo nella campagna condotta da Galileo a sostegno delle straordinarie scoperte dei biennio 1609-1610. L'indiscutibile competenza scientifica della scuola gesuita ed il grande prestigio personale del suo principale esponente contribuivano, infatti, a garantire in modo estremamente autorevole la piena attendibilità dei riscontri telescopici galileiani.A seguito di quel pronunciamento, lo stesso Galilei, nel febbraio 1611, notava come, ormai, a dubitare dell'effettività delle 'novità celesti' fossero rimasti solo i rappresentanti del più stolido e pertinace aristotelismo" (M. Camerota, «Galileo Galilei», vol. I, pag. 240, Mondadori). Dopo questi fatti Galilei, nella primavera del 1611 viene "ricevuto dal papa Paolo V, che non volle che lo scienziato si genuflettesse ai suoi piedi" ed entra nelle grazie di cardinali e prelati romani. Tra i riconoscimenti dei gesuiti, non si può dimenticare il discorso in cui il gesuita belga Odo van Maelcote, incaricato dal Bellarmino, esalta Galilei come "uno dei più grandi astronomi del nostro tempo", e lascia addirittura intendere "l'accettazione di una prospettiva copernicana" (i gesuiti, lungi dal rimanere ancorati al sistema tolemaico, ne vedono chiaramente le mancanze, deridono "le fantasie degli antichi", e cercano, o di correggerlo, o di propendere per il modello "geo-eliocentrico" tychonico). Il vero e proprio "trionfo romano" si conclude con l'ammissione di Galilei, probabilmente su richiesta di mons. Malvasia, all'Accademia dei Lincei, un prestigioso cenacolo segnato da un fervente senso religioso, posto sotto la protezione papale, e considerato da molti come la prima società scientifica d'Europa. Tornato da Roma con grandi onori, Galilei viene subito avversato da un "gruppo di aristotelici toscani", suoi colleghi d'università, per i quali Galilei "rappresenta un outsider, particolarmente inviso in quanto balzato rapidamente, sull'onda del successo delle scoperte astronomiche, a grandi onori" e a "generosi proventi" (idem, p. 270). A questo punto lo scienziato pisano scopre le macchie solari, che in realtà aveva già mostrato a Roma a "molti prelati".La notizia, Phebus habet maculas, è scioccante per il Cremonini e i Peripatetici tutti, che vedono attaccata ancora una volta la loro credenza nell'immutabilità e incorruttibilità della materia celeste, e anche per tutti quei rinascimentali che, rispolverata la magia degli antichi, cercano di far rinascere un culto del sole. Per i cattolici, le macchie di Febo non comportano alcun problema teologico. Anzi, ribadendo "il pieno riconoscimento dell'intrinseca unità di tutti i fenomeni dell'universo" e abbattendo definitivamente la separazione tra sfera celeste e terrestre, riconfermano l'idea della creazione, contrapposta ad un'idea panteista ed animista, in quell'epoca tornata di moda. Gli unici contrasti in ambito cattolico nascono tra Galilei e un bravissimo matematico ed astronomo gesuita, Christoph Scheiner, anzitutto sulla priorità di chi abbia scoperto le macchie solari (Galilei), poi su chi abbia per primo parlato dell'inclinazione dell'asse solare (Scheiner). Nel 1612 però Galilei scrive al cardinal Conti, il quale, nella sua risposta, dichiara l'alterabilità della materia celeste "comune opinione dei Padri"; quanto al movimento di rotazione terrestre lo ritiene possibile, ed indica la posizione del teologo spagnolo Diego de Zuniga, che in un suo commentario al libro di Giobbe sosteneva "essere più conforme alle Scritture moversi la terra, ancor che la sua interpretazione non sia seguita" (idem, p. 311).In questo periodo Galilei comprende che l'ultima possibilità che i suoi avversari hanno di screditarlo è quella di "buttare la cosa in politica", o meglio, in religione. E' risaputo, infatti, che dietro i due sciocchi domenicani, il Caccini e il Lorini, che causeranno il primo "processo" a Galilei nel 1616, si muovono un gruppo di aristotelici, una vera e propria "lega antigalieliana", guidata da Lodovico Delle Colombe, che Galilei chiama "pippione" (in toscano "piccione", ma anche "coglione"). Costui era stato appunto il primo, dopo numerosi scontri in nome di Aristotele, a tirare in ballo la Scrittura contro la dottrina copernicana, come ultima ratio e per motivi evidentemente strumentali (idem, p. 313). Scrive a proposito Federico Di Trocchio: "Le indagini storiche hanno però accertato che fu un gruppo di scienziati pisani e fiorentini a suscitare il fatale scontro tra Galileo e la Chiesa, mossa che costituiva l'unica possibilità di arrestare il copernicanesimo, vista l'impossibilità di contrastarlo sul piano scientifico. L'ostilità della comunità scientifica nei confronti di Galilei fu, almeno all'inizio, generale. L'amico Paolo Gualdo gli scriveva da Padova nel 1612: 'Che la terra giri, sinhora, non ho trovato né filosofo né astrologo che si voglia sottoscrivere all'opinione di Vostra Signoria...'. I più accaniti oppositori furono però un gruppo di studiosi di Pisa e Firenze: Giorgio Coresio, professore di greco all'università di Pisa, Vincenzo di Grazia, che insegnava invece filosofia, nonché Arturo Pannocchieschi, rettore della stessa università.Altro importante membro del gruppo era Cosimo Boscaglia, professore a Pisa, prima di logica e poi di filosofia, che fu molto apprezzato da Ferdinando I e Cosimo II de' Medici. Il più agitato del gruppo era però un filosofo dilettante di Firenze, Lodovico delle Colombe, che viene descritto da un contemporaneo come un individuo 'lungo, magro, nerastro, e di fisionomia sgradevole'. Galieli lo chiamava Pippione, che in toscano vuol dire sia 'piccione' che 'coglione', nel duplice senso, sia letterale che metaforico. Tutto il gruppo veniva perciò indicato nelle sue lettere come la 'lega del Pippione'". Tra i motivi di avversione a Galilei vi è senza dubbio anche l'invidia: "I risultati clamorosi ottenuti con le osservazioni rese possibili dal cannocchiale e la pubblicazione del «Sidereus nuncius» avevano reso Galileo rapidamente famoso, sicché per tornare dall'università di Padova a Pisa aveva preteso delle condizioni di privilegio. Per essere libero di fare ricerca, non aveva infatti alcun obbligo di insegnamento: il suo stipendio veniva però pagato con i fondi dell'università e si trattava, oltretutto, di uno stipendio superiore a quello degli altri professori, i quali erano tenuti, oltre a insegnare, anche ad abitare a Pisa, obbligo dal quale Galilei era esentato. Questi e altri privilegi, accordati a chi si contrapponeva all'ortodossia scientifica del tempo, apparivano ampiamente ingiustificati al mondo accademico pisano" (Federico Di Trocchio, «Il genio incompreso», Mondadori).Che i due domenicani, il Lorini e il Caccini, siano strumenti della suddetta lega e del Delle Colombe, lo testimonia anche una lettera di Matteo Caccini, al fratello domenicano: "Ma che leggierezza è stata la vostra, lasciarvi metter su, da piccione o da coglione, a certi colombi! Che havete a pigliarvi gl'impicci d'altri?". In un'altra missiva, Matteo rivela di aver appreso che "la sua (di Tommaso) è stata un a carriera fatta da que' colombi, et io la tengo per verissima" (Camerota, p. 325-326). I primi guai a Galilei nascono dunque da baruffe di scienziati, di colleghi universitari, aristotelici o invidiosi, tramite la sciocca ingenuità di domenicani ignoranti e facilmente manipolabili, è bene ripeterlo, dagli scienziati e dagli intellettuali dell'epoca.La tattica adottata, in extremis, dal Dalle Colombe e dai suoi alleati, perdenti sino a questo momento grazie al ruolo dei Gesuiti, si rivela immediatamente efficace. La polemica sulla presunta inconciliabilità tra copernicanesimo e Scritture esplode per una serie di motivi che non è facile comprendere del tutto. Certo non è un caso che a prestarsi al gioco, non senza violente polemiche con alcuni confratelli, siano due dominicani: siamo nell'epoca in cui altri due domenicani, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, sostengono l'eliocentrismo "copernicano", ma in nome delle loro convinzioni magiche ed astrologiche, al di fuori di qualsiasi prospettiva scientifica. Si dimentica troppo spesso che la nascita della scienza moderna è contemporanea ad un grande scontro epocale, quello tra Chiesa e visione magica del mondo, che avrebbe potuto cambiare il corso della nostra cultura. Neoplatonismo, neopitagorismo ed ermetismo rinascimentali, infatti, non hanno portato solo un interesse verso visioni matematiche, per il vero molto simboliche e astratte, ma anche per interpretazioni del mondo in chiave animista e panteista, e quindi magica. La "città del Sole" di Campanella è costruita in modo da captare gli influssi astrali, e il sole vi appare quindi come una vera divinità.Come ha notato Paolo Rossi in origine "i primi sostenitori della verità copernicana non sono certo facilmente inseribili tra i moderni o tra gli assertori di un nuovo metodo scientifico", per cui "parlare di 'arretratezza scientifica' di fronte alle incertezze manifestate in quegli anni è un non senso". Infatti Giordano Bruno nel 1585 difende la teoria di Copernico "sullo sfondo della magia astrale e dei culti solari", legandola alla filosofia di Marsilio Ficino, che non disdegnava presentarsi come un sacerdote del culto solare e che considerava i pianeti come "stelle viventi" e "grandi animali". Nel 1592 Francesco Patrizi era stato condannato per aver sostenuto sì la rotazione della Terra, ma all'interno di una visione secondo la quale gli astri hanno vita spirituale e intelligenza. Robert Recorde, John Dee e Thomas Digges, tutti personaggi che si richiamano a Copernico sono accesi sostenitori dell'ermetismo e dell'astrologia. Anche nei testi di Wiliam Gilbert, "anch'egli in qualche modo copernicano, non mancano temi vitalistici né richiami a Ermete, Zoroastro, Orfeo" (Paolo Rossi, «La nascita della scienza moderna in Europa», Laterza, pp. 88-89). La centralità del sole è per loro di tipo sacrale, non astronomica e fisica.Lo stesso Copernico, che come medico "praticò la medicina per mezzo della teoria degli influssi astrali", era stato in parte condizionato dal neoplatonismo e dal neopitagorismo rinascimentali, dando alla centralità del sole, in certi momenti, quasi un significato mistico, religioso (Antiseri, Koyrè, Yates). Non c'è da stupirsi allora se tra gli uomini di Chiesa, gli unici che combattono il revival magico e la rinascente eliolatria pagana, in nome della ragione, e quindi della scienza, alcuni finiscano per interpretare Copernico negativamente, a causa delle strumentalizzazioni che tanti ne avevano fatto. In questo clima Galilei decide di difendersi sul piano dell'esegesi, con l'aiuto di due sacerdoti suoi allievi, padre Benedetto Castelli, grande scienziato, e un barnabita. Il succo delle "lettere copernicane" è perfettamente ortodosso: la Sacra Scrittura e la natura scaturiscono entrambe dal "Verbo Divino", "quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio". Inoltre la Scrittura non deve essere sempre interpretata alla lettera, sia perché si rivolge al volgo, per essere da lui compresa, sia perché, come aveva detto il cardinal Baronio, il suo intento non è quello di dire "come vadia il cielo" ma "come si vadia in cielo". Trovandosi però ad analizzare il miracolo narrato in Giosuè 10, 11-13, in cui Dio ferma il sole al fine di prolungare il giorno, Galilei ritiene di poter adottare una posizione concordista, ritorcendo contro i suoi avversari l'interpretazione letteralista. Spiega cioè che il passo in questione è molto più compatibile con la teoria copernicana che con quella tolemaica.Si tratta di una posizione che era già stata sostenuta, che veniva affermata nello stesso periodo anche da un frate, Antonio Foscarini, e che trova sostenitori accreditati ancor oggi. Le prime lettere di Galilei, lungi dal placare le polemiche, le ampliano, sino alla richiesta da parte dei cardinali Barberini e del Monte, suoi amici, di non eccedere "i limiti fisici o mathematici, perché il dichiarar le Scritture pretendono i theologi che tocchi a loro", e di trattar quindi del sistema copernicano "senza entrare nelle Scritture". Di fronte a questi inviti, che se accolti avrebbero sicuramente scongiurato qualsiasi futuro contrasto, Galilei risponde con altre due lettere, all'amico Mons. Pietro Dini, in cui ritorna sul rapporto tra astronomia copernicana ed esegesi biblica.Così facendo, però, si espone, per invasione di campo, all'invasione di campo della Chiesa. Roberto Bellarmino rivolge allora a lui e al Foscarini l'invito (12 aprile 1615) esplicito a considerare il sistema copernicano solo in termini ipotetici, ex suppositione. Molto prudentemente però aggiunge che nel caso in cui si dimostri la validità delle tesi copernicane "allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non le intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra". E concludeva: "io non crederò che ci sia tal dimostratione, finchè non mi sia mostrata". Siamo di fronte ad una posizione perfettamente corretta: Bellarmino non si dichiara assolutamente contrario al sistema copernicano, bensì afferma di non voler che altri intervenga nella interpretazione delle Scritture prima che esso sia una certezza dimostrata e non solo una ipotesi, come è ancora allora e come ammetterà proprio Galilei in seguito alla lettera di Bellarmino. Siamo così al 1616, l'anno della convocazione di Galilei a Roma e della condanna da parte del Santo Uffizio, diviso al suo interno, della "dottrina pitagorica" della mobilità della terra e della immobilità del sole.Tale dottrina non viene però dichiarata "eretica"; a Galilei non viene imputata nessuna colpa personale, nè richiesta alcuna abiura. In realtà il decreto del 1616, per quanto sicuramente sbagliato, col senno di poi, dimostra che se la questione non fosse stata portata sul terreno delle Scritture, la Chiesa non se ne sarebbe occupata: infatti la pubblicazione di Copernico è sospesa donec corrigantur, cioè finché non verrà corretta eliminando solo i dieci versi della prefazione a Paolo III dove si accenna alle Sacre Scritture; l'altro testo proibito è la lettera del Foscarini, perché "esplicitamente votata ad una difesa concordista [e quindi scritturale] della cosmologia Pithagorica" (l'utilizzo di questo aggettivo, al posto dell'aggettivo "copernicana", può essere compreso solo alla luce dei ragionamenti precedenti, sulle implicazioni animiste e magiche del neopitagorismo eliocentrico rinascimentale).Dopo il decreto del 1616 Galilei entra in contrasto con il gesuita Orazio Grassi, valente scienziato e architetto della chiesa di Sant'Ignazio a Roma, intorno all'apparizione di alcune comete nel cielo. Il Grassi in un suo scritto sostiene contro Aristotele che le comete costituiscono dei veri e propri corpi celesti, situati oltre la sfera lunare. Galilei risponde interpretando "la parte di un aristotelico conservatore" inoltrandosi "in una selva di incoerenze" (Rossi, p. 123), e definendo le comete, erroneamente, come effetti ottici dovuti ai riflessi della luce solare sui vapori che circondano la terra. La sua trattazione è tutta giocata in attacco, con un linguaggio ed un tono che sconcertano i Gesuiti, che si sentono ingiustamente attaccati, dopo tanto favore concesso allo scienziato pisano. In effetti Galilei adotta sovente, nelle sue polemiche, un linguaggio violento, brutale, che gli alienerà nel tempo molti amici, definendo gli avversari "serpe lacerata, castrone, scorpione, solennissima bestia, ignorantissimo bue, animalaccio...". La verità è che non tollera che i Gesuiti, abbandonato Tolomeo e Aristotele, stiano sempre più abbracciando il sistema geo-eliocentrico di Tycho Brahe.Nel 1623 esce «Il Saggiatore» dedicato al nuovo papa, il cardinal Maffeo Barberini, col nome di Urbano VIII. La sua elezione è motivo di grande gioia per Galilei, che lo ricorda come un amico e un grande estimatore. Decide così che è venuto il tempo di tornare a Roma, dove giunge il 23 aprile del 1624: il giorno dopo è già accolto in una lunga udienza privata dal papa, che lo rivedrà, in tre mesi, ben sei volte. Nel periodo della sua permanenza nell'urbe Galilei constata di essere ancora stimato ed amato da molti cardinali e uomini di curia. Lascia Roma carico di doni ricevuti direttamente dal papa, insieme ad un attestato in latino in cui si esaltano le doti e le scoperte del "dilectus filius Galilaeus", che può essere considerato, a quest'epoca, a tutti gli effetti, "l'astronomo ufficiale del papa". Anche i suoi allievi più intimi, padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, fanno fortuna: il primo viene nominato alla nuova cattedra di matematica dell'università pontificia La Sapienza nel 1626, mentre il secondo nel 1629 assume la stessa cattedra a Bologna. Commenta Pietro Redondi: "il più prestigioso insegnamento scientifico universitario in terra papale era assicurato ad un galileiano" (P. Redondi, «Galileo eretico», Einaudi, p. 119-123).In realtà, amicizia e stima a parte, Urbano VIII dissente su un punto, in particolare, rispetto a Galilei: ritiene che "poiché per ogni effetto naturale può darsi una spiegazione diversa da quella che a noi sembra la migliore (data l'onnipotenza divina, ndr), ogni teoria deve muoversi sul piano delle ipotesi e rimanere su questo piano". Ad una siffatta opinione Galilei risponde con un ragionamento assai più realista e quindi più conforme alla dottrina cattolica: nessuna conoscenza umana limita la libertà e l'onnipotenza di Dio, perché "noi non cerchiamo quello che Iddio poteva fare, ma quello che Egli ha fatto". L'uomo infatti è dotato di ragione per conoscere le realtà naturali, benché altre realtà, quelle soprannaturali, abbisognino della Rivelazione divina, delle sacre Scritture.Nel 1632 esce il «Dialogo sopra i due massimi sistemi», l'opera che segna la rottura con Roma. Galilei viene infatti immediatamente convocato a discolparsi, e sostiene insistentemente di aver voluto confutare, non avvallare, la teoria copernicana. L'evidente menzogna rafforza l'ala intransigente del sant'Uffizio, che attribuisce a Galilei alcune colpe: l'aver trattato il sistema copernicano come verità assoluta, pur in assenza di prove concrete, e non come ipotesi; l'aver posto in bocca a Simplicio, cioè ad uno sciocco, persino nel nome, incaricato di difendere le idee aristoteliche, alcune frasi di Urbano VIII, lanciandogli così una evidente sfida; l'aver proposto come prova incontrovertibile della teoria copernicana, erroneamente, il moto delle maree, mettendo nel "mazzo con le vecchie ridicolose" la posizione degli scienziati vaticani i quali collegavano a ragione le maree alla attrazione della luna (mentre Galilei bollava questa opinione come una credenza magica).Galilei si trova dunque a mal partito: da una parte il suo tentativo di negare la realtà, dall'altra il rancore di Urbano VIII, che si sentiva offeso personalmente, da un uomo che aveva sempre trattato con benevolenza ed onori. "All'origine dell'iniziativa inquisitoriale stava in primo luogo lo sdegno del papa Urbano VIII" (Camerota, p. 632): è bene ribadire questo concetto, l'esistenza di questo scontro personale e non dottrinale, senza il quale non si capiscono molte vicende, come ad esempio il fatto che Urbano VIII, con notevole testardaggine, non ascolti nè il suo teologo personale, Agostino Oreggi, nè il celebre teologo Pasqualigo, consultato anch'egli dal papa stesso, i quali erano entrambi sostenitori della necessità di distinguere "tra ciò che appartiene alla fisica, ciò che spetta alla matematica e ciò che appartiene alla metafisica" (Redondi, p. 316 e p. 318, 342. Pasqualigo scriveva: "Non vedo come la fisica e la teologia debbano essere confuse in una sola scienza").Il 22 giugno 1633 Galilei abiura davanti ai suoi giudici, che in numero di sette su dieci condannano la teoria copernicana, senza però definirla formalmente eretica, e senza impegnare la infallibilità della Chiesa. Galilei non fa un giorno di carcere, vive alcuni giorni presso il palazzo dell'ambasciata toscana di villa Medici, per poi essere accolto "con sincera amicizia", dall'arcivescovo di Siena, Ascanio Piccolomini, nell'attesa che l'estinzione della epidemia pestilenziale gli consenta di tornare ad Arcetri, nella sua villa vicino Firenze. Nel 1634 muore la dilettissima figlia Suor Maria Celeste, che lo aveva aiutato a sopportare con fede anche le avversità di uomini di Chiesa, e gli ulteriori attacchi dei colleghi universitari, come il professore di filosofia dello studio pisano Chiaramonti o aristotelici libertini come Antonio Rocco, che attaccavano Galilei anche per le scoperte del «Nuncius».In un bilancio finale, infine, occorre ricordare che il sistema copernicano verrà dimostrato molto più avanti, con le scoperte del 1725, del 1837 e definitivamente nel 1851 con gli esperimenti di Foucault. Galilei morirà l'8 gennaio del 1642, munito della benedizione papale, assistito dai discepoli Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, e, come ebbe a scrivere il Viviani stesso, "con filosofica e cristiana rassegnazione rese l'anima al suo Creatore": lui che mai aveva dubitato della capacità delle Scritture di indicare la via al cielo, che non aveva mai contrapposto scienza e fede; lui che aveva raggiunto la fama e la celebrità grazie alla consacrazione dei Gesuiti e del papato, prima di inimicarseli con le sue violente polemiche, nonostante l'avversione degli scienziati e degli universitari laici dell'epoca; lui, infine, che era incorso, non senza alcuni suoi gravi errori, nel risentimento non certo lodevole di un papa che sino ad allora era stato suo amico e protettore. Una storia complessa, dunque, che in troppi hanno voluto elevare a simbolo di uno scontro teorico, dottrinale, quello tra scienza e fede, che non ci fu (basti pensare che tutte le opere di Galilei furono subito ristampate, anche in terra pontificia, ad eccezione del solo «Dialogo»).Se lanciamo ora un veloce sguardo agli sviluppi successivi della scienza e della cultura dopo Galileo, possiamo dire che Urbano VIII non comprese quello che invece avevano capito tanti ecclesiastici di rango come mons. Giovanni Ciampoli, consigliere e addetto culturale del papa stesso, oltre che eminenza grigia della Segreteria di Stato vaticana, il celebre padre Mersenne e molti altri, che videro sempre in Galilei il filosofo e lo scienziato cristiano chiamato finalmente a sostituire l'astro-biologia pagana di Aristotele, e a combattere "contro il naturalismo averroistico e l'irreligiosità libertina e magica" allora in auge. Ciampoli auspicava l'abbandono di Aristotele, non certo per quanto riguarda i principi della logica, ma affinché si ponesse un limite "a quell'ibrida mescolanza tra dogmi cattolici e filosofia aristotelica" che risultava spesso ingiustificabile, soprattutto in fisica (e che in realtà già nel medioevo aveva portato il vescovo di Parigi Tempier a condannare l'eternalismo di Aristotele). Padre Mersenne, dal canto suo, si schiera dalla parte della nuova scienza "come un argine di fronte ai pericoli grandissimi che sono rappresentati, per il pensiero cristiano e il suo patrimonio di valori, dalla ripresa dei temi magici, dalla diffusione della tradizione ermetica, dalla presenza di posizioni che si richiamano al naturalismo rinascimentale e alle dottrine presenti nel pensiero di Pomponazzi..." (Rossi, p. 205).Ciampoli, Mersenne e tanti altri (la lista degli ecclesiastici galileiani sarebbe troppo lunga, da padre Riccardi, maestro di Sacro Palazzo e superiore dei domenicani, a mons. Sforza Pallavicino, a scienziati come don Balli, padre Maignan, padre Valeriano Magni, padre Stefano Degli Angeli, padre Francesco Maria Grimaldi... oltre ai già citati padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, sino a don Marco Ambrogetti e padre Clemente Settimi, che stettero accanto al vecchio Galileo, ormai cieco, per scrivergli gli appunti e rispondere alle lettere) videro giusto: con lo scienziato pisano la magia entrò definitivamente in crisi, e con essa tutte le filosofie animiste e panteiste, e quindi anti-cristiane, che erano risorte coll'umanesimo e il rinascimento.Il nuovo avversario della fede, da allora, non sarebbero stati più i maghi e i filosofi pagani, che interpretavano il mondo come un "grande animale", ma i filosofi razionalisti, atei e materialisti, che toglieranno l'anima non solo alle stelle, ma anche agli uomini. Prima, però, ci fu la generazione degli scienziati credenti: dopo l'ecclesiastico Copernico, Galilei e il religiosissimo Keplero, vi furono, a prescindere da alcune incrostazioni esoteriche, scienziati devoti come Isaac Newton, Robert Boyle e tanti altri. Spetterà a questi due, in particolare, il compito di teorizzare una visione meccanicistica cristiana, già adombrata da alcuni religiosi in epoca medievale, escludendo però un indebito allargamento del meccanicismo al regno dello spirito. Boyle, per esempio, attaccò spesso i seguaci di Epicuro, di Democrito e di Cartesio, che volevano trarre conclusioni materialiste dal meccanicismo, dichiarando che "il problema della 'prima origine delle cose' va tenuto accuratamente distinto da quello del 'successivo corso della natura'". Dal canto suo Newton prese le distanze dai "possibili esiti ateistici e materialistici del cartesianesimo", affermando che il "cieco destino" e il "Caos", non avrebbero mai potuto essere chiamati in causa per giustificare, insieme alle mere leggi della natura, il "disegno intenzionale", divino, intelligente e non casuale, sotteso alla creazione. "La ammirevole disposizione del sole, scriveva Newton, dei pianeti e delle comete può essere solo opera di un Essere onnipotente e intelligente", che ha posto in essere leggi naturali che hanno cominciato ad operare solo dopo che l'universo è stato creato. "Newton e i newtoniani, conclude lo storico della scienza Paolo Rossi, non accettarono mai l'idea che il mondo possa essere stato prodotto da leggi meccaniche" (Rossi, p. 207, 208).
Data inserimento in www.storialibera.it :
24/09/2007