sabato 10 novembre 2007

Evoluzionismo: solo una teoria

Un manuale di biologia senza lo schema scimmia-uomo
di Marco Respinti, Il Foglio 7 novembre 2007
Un pool di scienziati analizza i limiti dell’evoluzionismo usando solo la scienza
I presupposti del darwinismo sono ancora da dimostrareLunedì al Festival della Scienza di Palazzo Ducale a Genova, lo ha detto piuttosto decisamente Massimo Piattelli Palmarini, scienziato cognitivo che si divide fra Università San Raffaele e Università dell’Arizona (sul tema annuncia addirittura un libro intero, che sta scrivendo con il collega statunitense, ateo, ateissimo, Jerry Fodor, filosofo della mente). Il neodarwinismo, dice Piattelli Palmarini (cioè il makeup con cui l’evoluzionismo si è rifatto la cera a fronte degli scacchi mossigli dalla genetica), si fonda su ciò che invece è ancora tutto da dimostrare. Le perplessità scientifiche sulla “selezione naturale”Il concetto di “selezione naturale” (perno irrinunciabile di darwinismo e neodarwinismo) è piuttosto vago e quando va bene astratto. E le scoperte più recenti contaddicono il dogmatismo tetragono con cui i neodarwinisti difendono in modo trinariciuto i segreti de “L’origine della specie”. Insomma, l’evoluzionismo è una ipotesi che fa acqua da molti pori e i suoi fondamenti si contraddicono l’un l’altro (“selezione naturale” come scelta operata assieme da natura e caso cieco). Altro che scienza. Sul punto il dibattito fiorisce da tempo e la letteratura cresce. In pochi anni i titoli che mettono in crisi questo o quel punto dell’impianto teoretico evoluzionistico (senza per questo essere però automaticamente ascrivibili al “creazionismo” o persino alla più “morbida” idea del “progetto intelligente”) si sono moltiplicati rapidamente; e se fare dell’antidarwinismo resta ancora sempre piuttosto scorretto, politicamente parlando, la cosa appare comunque oggi un tantino meno scriteriata che non solo qualche tempo fa. La parola agli addetti ai lavoriIl salto vero di qualità è venuto peraltro quando del tema si sono messi a trattare seriamente dei veri addetti ai lavori, scienziati autentici (biochimici, cosmologi, paleontologi, antropologi) i quali sono venuti così ad affiancarsi a divulgatori di buon spirito ma magari di poche conoscenze specifiche e a confortare quei pionieri per lungo tempo lasciati soli a combattere una buona battaglia che però a molti sembrava una carica contro i mulini a vento. Due nomi per tutti, e italiani, Giuseppe Sermonti, genetista, e Roberto Fondi, paleontologo.Un testo che parla di scienza e solo di scienzaDi libri così ne è appena uscito un altro, che però non è solo un libro in più da archiviare sullo scaffale appropriato. Si tratta di “Evoluzione. Un trattato critico. Certezza dei fatti e diversità delle interpretazioni”. Lo pubblica l’editore Gribaudi di Milano con prefazione di Fernando De Angelis. Ne sono autori un pool di scienziati (chimici, paleontologi, biologi, antropologi, informatici, botanici, embriologi) coordinati dai due curatori dell’opera, scienziati pure loro, Reinhard Junker e Siegfried Scherer, entrambi biologi e quest’ultimo citato da Papa Ratzinger come esempio di scienza non darwinista. Ebbene era il testo che attendevamo, tutti. Il “noi” qui non è maiestatico, ma un soggetto collettivo che comprende sia darwinisti sia antidarwinisti, critici e partigiani, credenti e non, scienziati e profani, possibilisti, dubbiosi e rigoristi. Era il testo che tutti attendevamo perché si tratta di un libro di biologia che anzitutto si occupa della materia in oggetto, la vita organica sul pianeta Terra, lasciando ad altra sede l’approccio polemico e critico. E questo dovrebbe far davvero contenti un po’ tutti. Che i fatti biologici vengano cioè presi in considerazione per quello che sono e che dicono oggettivamente, prima e al di là di ogni considerazione ulteriore, è cosa che di per sé dovrebbe risultare gradita a ogni partito.Il libro fa luce su alcune teorie infondateIl libro in questione nasce in Germania nel 1998 e oggi è giunto alla sesta edizione. Su questa è stata condotta la versione italiana, la prima. Tedesco è lo stile del libro, tedesco l’approccio che esso segue, tedesca l’assoluta serietà dell’analisi che propone, rigorosamente tecnica senza mai essere solo tecnicistica. Il suo pregio, enorme, è quello di descrivere (quindi non solo di affermare) cose diverse rispetto a quelle che normalmente si leggono sui testi di genere, consuetamente improntate a un secco determinismo a supporto del quale non esistono però riscontri empirici. La squadra di specialisti coordinata da Junker e Scherer questo infatti anzitutto e soprattutto fa. Ricorda, e mostra, come infondata sia per esempio la pretesa di far derivare la vita organica dalla materia inanimata, di come i fossili non attestino affatto specie viventi in fase di mutazione (a metà insomma, in transizione) ma solo specie in sé conchiuse, di come giocare con le permutazioni genetiche possa pure risultare affascinante ma comunque sia assai poco sfruttabile per desumerne il concetto di speciazione macroevolutivo caro a ogni tipo di darwinisti, e via di questo passo.Un libro didattico basto sull’onestà scientificaIl tutto usando la biologia e solo la biologia. Il libro lo mostra raccontando infatti quel che la scienza ha fin qui accertato, quel che la scienza non sa (ancora?) dire, quel che la scienza non può invece (“statutariamente”) dire. Un gran bel libro, insomma, e utile. Ma il suo maggior vantaggio è l’essere un libro pensato appositamente per la didattica. Ha figure (tante, belle, colorate), schemi e schemini a iosa, diagrammi e alberi genealogici in abbondanza, specimen e illustrazioni. E poi riassuntini, esplosi, box e boxini, utili all’insegnamento, all’apprendimento, alla memorizzazione. È cioè un testo nato per le scuole e che nelle scuole di ogni ordine e grado (lo si può infatti leggere e insegnare a più livelli) farebbe un gran bene a tutti, se insuperabili non fossero quelle forche caudine ministeriali che detengono la prima e l’ultima parola sull’adottabilità di un determinato testo in aula. Forse il testo non potrà mai ufficialmente figurare sui banchi delle scuole, ma costituisce una superba lezione di scienza, di metodo scientifico, di ragione intelligente. L’unica sua partigianeria è quella di raccontare le cose esattamente come gli specialisti le conoscono. Il resto è solo letteratura, talvolta di pessima qualità.

giovedì 1 novembre 2007

Clemente V: non condannò i Templari

(31 ottobre, 2007) - Corriere della Sera
INCONTRI Il prefetto dell' Archivio segreto vaticano parla dei documenti da poco scoperti
Scagionato Clemente V: non condannò i Templari
«Il Papa assolse i cavalieri». A scioglierli fu solo Filippo il Bello
La pergamena che contiene la deposizione davanti ai teologi della Sorbona di Jacques de Molay, gran maestro dell' Ordine del Tempio, poi condannato al rogo, nel processo per eresia che gli era stato intentato su istigazione di Filippo il Bello, deciso a mettere le mani sul ricco patrimonio dei Templari, porta la data dell' ottobre 1307. Esattamente settecento anni dopo, il Vaticano edita un volume che raccoglie la copia anastatica di tutti i documenti riguardanti l' antico e molto discusso processo, alcuni dei quali, come la pergamena di Chinon, ritrovati solo di recente (ritrovati non nel senso che fossero andati perduti, bensì catalogati in modo vago nell' Archivio segreto vaticano, tanto che per secoli sono rimasti separati e in ombra). Pergamena che testimonia senza ombra di dubbio che Clemente V, sia pure Papa avignonese e, per di più, di famiglia francese, cercò di contrastare il progetto assai poco cristiano del re di Francia, assolvendo l' Ordine dall' accusa di eresia e reintegrandolo nei sacramenti. «Absolutionis» si può leggere chiaramente in una delle ultime righe del manoscritto e, subito sotto, «reintegrantes ad Ecclesiam». Processus contra Templarios si chiama il grande volume, in veste preziosissima, di cuoio, di stoffa e pergamena, curato dagli officiali dell' Archivio segreto e stampato in 799 copie (prezzo intorno ai 5 mila euro), per le quali stanno arrivando richieste di acquisto da tutto il mondo, da biblioteche e istituzioni ma anche da collezionisti privati, sceicchi arabi compresi. È il terzo di una serie incominciata nel 2000 con la Bolla d' indizione del primo Giubileo, seguita da un volume dedicato al doge Pasquale Cicogna, che regalò palazzo Gritti a Sisto V. Editore e mente dell' operazione, oltre che autore della prefazione, è monsignor Sergio Pagano, da dieci anni prefetto dell' Archivio segreto vaticano, ma già da trenta al lavoro lungo gli 85 chilometri di documenti che ne formano il corpus, conservati in quattro piani del palazzo apostolico oltre che nel bunker sotterraneo voluto da Paolo VI. Della suggestiva coincidenza delle date tra questa pubblicazione e la deposizione dell' ultimo gran maestro dei Templari non vuole, tuttavia, sentire parlare. «Vede, a noi non compete onorare centenari dei Templari, a noi importa soltanto lo studio della storia. Non c' era nessuna intenzione di celebrare quell' Ordine, così come qualsiasi altro. È un lavoro scientifico, il nostro, non di propaganda. Ovviamente c' è anche un interesse economico perché abbiamo bisogno di fondi non indifferenti per mantenere, curare, restaurare, studiare i documenti più deteriorati dell' Archivio». E pensa che ristabilire la verità storica sul processo e la fine dei Templari possa fermare l' onda lunga dei Dan Brown e di tutti coloro che romanzano e hanno romanzato intorno a questo o altri temi in qualche modo connessi con la Chiesa e la religione? «Neanche per sogno. Non servirà a fermare niente. Forse che non si continua a credere fermamente in maghi e streghe? La gente sembra abbia bisogno di immaginare misteri e dietrologie. E dunque continueranno a fiorire leggende intorno a fatti e personaggi». Ma perché proprio intorno all' Ordine del Tempio è stato ricamato così tanto? «Penso che la leggenda sia nata posteriormente, attorno al XVI secolo, quando si diffuse quella del Graal, con la quale si intrecciò. Come dimostrano i documenti, il processo fu, infatti, pubblico e niente affatto misterioso e i supposti misfatti di cui erano accusati i cavalieri, come i riti di iniziazione sodomiti, vennero confutati. Quanto all' altra grande accusa, lo sputo sulla croce, era una pratica prevista ai tempi delle Crociate, e a chi veniva catturato dai saraceni il gesto di abiura era permesso purché esteriore e non fatto con il cuore, ore, non corde (parole senza convincimento, ndr)». Però le ricchezze dell' Ordine erano reali. «Certamente, altrimenti Filippo il Bello, alla frenetica ricerca di fondi per la guerra contro l' Inghilterra, non avrebbe avuto motivo di mettere in piedi il processo. Probabile che la cassa dei Templari sia cresciuta su beni di famiglia dei cavalieri, su donazioni, forse anche spoliazioni, nonché sulla sua buona amministrazione». Nella lotta tra re e papato quale, in un certo senso, fu il processo, come mai alla fine il re ebbe comunque la meglio, tanto che l' Ordine, decapitato del suo stato maggiore e privato dei suoi mezzi, decadde? «Non bisogna dimenticare che Clemente V non stava a Roma, bensì ad Avignone, non prigioniero ma comunque in stato di soggezione. E può anche essere che temesse il male maggiore, cioè uno scisma. Quanto alla decadenza dei Templari, chi mai poteva esser ancora interessato a fare parte di un Ordine squattrinato e, quel che faceva più paura, in odore di eresia? Se poi tale Ordine sia davvero estinto, non saprei, perché su Internet se ne possono trovare a decine e ciascuno sostiene di essere quello vero». In questo archivio ci sono altri documenti che potrebbero appassionare non soltanto gli storici. «Sono innumerevoli. Abbiamo, per esempio, scritti riguardanti Federico Barbarossa o Federico II, e abbiamo le lettere di Lucrezia Borgia». Anche materiale riguardante Pio XII e il suo rapporto con il regime nazista? «Certamente. Solo che è ancora materiale "chiuso". Finora sono consultabili i documenti che arrivano fino al 1939. Trattandosi di un papato assai lungo, le carte da riordinare e catalogare sono numerosissime. Una volta terminato il lavoro di preparazione, toccherà poi al Papa decretarne l' apertura». Chi ha accesso a questo Archivio? «Chiunque ne abbia il titolo scientifico. Non curiosi, ma studiosi, di tutto il mondo. Ci vuole almeno una laurea insomma. E per gli italiani non basta la triennale, occorre quella quinquennale».
Bossi Fedrigotti Isabella

venerdì 27 luglio 2007

La vera storia delle Crociate

di Thomas F. Madden, tratto da: Crisis Magazine, vol. 20 n. 4 - aprile 2002
Uno storico Usa smonta i luoghi comuni su un periodo controverso della storia del cristianesimo
Le crociate sono ormai un prototipo di orrore della storiaGli equivoci sulle Crociate sono fin troppo comuni. Vengono ritratte come una serie di guerre sante contro l’Islam, generalmente lanciate da papi assetati di potere e condotte da fanatici religiosi. Si pensa che siano state il culmine dell’ipocrisia e dell’intolleranza, una macchia nera sulla storia della Chiesa cattolica in particolare e della civiltà occidentale in generale. Razza di proto-imperialisti, i crociati aggredirono un Medio Oriente pacato e deformarono una cultura musulmana illuminata, lasciando solo rovine. Per trovare variazioni su questo tema non c’è bisogno di guardare troppo lontano. Si veda, per esempio, il famoso poema epico in tre volumi di Steven Runciman, Storia delle Crociate, o il documentario Bbc/A&E, Le Crociate, commentato da Terry Jones. Sono prototipi di storia terribile, e intrattengono tuttora a meraviglia.Furono guerre difensiveInsomma qual è la verità sulle Crociate? Gli studiosi ci stanno ancora lavorando su. Ma molto può già esser detto con certezza. Intanto, le Crociate contro l’Oriente furono in ogni caso guerre difensive. Rappresentavano una risposta diretta alle aggressioni musulmane, un tentativo di arginare e controbattere la conquista musulmana di terre cristiane.I cristiani dell’undicesimo secolo non erano fanatici paranoici. Dai musulmani bisognava realmente difendersi. Sebbene gli arabi sappiano essere pacifici, l’Islam nacque in guerra e crebbe nello stesso modo. Dal tempo di Maometto, la politica di espansione musulmana consistette sempre nella spada. Il pensiero musulmano divide il mondo in due sfere, la Dimora dell’Islam e la Dimora della Guerra. La Cristianità - e, se è per questo, ogni religione non musulmana - non ha dimora alcuna. Cristiani ed ebrei possono essere tollerati all’interno di un stato musulmano, sotto la legge musulmana. Ma, nell’Islam tradizionale, cristiani ed ebrei devono essere distrutti, e le loro terre conquistate. Quando Maometto stava per intraprendere la guerra contro La Mecca, nel settimo secolo, il Cristianesimo era la religione dominante. In quanto fede dell’Impero romano, attraversava il Mediterraneo intero, incluso il Medio Oriente dove nacque. Il mondo cristiano, perciò, era il primo obiettivo dei primi califfi, e tale sarebbe rimasto per i condottieri musulmani dei successivi mille anni.L’espansione militare dell’Islam e la richiesta di aiuto da CostantinopoliCon formidabile energia, i guerrieri dell’Islam si avventarono contro i cristiani subito dopo la morte di Maometto. Ebbero successo. Palestina, Siria ed Egitto – un tempo le aree più fervidamente cristiane del mondo – soccombettero rapidamente. Nell’ottavo secolo, gli eserciti musulmani avevano conquistato tutto il nord cristiano dell’Africa e la Spagna. Nell’undicesimo secolo, i turchi selgiucidi conquistarono l’Asia Minore (la Turchia moderna), cristiana fin dal tempo di san Paolo. Il vecchio Impero romano, noto ai moderni come Impero bizantino, fu ridotto ad uno spazio geografico inferiore a quello dell’attuale Grecia. Disperato, l’imperatore di Costantinopoli spedì missive ai cristiani dell’Europa occidentale, chiedendo aiuto per i loro fratelli e le loro sorelle dell’Est.Questo è quanto fece nascere le Crociate. Non il progetto di un papa ambizioso o i sogni di cavalieri rapaci, ma una risposta a più di quattro secoli di conquiste, con le quali i musulmani avevano già fatti propri i due terzi del vecchio mondo cristiano. A quel punto, il Cristianesimo come fede e cultura doveva o difendersi o lasciarsi soggiogare dall’Islam. Le Crociate non furono altro che questa difesa.Mobilitazione cristianaPapa Urbano II fece appello ai cavalieri della Cristianità, per respingere gli attacchi dell’Islam, al Concilio di Clermont del 1095. La risposta fu sbalorditiva. Molta migliaia di guerrieri fecero il voto della croce e si prepararono alla guerra. Perché lo fecero ? La risposta a questa domanda è stata malamente fraintesa. Sulla scia dell’Illuminismo, era d’uso asserire che i crociati non fossero altro che fannulloni e ladri di galline, pronti a trarre profitto dall’opportunità di razziare e saccheggiare terre lontane. I sentimenti, testimoniati dai crociati stessi, di pietà, di abnegazione e d’amore per Dio, non erano evidentemente da tenere in considerazione. Furono reputati mera facciata, a nascondere oscuri disegni.Le motivazioni dei crociatiDurante le due decadi passate accurati studi, condotti anche con l’ausilio del computer, hanno demolito questa invenzione. Gli studiosi hanno scoperto che i cavalieri crociati era nobiluomini, per lo più ricchi, e provvisti di larghe proprietà terriere in Europa. Ciononostante, abbandonarono tutto per intraprendere una missione santa. Fare una crociata non era cosa da quattro soldi. Anche i ricchi avrebbero potuto facilmente impoverire, rovinando loro stessi e le loro famiglie, nell’unirsi ad una Crociata. Non facevano così perché si aspettassero ricchezze materiali (che molti di loro già avevano), ma perché contavano su tesori che il tarlo non sbriciola e che la tignola non corrode. Erano acutamente consapevoli dei loro peccati ed ansiosi di intraprendere le fatiche della Crociata come un atto penitenziale di carità e d’amore. L’Europa è letteralmente stipata di carteggi medievali che attestano questi sentimenti, carteggi nei quali questi uomini ancor oggi ci parlerebbero, se noi ascoltassimo. Chiaramente, non si sarebbero rifiutati di accettare un bottino, potendolo avere. Ma la verità è che le Crociate si rivelarono scarse, quanto all’entità dei saccheggi. Alcuni si arricchirono, è vero, ma la stragrande maggioranza dei crociati tornò a casa con nulla in tasca.I due obiettivi della Prima Crociata, concepita come “pellegrinaggio”Urbano II diede ai crociati due mete che sarebbero rimaste prioritarie per secoli, nelle Crociate orientali. La prima era liberare i cristiani dell’Est. Così ebbe a scrivere il suo successore, Papa Innocenzo III:«Come può l’uomo che ama, secondo il precetto divino, il suo prossimo come se stesso, sapendo che i suoi fratelli di fede e di nome sono tenuti al confino più stretto dai perfidi musulmani e gravati della servitù più pesante, non dedicarsi al compito di liberarli? [...] Forse non sapete che molte migliaia di cristiani sono avvinte in ceppi ed imprigionate dai musulmani, torturate con tormenti innumerabili?»”Fare una crociata – il professor Jonathan Riley-Smith ha detto magistralmente – era vissuto come un atto di amore”. In questo caso, l’amore del proprio prossimo. La Crociata fu considerata uno strumento della misericordia per raddrizzare un male terribile. Come Papa Innocenzo III scrisse ai Templari, “Voi traducete in atti le parole del Vangelo, secondo cui non c’è amore più grande di quello dell’uomo che offre la sua vita in cambio di quella dei suoi cari”.La seconda meta fu la liberazione di Gerusalemme e degli altri luoghi resi santi dalla vita di Cristo. Il termine “crociata” è moderno. I crociati medievali si consideravano pellegrini, nel loro eseguire atti di rettitudine lungo la via che mena al Santo Sepolcro. L’indulgenza ricevuta per la partecipazione alle Crociate fu equiparata canonicamente all’indulgenza per il pellegrinaggio. Tale meta era spesso descritta in termini feudali. Nell’indire la quinta Crociata, nel 1215, Innocenzo III scrisse:«Considerate, carissimi figli, considerate attentamente come, se qualche re temporale venisse deposto e magari catturato, qualora venga restituito alla sua libertà originaria e giunga il tempo di far calare l’occhio della giustizia sui suoi vassalli, non li guarderà come infedeli e traditori [...] a meno che non si tratti di coloro che hanno rischiato non solo le loro proprietà, ma le loro stesse persone, nel votarsi al compito di liberarlo? [...] E similmente Gesù Cristo, il re dei re e il signore dei signori, il cui servitore nessuno di voi può negare di essere, colui che congiunse la vostra anima al vostro corpo, colui che vi riscattò col Prezioso Sangue [...] non vi condannerà per il vizio dell’ingratitudine ed il crimine dell’infedeltà, se voi rifiutate di aiutarLo?»Nessuna mira colonialista…La riconquista di Gerusalemme, perciò, non fu colonialismo ma un atto di restaurazione ed un’aperta dichiarazione d’amor di Dio. Gli uomini del Medio Evo sapevano, evidentemente, che Dio aveva il potere di ricondurre Gerusalemme alla situazione precedente, che aveva il potere di far tornare il mondo intero alla Sua Legge. Eppure, come san Bernardo di Chiaravalle era solito predicare, il Suo rifiuto di far così non era che una benedizione alla Sua gente:«Di nuovo, io dico, pensate alla bontà dell’Altissimo e ponete attenzione ai Suoi misericordiosi progetti. Egli si pone in obbligo nei vostri confronti, o piuttosto finge di fare così, per aiutarvi a soddisfare i vostri obblighi verso di Lui [...]. Io chiamo benedetta la generazione che può cogliere un’occasione di indulgenza così ricca come questa».… e neanche di conversione forzata di musulmaniSpesso si ritiene che l’obiettivo centrale delle Crociate fosse la conversione forzata del mondo musulmano. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Nella prospettiva cristiana medievale, i musulmani erano i nemici e di Cristo e della Sua Chiesa. Compito dei crociati era sconfiggerli e difendere la Chiesa contro di loro. Questo era tutto. Ai musulmani dimoranti nei territori conquistati dai crociati generalmente fu concesso di conservare le loro proprietà, il loro sostentamento, e perfino la loro religione. In tutta la storia del Regno crociato di Gerusalemme, il numero degli abitanti musulmani superò abbondantemente quello dei cattolici. Fu solo nel 13° secolo che i francescani intrapresero qualche tentativo di conversione dei musulmani. Tentativi senza successo, infine abbandonati. In ogni caso, si trattò di persuasione pacifica, non di minacce o addirittura di violenza.La guerra e i suoi tristi “effetti collaterali”Tuttavia le Crociate erano guerre, sicché sarebbe un errore pensarle solo pietà e buone intenzioni. Come in ogni guerra, la violenza era brutale (anche se non brutale come nelle guerre moderne). Ci furono sventure, errori gravi e crimini. Cose ben ricordate oggi, di solito. All’inizio della prima Crociata, nel 1095, un gruppo di crociati, condotti dal conte Emicho di Leiningen, si aprì la strada lungo il Reno derubando e assassinando tutti gli ebrei incontrati. Senza successo, i vescovi locali tentarono di fermare questa strage. Agli occhi di questi guerrieri, gli ebrei, come i musulmani, erano i nemici di Cristo. Depredarli ed ucciderli, pertanto, non era peccato. Effettivamente, credevano trattarsi di un atto retto, potendo i soldi degli ebrei essere usati per finanziare la Crociata verso Gerusalemme. Ma avevano torto, e la Chiesa condannò fermamente le ostilità contro gli ebrei.San Bernardo a difesa degli ebreiCinquant’anni dopo, quando la Seconda Crociata stava già per muoversi, san Bernardo proclamava che gli ebrei non sarebbero stati perseguitati:«Chiedete a chiunque conosca le Sacre Scritture cosa si auspica, per gli ebrei, nel Salmo. “Non per la loro distruzione io prego” sta scritto. Gli ebrei sono per noi le parole viventi della Scrittura, ci ricordano ciò di cui sempre soffrì il nostro Dio [...]. Sotto i prìncipi cristiani sopportano una prigionia dura, ma “aspettano solamente il tempo della loro liberazione.».Ciononostante un certo Radulf, un monaco cistercense, aizzò parecchia gente contro gli ebrei di Rhineland, nonostante le numerose lettere inviategli da Bernardo, per fermarlo. Infine Bernardo fu costretto a recarsi personalmente in Germania, dove prese Radulf, lo spedì di nuovo nel suo convento, e fece finire i massacri.Nessun intento persecutorio contro gli ebreiSpesso si dice che le radici dell’Olocausto possono essere rintracciate in questi pogrom medievali. Può essere. Tuttavia queste radici affondano molto più indietro nel tempo, sono più profonde e più estese dei tempi delle Crociate. Ebrei perirono, durante le Crociate, ma lo scopo delle Crociate non era quello di uccidere ebrei. E’ vero esattamente il contrario: papi, vescovi e predicatori assicurarono che gli ebrei d’Europa non sarebbero stati molestati. Nella guerra moderna chiamiamo le tragiche morti come queste “danno collaterale”. Gli Stati Uniti hanno ucciso, con le tecnologie intelligenti, molti più innocenti di quanti i crociati avrebbero mai potuto uccidere. Ma nessuno oserebbe dire seriamente che lo scopo delle guerre americane è uccidere donne e bambini.Prima Crociata: una disorganizzazione di successoDa qualsiasi punto di vista la si osservi, la prima Crociata fu un gran colpo. Non c’era nessun leader, nessuna catena di comando, nessuna linea di approvvigionamento, nessuna strategia particolareggiata. Fu semplicemente l’avanzata di migliaia di guerrieri in territorio nemico, impegnati in una causa comune. Molti di loro morirono, o in battaglia o per malattia o di fame. Fu una campagna improvvisata, sempre sull’orlo del disastro. Eppure ebbe successo. Nel 1098 i crociati avevano ripristinato in Nicea ed Antiochia la legge cristiana. Nel luglio 1099 conquistarono Gerusalemme e gettarono le fondamenta di uno stato cristiano in Palestina. La gioia in Europa non conobbe freni. Sembrò che la marea della storia, che aveva alzato i musulmani a tali altezze, ora stesse girando.Rapida ripresa dell’IslamMa così non fu. Quando pensiamo al Medio Evo ci è facile vedere l’Europa alla luce di quello che è divenuta, anziché di quello che era. Il colosso del mondo medievale era l’Islam, non la Cristianità. Le Crociate sono particolarmente attraenti perché rappresentano un tentativo di contrastare quel colosso. Ma, in cinque secoli di Crociate, solamente la prima arrestò significativamente l’avanzata islamica. Poi tornò la bassa marea.Disastrosa Seconda CrociataQuando la Contea crociata di Edessa cadde in mano a turchi e curdi, nel 1144, si manifestò un vasto consenso per una nuova Crociata, in Europa. Lo promossero due re, Luigi VII di Francia e Corrado III di Germania, e lo sostenne nelle sue predicazioni san Bernardo stesso. Fallì miseramente. La maggior parte dei crociati fu uccisa lungo la strada. Quelli che arrivarono a Gerusalemme fecero la peggior cosa possibile, attaccando la Damasco musulmana, già forte alleata dei cristiani. In seguito a tale disastro i cristiani europei furono costretti ad accettare non solo la rinnovata espansione del potere musulmano, ma la certezza che Dio stesse castigando l’Occidente per i suoi peccati. Movimenti pietistici laici germogliarono in tutta Europa, radicati nel desiderio di purificare la società cristiana, per renderla degna della vittoria sull’Oriente.Saladino riconquista GerusalemmeLanciare una crociata nel tardo dodicesimo secolo, perciò, significò organizzare una guerra senza quartiere. Ognuno, anche debole o povero, fu invitato a prodigarsi. Ai guerrieri si chiese di sacrificare le loro ricchezze e, in caso, le loro vite, per la difesa dei cristiani d’Oriente. Tutti i cristiani furono chiamati a sostenere le Crociate tramite preghiere, digiuni ed elemosine. Nel frattempo i musulmani si accrescevano. Il Saladino, il grande unificatore, aveva inglobato il musulmano Medio Oriente in una sola entità, incitando alla guerra santa contro i cristiani. Nel 1187, nella Battaglia di Hattin, le sue forze annientarono gli eserciti alleati del Regno cristiano di Gerusalemme e trafugarono la preziosa reliquia della Vera Croce. Indifese, le città cristiane cominciarono a cedere una alla volta, fino alla resa di Gerusalemme, il 2 ottobre. Si salvò solo, lungo il litorale, qualche porto.Terza Crociata tutta sulle spalle di Riccardo “Cuordileone”La risposta fu la terza Crociata, condotta dall’imperatore Federico I “Barbarossa” di Germania, re Filippo II Augusto di Francia e re Riccardo I “Cuordileone” d’Inghilterra. In qualche misura era una grande cosa, pur non grande come i cristiani avevano sperato. L’anziano Federico annegò nell’attraversare un fiume a cavallo, dimodoché il suo esercito tornò a casa prima ancora d’aver raggiunto la Terra Santa. Filippo e Riccardo arrivarono in nave, ma i loro incessanti alterchi aggiunsero ulteriori contrasti alla già critica situazione della terra di Palestina. Dopo avere riconquistato Acre (Akka), Filippo tornò a casa, dove si dedicò alla confisca dei possedimenti inglesi in Francia. Così il peso della Crociata gravò sulle sole spalle di re Riccardo. Guerriero esperto, capo carismatico e superbo stratega, Riccardo condusse le forze cristiane di vittoria in vittoria, appropriandosi dell’intera costa. Ma Gerusalemme non è sulla costa; dopo due tentativi falliti di aprirsi un varco verso la Città Santa, Riccardo desistette. Promettendo di ritornare, stipulò una tregua col Saladino, tregua che prometteva pace nella regione ed ingresso gratuito in Gerusalemme per i pellegrini disarmati. Ma restò una pillola amara da ingoiare. Il desiderio di ricondurre Gerusalemme alla legge cristiana e di riottenere la Vera Croce rimase intenso in tutta Europa.La Quarta Crociata provocò una grave frattura tra cattolici e ortodossiLe Crociate del 13° secolo furono più grandi, meglio predisposte e meglio organizzate. Ma fallirono egualmente. La quarta Crociata (1201-1204) si insabbiò nelle secche della politica bizantina, sempre incomprensibile agli occidentali. Dopo una deviazione fino a Costantinopoli per sostenere il legittimo pretendente al trono imperiale, che aveva promesso grandi ricompense e un sostegno per la Terra Santa, i crociati scoprirono che il loro benefattore, benché erede del trono dei Cesari, non poteva mantenere le sue promesse. Sentitisi traditi dai loro amici greci, nel 1204 i crociati attaccarono, fecero cadere e brutalmente saccheggiarono Costantinopoli, la più grande città cristiana nel mondo. Papa Innocenzo III, che già aveva scomunicato l’intera crociata, denunciò fermamente tale azione. Ma c’era ben poco da fare. I tragici eventi del 1204 eressero una porta di ferro tra il credo cattolico romano e quello greco ortodosso, una porta che lo stesso papa attuale, Giovanni Paolo II, è stato incapace di riaprire. Per un’ironia terribile le Crociate, nate dal desiderio cattolico di riunirsi agli ortodossi, divisero - forse irrevocabilmente - gli uni dagli altri.Con la fine del 13° secolo i cristiani scomparvero dalla TerrasantaNel resto del 13° secolo le Crociate fecero poco di più. La quinta Crociata (1217-1221) riuscì a liberare Damietta, in Egitto, ma i musulmani di lì a poco sconfissero l’esercito cristiano e rioccuparono la città. San Luigi IX di Francia, nell’arco della sua vita, condusse due Crociate. La prima fece capitolare Damietta, ma Luigi, ben presto raggirato dalla sottile diplomazia egiziana, si trovò costretto ad abbandonare la città. Del resto Luigi, sebbene fosse rimasto in Terra Santa per molti anni, spendendo a profusione in lavori difensivi, non realizzò mai il suo desiderio: liberare Gerusalemme. Era molto più vecchio nel 1270, quando capitanò un’altra Crociata a Tunisi, dove morì a causa di un’epidemia. Dopo la morte di san Luigi, due spietati condottieri musulmani, Baybars e Kalavun, lanciarono una brutale rappresaglia contro i cristiani in Palestina. Nel 1291, le forze islamiche erano riuscite ad uccidere o ad espellere dalla regione anche l’ultimo dei crociati, cancellando così il Regno cristiano dalle carte geografiche.Ad onta dei numerosi tentativi e degli ancor più numerosi progetti, le forze cristiane non furono più in grado di assicurarsi una posizione sicura, nella regione, fino al 19° secolo.In Europa paura dei musulmani È probabile che qualcuno pensi che tre secoli di sconfitte cristiane avrebbero intiepidito gli europei, nei confronti dell’idea di Crociata. Tutt’altro. Nel senso che non c’erano alternative. I regni musulmani divennero ancora più potenti nel 14°, 15° e 16° secolo. I turchi ottomani sottomisero, in una sorta di annessione, i loro vicini musulmani, unificando così ulteriormente l’Islam, continuarono le loro incursioni verso occidente, presero Costantinopoli e penetrarono nella stessa Europa. Dal 15° secolo in avanti le Crociate non furono strumenti di misericordia per fratelli distanti, ma tentativi disperati di qualche ultimo resto di cristianità di sopravvivere. Gli europei cominciarono a prospettarsi la possibilità che l’Islam realizzasse il suo obiettivo di conquistare tutto il mondo cristiano. Uno dei grandi successi del tempo, La Nave dei Pazzi, di Sebastian Brant, diede voce a questo sentimento in un brano intitolato “Il Declino della Fede”:La nostra fede era forte in Oriente,/ dominava tutta l’Asia, / le terre moresche e l’Africa. / Ma ora per noi queste terre sono perdute / e ciò farebbe piangere la pietra più dura [...]. / Potevi trovare quattro sorelle della nostra Chiesa, / sorelle patriarcali, / Costantinopoli, Alessandria, / Gerusalemme e Antiochia. / Ma sono state prese e saccheggiate / e presto anche la testa sarà attaccata.L’Europa respinse le invasioniNaturalmente questo non è successo. Ma c’è mancato poco. Nel 1480, il sultano Mehmed (Maometto) II catturò Otranto, a mo’ di testa di ponte per l’invasione dell’Italia. Roma fu evacuata. Ma il sultano morì poco dopo e, con lui, il suo piano. Nel 1529, Suleiman (Solimano) il Magnifico strinse d’assedio Vienna. Se non fosse stato per i capricci del tempo meteorologico, che bloccarono la sua avanzata e lo costrinsero a tornare indietro, abbandonando buona parte della sua artiglieria, i turchi avrebbero preso la città. E la Germania, allora, sarebbe stata facile preda.Inoltre, mentre questi frangenti si succedevano, qualcosa d’altro stava fermentando in Europa, qualcosa senza precedenti nella storia umana. Il Rinascimento, originato da una equivoca mistura di valori romani, di pietà medievale e di inedito rispetto verso il commercio e la libera imprenditoria, generò altri movimenti come l’umanesimo, la rivoluzione scientifica e l’età delle esplorazioni. Pur lottando per la sua stessa sopravvivenza, l’Europa stava per espandersi su scala globale. La Riforma protestante, che rifiutò il papato e la dottrina dell’indulgenza, rese impensabili le Crociate a molti europei, lasciando così l’onere della difesa dell’Occidente ai soli cattolici. Nel 1571 una Santa Lega, che di fatto non era che una Crociata, sgominò la flotta ottomana a Lepanto. Riscossa occidentale con l’economiaTuttavia vittorie militari del genere restarono un’eccezione. La minaccia musulmana fu neutralizzata economicamente. Quando l’Europa crebbe in ricchezza ed in potenza, i primi terrificanti e raffinati turchi cominciarono a sembrare patetici ed arretrati, al punto da rendere inutile una Crociata. “L’ammalato Uomo d’Europa” andò avanti zoppicando fino al 20° secolo, quando spirò, lasciando dietro di sé l’attuale disastro del Medio Oriente moderno.Ingiusti giudizi dei contemporaneiDalla sicura distanza di molti secoli, è abbastanza facile aggrottare le ciglia, disgustati dalle Crociate. La religione, in fondo, è nulla, se si basa sulla guerra. Eppure dovremmo pensare che i nostri antenati medievali sarebbero stati a loro volta disgustati dalle nostre guerre, molto più distruttive, combattute in nome di ideologie politiche. Ed ancora, dovremmo pensare che sia il guerriero medievale che il soldato moderno infine combattono per il proprio mondo e per ciò che lo costituisce. Entrambi sono disposti a sopportare enormi sacrifici, purché ciò sia al servizio di qualcosa di caro, di prezioso, di più grande di loro. Che noi ammiriamo i crociati o no, è un fatto che il mondo così come noi lo conosciamo oggi non esisterebbe, senza i loro sforzi. La fede antica del Cristianesimo, col suo rispetto per le donne ed il suo rifiuto della schiavitù, non solo sopravvisse, ma fiorì. Senza le Crociate, avrebbe ben potuto seguire lo zoroastrismo, un altro rivale dell’Islam, nell’estinzione.

lunedì 23 luglio 2007

Dalla parte di Papa Benedetto

André Glucksmann si schiera al fianco del pontefice per un’alleanza tra fede e ragione
di Andrè Glucksmann
A Ratisbona ha smascherato il nichilismo
Il discorso di Ratisbona, raccomandando l’«autocritica», non attribuisce affatto soltanto ai musulmani la facoltà di scivolare nel fanatismo di una fede che rifiuta l’ausilio della ragione. Il riferimento a Duns Scoto, per il passato, e ai nichilisti di oggi indica quanto il rischio di una trasgressione fondamentale non risparmi nessuno, credente o non credente. Di qui il richiamo a ricentrare il dialogo delle religioni e il confronto dei credenti con gli agnostici: non accontentarsi dei voti che per essere pii rischiano di rimanere vuoti. Il discorso di Ratisbona, quindi, invitava a non limitarsi a pregare insieme, nascondendo quello che dilania e separa gli uomini di fede nonostante la loro buona volontà così imperturbabilmente manifestata. Ponendo l’accento sulla necessità di esaminare in modo franco gli argomenti che irritano e i bagni di sangue nei quali annegano le nostre professioni di fede, Benedetto XVI resta fedele all’esortazione di Giovanni Paolo II, «non abbiate paura!». (...) Una fede che ignori o eviti la modesta ragione filosofica rischia di trovarsi in balia di una violenza cieca. L’alternativa ragione-violenza non oppone le religioni una contro l’altra ma pone ognuna contro se stessa. L’imperativo della conoscenza di sé non riguarda le scelte passate e superate, ma le decisioni urgenti e presenti. Quello che oggi, affascinati dall’Islam e dall’islamismo, chiamiamo «risveglio» delle religioni o «ritorno» della fede manifesta l’esatto contrario. L’Islam subisce una sorta di kidnapping, di Opa; le sue convinzioni più sincere sono deviate e confiscate da un culto della morte terrificante. Nel XX secolo il cristianesimo europeo ha conosciuto un fenomeno simile. In due riprese. Nella prima, durante la Prima guerra mondiale, i belligeranti hanno combattuto pretendendo che Dio li sostenesse. Ricordate Berlino nel 1914: la dichiarazione di guerra viene annunciata alla porta di Brandeburgo, il popolo non intona «Deutschland uber Alles», ma un cantico di Lutero musicato da Johann Sebastian Bach. Reciprocamente, quando Benedetto XV, durante la Grande guerra, chiede il cessate il fuoco, si scontra contro la «sacra unione» dei fratelli nemici, i vescovi cattolici tedeschi, francesi e belgi lo bocciano. Seconda esperienza: silenzio e impotenza del cristianesimo di fronte alla barbarie nazista. In passato due rinunce sono state la disgrazia dell’Europa: uccidere in nome di Dio e chiudere gli occhi. Un tale nichilismo omicida e suicida imperversa di nuovo nell’attualità planetaria. Oggi come ieri, dei giusti, degli eroi, dei santi, spesso dei semplici cittadini resistono. (...) Il discorso di Ratisbona, lungi dal costituire un’improvvisazione ispirata dall’attualità, addirittura una provocazione, come è stato affermato, tocca il punto più profondo del testo biblico e delle meditazioni insondabili delle tre religioni del Libro. Chi uccide in nome di Dio può essere sia chi crede in Dio sia chi non crede. Se crede, si istituisce luogotenente di un potere arbitrario e privo di ragione; egli confonde Dio e Tifone e si permette di tutto. Se non crede, uccide in sé la ragione e si erge a supremo Tifone che non si vieta nulla. In entrambi i casi, l’oblio della ragione in cielo e in terra sopprime ogni differenza tra collera dall’alto e collera dal basso, identifica orgogliosamente uomo e divinità, sopprime la possibilità di distinguere bene e male. La letteratura del XIX secolo, per lo più russa, ha esplorato in anticipo il vicolo cieco di una eliminazione definitiva dei divieti verso cui si precipiteranno, a testa bassa, un gran numero di posseduti del XX e del XXI secolo. (...) Ogni confessione deplora naturalmente che le altre non condividano i suoi ideali e la sua visione di Bene supremo. Per lungo tempo la ragione europea ha approfittato della pluralità dei servizi divini e del relativismo che ne deriva, pronta a instaurarsi come legislatrice e a sostituirsi alla fede, legittimandosi come religione assoluta. Questo era l’obiettivo dell’idealismo tedesco del XIX secolo, dei suoi epigoni e continuatori. A partire dalla collaborazione di Platone con Dioniso, tiranno di Siracusa, fino alle peggiori compromissioni degli zeloti di Lenin, Stalin o Hitler, l’orgoglio trascendentale, che inghiotte in un solo boccone sia la ragione che la fede, ci fa precipitare di catastrofe in catastrofe. Nel XXI secolo, alla fine postmoderna dei grandi racconti ideologico-storici, il nichilismo prospera nelle piaghe della filosofia, proclamando non soltanto la relatività dei beni e dei valori, ma più radicalmente la relatività del male. Da qui l’arbitrio irriducibilmente culturalista e di parte della nostra definizione di inumano. Violentare, perché no? Purificare etnicamente, perché no? Il genocidio, perché no? Uccidere padre e madre, fratello e sorella, why not? Il suicidio della ragione socratica genera mostri. «Uccidi il prossimo tuo come te stesso!». L’imperativo nichilista oltrepassa allegramente i confini geografici e geopolitici. Esso copre ormai l’intero ventaglio delle violenze possibili e fa proliferare il massacro degli innocenti. Dalla bomba umana individuale, santificata come «bomba atomica dei poveri», fino alle armi di distruzione di massa a disposizione di personaggi che si fanno notare per la loro grande irresponsabilità, le minacce si moltiplicano. Il XX secolo ancora distingueva la capacità tecnica di porre fine alla storia umana (Hiroshima) dalla capacità spirituale di incidere senza scrupoli nella carne (Auschwitz). Hitler non ha mai posseduto la bomba e gli americani, che l’hanno costruita per resistergli, da parte loro non hanno mai ammesso una ideologia di morte. Stalin stesso, fortemente scosso per il rischio di crollo scampato dal suo potere nel 1941, non si è mai azzardato a trasgredire i due tabù della dissuasione. Ecco perché la Guerra fredda è rimasta fredda. Questi due divieti, che impongono ritegno e prudenza, tengono sempre meno a freno i furori di guerra. Il ricordo di Hiroshima si offusca, la memoria di Auschwitz viene contraddetta e banalizzata. La percezione del male è derisa. Da un lato vi sono gli Stati padrini, dotati dell’arma assoluta, che si considerano santuarizzati; dall’altro, le organizzazioni terroriste senza legge né scrupoli; fra i due, un nichilismo generalizzato tesse una tela patogena. Ragione e fede devono far emergere insieme una sfida nuova: il nichilismo trasforma la forza di fare in capacità di disfare e la volontà di potere in volontà di nuocere. La religione ha bisogno di una ragione autonoma che non saprebbe sostituirsi a essa. Esercitando una funzione rettrice in un campo interamente sottomesso alla sua giurisdizione, quello delle virtù teologali (fede, speranza, carità), la religione si avvicina maggiormente alla ragione nel campo più secolare delle virtù chiamate cardinali. (...) Il nichilismo si sforza di rendere il male non visibile né dicibile né pensabile. Contro una simile devastazione mentale e mondiale, la lezione di Ratisbona richiama «la fede biblica» e «gli interrogativi della filosofia greca» a rinnovare senza concessioni una alleanza che mi auguro sia definitiva e vittoriosa.
«Corriere della sera» del 14 luglio 2007

Ma Dio non è violenza

Il filosofo Spaemann mette in guardia da chi accusa le religioni di fomentare l’odio e il terrore: all’origine dei tre monoteismi vi è una divinità che si rivolge all’uomo attraverso il «logos». La ragione, dunque, appartiene al credente in quanto relazione con l’altro. Chi rifiuta questa dimensione dialogica apre la strada alla conflittualità
di Robert Spaemann
«Troppo spesso ancora nel mondo musulmano vince la via sanguinaria. Anche l’islam deve intraprendere la strada del dialogo comune»
Non è un caso che il discorso di Regensburg abbia aperto un controverso dialogo con l'Islam. Senza il colpo di avvertimento costituito dalla citazione di un imperatore bizantino, più di trenta famosi professori islamici forse non avrebbero mai pensato di accettare l'invito al dialogo, di prenderlo sul serio, di rispondere gentilmente e di cominciare subito ad avanzare delle critiche invece dei soliti scambi di cortesie. Che altri musulmani abbiano reagito con un atto di violenza sanguinaria conferma che la questione del rapporto fra fede e violenza resta per l'Islam un problema aperto. Il Papa ha facilitato l'apertura di un dialogo serio ammettendo senza infingimenti apologetici che anche la cristianità ha avuto questo problema per tanto tempo e che spera che l'Islam compia lo stesso processo di apprendimento che ha compiuto la Chiesa. Oggetto di tale dialogo sarà verificare se il Corano favorisca un tale processo allo stesso modo del Nuovo Testamento. Metterlo inizialmente in dubbio fa parte di un onesto inizio di dialogo.Ci si potrebbe chiedere perché bisogna discuterne e forse scontrarsi. Se i musulmani avessero un altro Dio rispetto ai cristiani un tale scontro sarebbe privo di senso. I cristiani potrebbero solo ribadire che non credono all'esistenza di quel Dio. In effetti tanti cristiani ritengono che Allah sia un altro Dio rispetto a quello dei cristiani. Se fosse così non avrebbe alcun senso scontrarsi rispettosamente su come si debba pensare e parlare correttamente di Dio. Ma in conformità col suo grande predecessore medievale Gregorio VII e col Concilio Vaticano II, Benedetto XVI parte dal presupposto che gli ebrei, i cristiani e i musulmani pregano lo stesso Dio uno e unico.La lezione magistrale di Regensburg parla soprattutto della differenza che nel mondo di oggi salta agli occhi. Essa riguarda il tema «Dio e violenza». Ricollegandosi alle riflessioni di un imperatore bizantino, il Papa collega questo all'altro tema: «Dio e ragio ne». La ragione è quello step beyond ourselves la cui possibilità la modernità nega. Ho cercato, riferendomi a Nietzsche, di mostrare che questa possibilità dipende dall'esistenza di Dio e proprio di un Dio che nella sua essenza è luce. La ragione dunque non è uno strumento di sopravvivenza dell'homo sapiens, ma partecipazione alla luce divina e un vedere il mondo in questa «luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9). Questa luce, come dice Platone, fa vedere il bene come il koinon, «ciò che è comune a tutti» (cfr. Platone, Fedone). Non a caso Eraclito parla a questo riguardo del logos, e logos significa anche «parola».Soltanto attraverso la parola, soltanto attraverso la lingua, attraverso il parlare con gli altri, noi ragioniamo. La violenza però è l'esatto contrario del parlare con gli altri. Lo scopo del discorso è l'intesa tramite la comune sottomissione al criterio del vero, lo scopo della violenza è la sottomissione dell'altro alla volontà di colui che si dimostra fisicamente più forte. Michel Foucault, che nega l'intelligibilità del mondo, deve di conseguenza minimizzare la differenza tra dialogo e violenza. Siccome non esiste un qualcosa che sia verità, anche nel dialogo può trattarsi solo di misurare le forze nella lotta per il potere. Così già pensavano d'altronde i sofisti con i quali si scontrò Socrate. Soltanto quando si dà verità come koinon si dà un'alternativa alla violenza. Il criterio della forza fisica non ha nulla a che fare con quello della verità. E la vittoria nello scontro violento solo per caso può anche essere la vittoria del migliore. C'è la forza legittima dello Stato, la cui ragione risiede nell'impedire la violenza tra gli individui, c'è la forza legittima del potere statale per la difesa contro la violenza di un'ingiusta aggressione. Ma lo scatenarsi della violenza, la trasformazione del dialogo in violenza è semp re il fallimento della ragione, e la probabilità che una situazione violenta possa essere migliorata con la violenza è scarsa.Ma è soprattutto la violenza nel nome di Dio che è condannata inequivocabilmente da Benedetto XVI. Dio come Signore della storia agisce attraverso tutto ciò che succede e anche la violenza dei violenti alla fine dovrà servire al Suo scopo. Ma lo serve solo come tutto ciò che è malvagio. La Sua volontà è fatta sempre e dappertutto. Non deve chiedere il permesso. Ma non dappertutto sulla terra succede come in cielo, e cioè attraverso il conformarsi della volontà degli angeli e degli uomini alla volontà di Dio. Mefistofele, nel Faust di Goethe, confessa di essere parte «di quella Forza che sempre vuole il male e sempre il bene crea». Noi preghiamo affinché la volontà di Dio non sia fatta sulla terra così, ma «come in cielo», e questo significa anche: non tramite la violenza. Anche il popolo di Israele, a questo riguardo, ha compiuto un processo di apprendimento che si conclude soltanto con Gesù. E nonostante questa conclusione, la cristianità nel Medioevo ha creduto ancora di dover punire con pene temporali fino alla condanna a morte almeno l'apostasia e l'eresia: un punto di vista che vige ancora oggi nei Paesi islamici.Ma non si può costringere a rimanere nella luce con i mezzi delle tenebre. Laddove dei cristiani vengono perseguitati in quanto cristiani, essi, seguendo il loro Signore, rinunciano a restituire la violenza. Dove dei cristiani, d'altronde, difendono legittimamente la civitas terrena in qualità di cittadini di essa, sanno che il processo della violenza, nei suoi esiti, è indifferente alla giustizia e all'ingiustizia. Non si presenteranno dunque in nome di Dio e in nome del bene per punire i cattivi e terranno l'odio che avvelena l'anima fuori dallo scontro. Dove vige la violenza, la ragione tace e l'unica forma della sua perdurante presenza può essere soltanto quel rispetto dei nemici che anticipa già la riconciliazione.Non sempre possiamo decidere se avere o no nemici. A volte può essere giusto smitizzare l'idea del nemico, a volte no. Dobbiamo verificare l'idea che abbiamo del nemico confrontandola con la realtà. Ma ciò che invece possiamo decidere è di chiedere la forza di amare i nemici. Tale forza trasforma lo status della violenza che si oppone a Dio ed è il suo modo supremo con cui la luce può illuminare le tenebre, la luce della ragione e dell'amore, il cui massimo testimone è nel nostro tempo Papa Benedetto XVI.
«Avvenire» del 18 luglio 2007

sabato 21 luglio 2007

Hitler contro la Russia: una guerra per il petrolio

Hitler contro la Russia: una guerra per il petrolio
Corriere della sera, 20 luglio 2007

In tempi in cui il petrolio costa sempre di più ed è spesso motivo di guerre, mi sorge una domanda curiosa: da dove prendeva l’ olio combustibile la Germania nazista? Escludendo Stati Uniti e Russia, non rimanevano che gli Stati Arabi (Iran, Iraq e Arabia Saudita).

Caro Alebardi, la Germania ha fatto la Seconda guerra mondiale soprattutto con il carbone: quello delle miniere tedesche e dei Paesi occupati. Grazie al trattato di amicizia stipulato con l’ Urss nell’ agosto del 1939, poté contare sino al giugno del 1941 su forniture di carbone sovietico; e più tardi, dopo l’ inizio dell’ Operazione Barbarossa, cercò di sfruttare, nella misura del possibile, i bacini carboniferi della Russia occidentale. Per il suo fabbisogno di petrolio dovette limitarsi a qualche modesto pozzo tedesco, ai giacimenti austriaci e soprattutto a quelli della Romania che fu tra le due guerre il maggiore Paese petrolifero europeo. Il resto venne dal carbone con cui i tedeschi avevano imparato a fabbricare, sin dall’ anteguerra, varie forme di carburante sintetico. In un articolo della Air University Review, apparso nel 1981, uno studioso, Peter W. Becker, calcola che dal 1938 al 1943 la produzione di carburante sintetico tedesco sia passata dai 10 ai 36 milioni di barili. Fu un grande successo industriale, ma il quantitativo prodotto non bastò mai a coprire tutte le esigenze di un Paese che aveva enormemente allargato il perimetro del conflitto e combatteva su due fronti (tre dopo il giugno 1944), a grande distanza dalla madrepatria. Secondo Becker la sete di petrolio fu una delle principali ragioni per cui Hitler decise di attaccare l’ Urss. Il Paese conquistato gli avrebbe garantito grano ucraino, carbone del Donez e, soprattutto, petrolio del Caucaso e del Caspio. Questa tesi appare confermata dal diverbio che oppose il Führer ad alcuni suoi generali durante i primi mesi della campagna di Russia, nell’ estate e nell’ autunno del 1941. Secondo il capitano Liddel Hart, autore di una bella storia della Seconda guerra mondiale, le cose andarono così. In agosto, lo stato maggiore propose di concentrare ogni sforzo sulla conquista di Mosca: un obiettivo che avrebbe permesso all’ esercito di aspettare la fine dell’ inverno nella migliore delle condizioni possibili. La risposta di Hitler, il 21 agosto, fu negativa. «Non sono d’ accordo (...). Il principale obiettivo, prima dell’ inizio dell’ inverno, non è la conquista di Mosca. Dobbiamo occupare la Crimea e il bacino carbonifero del Donez, tagliare le linee di rifornimento che provengono dai pozzi caucasici». Lo stato maggiore insistette e Hitler, come aveva spesso l’ abitudine di fare in quelle circostanze, disse che i suoi generali «non capivano gli aspetti economici della guerra». Ma li autorizzò, dopo qualche settimana perduta in scambi di messaggi, a riprendere l’ avanzata verso Mosca. Era troppo tardi. Quando giunsero di fronte alla capitale in novembre, i tedeschi constatarono che l’ Armata Rossa era meglio organizzata e che il rapido peggioramento delle condizioni climatiche avrebbe rallentato le loro operazioni. Fu lanciato un nuovo attacco, agli inizi di dicembre, e alcuni reparti entrarono nei sobborghi della capitale. Ma le truppe erano esauste e dovettero subire di lì a poco la grande controffensiva di Zhukov. Sul fronte meridionale, nel frattempo, le truppe di Rundstedt avanzarono sino alla Crimea e al bacino del Donez, ma non poterono contare sui carri armati di Guderian, impegnati di fronte a Mosca, e dovettero fermarsi. La corsa verso i pozzi petroliferi ricominciò nella primavera del 1942. Ma in condizioni strategiche, dopo il grande sforzo di mobilitazione dell’ Urss, alquanto diverse. Mentre una colonna scendeva verso il Caucaso e il Caspio, l’ altra, comandata dal generale Paulus, ne proteggeva il fianco occupando la città che controllava, all’ incrocio fra il Don e il Volga, le linee di comunicazione fra il Nord e il Sud. Quella città, caro Abelardi, era Stalingrado, dove cominciò di lì a poco la storia della disfatta tedesca. Quando il corpo del Caucaso dovette fermarsi e cominciare la ritirata, i pozzi petroliferi di Groznyj, in Cecenia, erano a meno di cento chilometri.

La natalità in Italia

Il Velino, 5 luglio 2007
I dati Istat evidenziano il fondamentale apporto degli immigrati in un paese a crescita quasi zero.
Nel 2006: 379mila persone in più, di cui 222mila straniereAl 31 dicembre 2006 la popolazione complessiva dell’Italia sfiora i 60 milioni. Per la precisione, l’Istat rileva che nel Belpaese gli abitanti dichiarati - sulla base del 14esimo censimento generale della popolazione effettuato il 21 ottobre 2001 - risultano pari a 59.131.287 unità, mentre alla stessa data del 2005 ammontavano a 58.751.711. Nel 2006 si è registrato un incremento della popolazione residente di 379.576 unità, pari allo 0,6 per cento, dovuto quasi completamente alle migrazioni dall’estero e alle rettifiche post-censuarie. Complessivamente, infatti, la variazione di popolazione è stata determinata dalla somma delle seguenti voci di bilancio: il saldo del movimento naturale pari a +2.118 unità, il saldo del movimento migratorio con l’estero pari a +222.410, un incremento dovuto alle rettifiche post-censuarie e al saldo interno pari a +155.048 unità. Al Nord più immigrati del SudLa crescita della popolazione però, segnalano dall’Istat, non è uniforme sul territorio nazionale in conseguenza di bilanci naturali e migratori molto diversi. Si conferma anche per il 2006 un movimento migratorio, sia interno sia dall’estero, indirizzato soprattutto verso le regioni del Nord e del Centro, e un saldo naturale che risulta positivo solo nelle regioni del Sud e nelle Isole. (…) La stima della quota di stranieri sulla popolazione totale è pari a cinque stranieri ogni 100 individui residenti, e risulta in crescita rispetto al 2005 (4,5 stranieri ogni 100 residenti). L’incidenza della popolazione straniera è più elevata in tutto il Centro-Nord (rispettivamente 7,2 e 6,8 per cento nel Nord-est e nel Nord-ovest e 6,4 per cento nel Centro), mentre nel Mezzogiorno la quota di stranieri residenti è dell’1,6 per cento circa.2.118 italiani in più nel 2006Nel corso del 2006, rileva l’Istituto guidato da Luigi Biggeri, sono nati 560.010 bambini (5.988 nati in più rispetto all’anno precedente) e sono morte 557.892 persone (9.412 in meno rispetto all’anno precedente). Pertanto il saldo naturale, dato dalla differenza tra nati e morti, è risultato pari a 2.118 unità, leggermente positivo come nel 2004, primo anno di interruzione della serie negativa a partire dal 1993. Il saldo naturale è positivo nel Mezzogiorno mentre nel Centro-Nord si conferma negativo. Il numero dei nati è in aumento rispetto all’anno precedente. L’incremento si registra soprattutto nelle regioni del Centro (+2,6 per cento), del Nord-Ovest (+2,5 per cento) e del Nord-Est (+1,8 per cento), mentre nelle regioni meridionali (-0,9 per cento) e nelle Isole (-1,3 per cento) continua la tendenza al decremento. L’incidenza delle nascite di bambini stranieri: 10% dei natiComplessivamente, si conferma una tendenza all’aumento nel lungo periodo: l’ammontare complessivo di nascite risulta più elevato di quello relativo a tutti i dodici anni precedenti, a eccezione del 2004. Tale tendenza è da mettere in relazione alla maggior presenza straniera regolare. Negli ultimi dodici anni, infatti, l’incidenza delle nascite di bambini stranieri sul totale dei nati della popolazione residente in Italia ha fatto registrare un fortissimo incremento, passando dall’1,7 per cento al 10,3 per cento del totale dei nati vivi; in valori assoluti da poco più di novemila nati nel 1995 a quasi 58 mila nel 2006. In particolare, nelle regioni del Centro-Nord si registrano valori percentuali di gran lunga superiori alla media nazionale. Si tratta delle aree del Paese con una tradizione migratoria più forte e con una presenza straniera più stabile e radicata. Infatti, nelle due ripartizioni del Nord i bambini nati da genitori stranieri sono circa il 16 per cento; tale incidenza si attenua nelle regioni del Centro (dodici nati stranieri ogni 100 nati) per ridursi notevolmente nel Mezzogiorno (solo due bambini stranieri ogni 100).Il tasso di natalitàIl tasso di natalità varia da 7,5 nati per mille abitanti in Liguria a 11,1 nella provincia autonoma di Bolzano, rispetto ad una media nazionale di 9,5 per mille. Tra le regioni del Nord-ovest il tasso di natalità più elevato si registra in Lombardia (dieci per mille) e Valle d’Aosta (dieci per mille). Nel Nord-est, registrano un tasso di natalità superiore alla media nazionale Bolzano e Trento (11,1 e 10,3 nati per mille abitanti) e il Veneto (9,9 per mille). Le regioni del Centro presentano tutte, tranne il Lazio (9,8 per mille), un tasso di natalità con valori inferiori alla media nazionale. Nel Mezzogiorno, la Campania presenta il tasso di natalità più elevato in assoluto (10,8 per mille) e supera la media nazionale, così come la Sicilia (dieci per mille), mentre la Sardegna presenta un valore tra i più bassi, pari appena all’otto per mille. Numero di decessi inferiore al 2005Il numero di decessi è inferiore a quello dell’anno precedente. Il tasso di mortalità è ovviamente più elevato nelle regioni a più forte invecchiamento: Liguria, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia e Emilia-Romagna presentano tassi di mortalità superiori alla media nazionale (9,5 per mille). A queste si aggiungono tutte le regioni del Centro, con la sola eccezione del Lazio, dove il tasso di mortalità è inferiore alla media nazionale (9,1 per mille). Tra le regioni del Mezzogiorno, solo il Molise e la Basilicata presentano un tasso di mortalità (rispettivamente 11,2 e 9,6) più elevato della media nazionale. Le altre regioni, “più giovani”, fanno registrare tutte valori inferiori al 9,5 per mille. Al contrario di quanto avviene per la natalità, per la mortalità il peso degli stranieri risulta irrilevante, a causa della composizione per età particolarmente giovane rispetto alla popolazione italiana.222mila stranieri in piùCome già da diversi anni, l’incremento demografico dell’Italia è garantito da un saldo migratorio con l’estero positivo. Nel corso del 2006, prosegue la nota dell’Istat, sono state iscritte in anagrafe come provenienti dall’estero 297.640 persone, mentre ammontano a 75.230 le cancellazioni di persone residenti in Italia trasferitesi all’estero. Tra gli iscritti, gli italiani che rientrano dopo un periodo di permanenza all’estero rappresentano poco più del 14 per cento. La larga maggioranza è costituita da cittadini stranieri, soprattutto nelle regioni del Nord e del Centro (oltre il 90 per cento), mentre la quota di stranieri è meno significativa nelle regioni del Mezzogiorno. Viceversa, tra i cancellati per l’estero prevalgono gli italiani, che sono circa il 77 per cento del totale. Complessivamente, il bilancio migratorio con l’estero, pari a +222.410, è dovuto a un saldo fortemente positivo per gli stranieri, superiore a 237 mila unità, che compensa il saldo lievemente negativo relativo alla sola componente italiana (-15 mila unità). Il saldo relativo ai cittadini stranieri, pur consistente, è inferiore di circa 30 mila unità a quello dell’anno precedente. Il Nord e il Centro presentano tassi migratori con l’estero superiori alla media nazionale. Viceversa, tutte le regioni del Mezzogiorno presentano valori ben inferiori alla media. Tuttavia, il bilancio con l’estero risulta positivo per tutte le regioni e il corrispondente tasso varia da 0,3 per mille in Basilicata e Calabria a 6,4 di Trento, rispetto a una media nazionale del 3,8 per mille. (…)Il tasso di fecondità aumenta leggermente al Nord e diminuisce al SudLa popolazione residente in Italia al 31 dicembre 2006 vive per il 99,4 per cento in famiglie. Le famiglie anagrafiche – segnala una nota dell’Istat - sono 23 milioni e 900 mila circa; il numero medio di componenti per famiglia risulta pressoché invariato rispetto all’anno precedente ed è pari a 2,5. Il valore minimo è di 2,1 e si rileva in Liguria, mentre il massimo è 2,8 in Campania. Il restante 0,6 per cento della popolazione, pari a 328 mila abitanti, vive in convivenze anagrafiche (caserme, case di riposo, carceri, conventi). La popolazione residente nelle convivenze si concentra nel Nord e nel Centro. Secondo le stime più recenti, nel 2006 il tasso di fecondità totale è stato pari a 1,35 figli per donna. Si conferma, pertanto, la leggera tendenza alla ripresa avviatasi nella seconda metà degli anni ’90, dopo che per 30 anni, a partire dal 1965, la fecondità italiana era andata continuamente riducendosi fino a raggiungere il minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Questa l’evoluzione nelle diverse ripartizioni geografiche: l’aumento del numero medio di figli per donna è concentrato al Centro-Nord (con aumenti, tra il 1995 e il 2006, superiori al 30 per cento per il Nord-est e il Nord-ovest e di oltre il 19 per cento al Centro), mentre nel Mezzogiorno la fecondità, continua a diminuire (rispettivamente – 6,5 per cento al Sud e -4,2 per cento nelle Isole). Le opposte tendenze hanno determinato negli ultimi anni un avvicinamento dei livelli di fecondità territoriali intorno al dato medio nazionale (1,39 e 1,36 figli per donna al Nord-Est e al Nord-Ovest, 1,33 al Sud, 1,32 al Centro e nelle Isole). La progressiva convergenza dei livelli fa sì che ai primi posti nella graduatoria delle regioni con la maggiore propensione ad avere figli si trovino, nel 2006, sia aree storicamente note per essere prolifiche, come Bolzano e Trento (rispettivamente 1,57 e 1,50 figli per donna), la Campania (1,44) e la Sicilia (1,40), sia regioni che avevano raggiunto a metà degli anni ’90 un livello di fecondità estremamente basso, intorno o al di sotto di un figlio per donna, come la Lombardia (1,41), il Veneto e l’Emilia-Romagna (1,39).Le donne immigrate hanno un tasso di fecondità doppio delle italianeQueste dinamiche presentano numerose analogie con la distribuzione territoriale dei nati da residenti di cittadinanza straniera, a indicare che al fenomeno della ripresa della fecondità della popolazione residente stanno contribuendo in modo rilevante i comportamenti riproduttivi degli stranieri. Sulla base dei dati definitivi del 2005 è possibile considerare la fecondità per le donne italiane e per le donne straniere separatamente: le prime hanno avuto in media 1,24 figli, mentre le donne straniere ne hanno avuto quasi il doppio (2,41). I livelli più elevati di fecondità si registrano tra le straniere residenti nel Nord-ovest e nel Nord-est: rispettivamente 2,50 e 2,61 figli per donna contro 1,17 e 1,19 figli delle residenti di cittadinanza italiana. Hanno in media un numero più contenuto di figli le straniere che risiedono al Sud e nelle Isole (rispettivamente 1,99 e 2,25 figli per donna), dove la fecondità delle donne italiane è ancora relativamente elevata (1,31 figli per donna). L’impatto dei comportamenti riproduttivi delle donne straniere sui livelli di fecondità della popolazione residente è ancora più evidente quando si considera il dettaglio territoriale provinciale, sottolineano dall’Istituto di statistica. Si citano in particolare i casi di Verona, Vicenza e soprattutto Treviso in Veneto; Lecco, Bergamo e Brescia in Lombardia; Modena e Reggio nell’Emilia in Emilia-Romagna; Prato in Toscana. In queste province, grazie al contributo delle donne straniere, i tassi di fecondità raggiungono nel 2005 livelli ben più elevati della media nazionale (1,35 figli per donna) mentre, quando si considerano le sole donne italiane, si collocano a livelli di molto inferiori. Nel Mezzogiorno, dove il contributo degli stranieri alla natalità è ridotto, Campania e Sicilia mantengono nel 2005 livelli di fecondità superiori alla media nazionale grazie al comportamento riproduttivo delle donne italiane. (…)

Con i CUS discriminati i coniugi

di Giacomo Samek Lodovici, Avvenire 15 luglio 2007
Testo del ddl sui contratti di unione solidale, con un commento che ne evidenzia le contraddizioni
Dai Dico ai Cus (Contratti di Unione Solidale) cambia il nome ma non la sostanza: proprio mentre si afferma di voler eliminare le discriminazioni verso i conviventi, in realtà la vera discriminazione colpisce i coniugi. Infatti essi si assumono dei doveri inderogabili, la cui trasgressione è sanzionata, talora anche penalmente. Per esempio gli obblighi di curarsi reciprocamente, di educare il figlio anche se è «solo» del coniuge e non è proprio, di contribuire alle necessità della famiglia, di versare gli alimenti in caso di separazione o di divorzio, di coabitare. L’obbligo di coabitazionePer limitarci solo all'obbligo di coabitazione, i coniugi non possono lasciarsi da un momento all'altro senza conseguenze: se uno dei due abbandona il tetto coniugale, può essergli addebitata la separazione, il che può precludere l'assegno di mantenimento. Invece nei Cus i conviventi non hanno nemmeno l'obbligo della coabitazione e viene menzionato in modo molto generico solo il dovere di aiutarsi reciprocamente e di contribuire alle necessità della vita, ma con la clausola che "il contratto di unione solidale può prevedere i tempi e i modi dell'attuazione" dei doveri. Quindi, non solo i coniugi hanno molti più doveri, ma hanno inoltre degli obblighi definiti, diversamente dai conviventi che, nei Cus mantengono un'autonomia molto ampia rispetto ai doveri. Per i conviventi molti diritti, pochissimi doveriInsomma, i conviventi, coi Cus, hanno diversi diritti, per esempio il trasferimento di sede per i lavoratori, il diritto di succedere nel contratto di locazione per l'alloggio comune, quello di ereditare automaticamente (se sono passati nove anni dalla registrazione del Cus) e quello di percepire (dopo il riordino della normativa previdenziale) la pensione di reversibilità. Pertanto, se lo Stato istituisse i Cus, attuerebbe un atto giuridico a senso unico, perché si assumerebbe degli obblighi nei confronti dei conviventi, quando questi ultimi non se ne assumono nessuno o quasi. E riconoscerebbe loro i diritti che abbiamo menzionato, senza esigere in cambio i doveri che invece chiede ai coniugi di assolvere. Alcuni diritti reclamati sono in realtà già previsti dall’ordinamentoNé si può parlare di discriminazione verso i conviventi in merito ad alcuni diritti reclamati per i conviventi e contenuti nei Cus (quello di prendere decisioni di carattere sanitario in favore del convivente o quello di succedergli nel contratto di locazione), dato che (Avvenire lo ha documentato varie volte) essi sono già oggi garantiti dal nostro ordinamento. Ma con la differenza (rispetto ai Cus) che essi sono attualmente concessi ai singoli e non alle coppie, perché fino ad oggi lo Stato ha conferito uno status speciale al matrimonio, laddove invece i Cus li assegnerebbero alle coppie conviventi, «avvicinandole» a quelle sposate. Quando si può parlare di discriminazioneOltre che per quanto detto finora, contrapporsi ai Cus non significa discriminare i conviventi: discriminare significa trattare in modo diverso cose uguali. Dunque è vero che ogni singolo uomo deve avere gli stessi diritti; ma ci sono giustamente differenze nei diritti particolari, legate alle funzioni delle persone (per esempio, un parlamentare ha il diritto di votare le leggi, un semplice cittadino no). Ciò significa che le relazioni interpersonali devono essere trattate dallo Stato in modo diverso quando sono tra loro diverse. Ora, la relazione dei conviventi è diversa da quella dei coniugi, per lo meno perché i conviventi non si assumono le responsabilità e gli obblighi a cui i coniugi si impegnano.
Il testo

Disegno di leggeContratti di unione solidale
Articolo 1(Contratto di unione solidale)1. Dopo il titolo XIV del libro I del codice civile, è inserito il seguente:Titolo XVDel contratto di unione solidale455-bis. Contratto di unione solidale. L’unione solidale è un contratto concluso fra due persone, anche dello stesso sesso, per l’organizzazione della vita in comune. Il contratto di unione non può essere stipulato, a pena di nullità:1) da persona minore d’età;2) da persona interdetta per infermità di mente;3) da persona non libera di stato;4) tra due persone che abbiano vincoli di parentela in linea retta o collaterale entro il secondo grado, o che siano vincolate da adozione, affiliazione, tutela, curatela o amministrazione di sostegno;5) da persona condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra o sulla persona con la quale l’altra conviveva. Nel caso di persona rinviata a giudizio o sottoposta a misura cautelare la stipula è sospesa fino a quando non è pronunciata sentenza di scioglimento.All’unione solidale si applicano le norme in materia di contratti di cui al capo II del libro IV, ivi comprese le cause di nullità previste dall’articolo 1418 e seguenti, nonché le disposizioni delle vigenti leggi speciali in materia di contratti.455-ter. Stipulazione del contratto. Il contratto di unione solidale si stipula mediante dichiarazione congiunta davanti al giudice di pace o ad un notaio competente per il comune di residenza di uno dei due contraenti.Qualora l’atto sia stipulato dal notaio, questi deve trasmetterlo entro dieci giorni all’ufficio del giudice di pace competente per territorio per l’iscrizione nel registro di cui all’articolo 455-quater.La volontà di modificare un contratto di unione solidale in vigore deve essere espressamente e congiuntamente dichiarata da entrambi i contraenti davanti al giudice di pace o al notaio. L’atto che porta le modifiche deve essere unito al contratto originario.455-quater. Registro dei contratti di unione solidale. I contratti di unione solidale sono trascritti in apposito registro presso l’ufficio del giudice di pace competente a cura del cancelliere entro il quindicesimo giorno successivo alla stipulazione del contratto stesso. Sullo stesso registro sono annotate le variazioni dei contratti di unione solidale.445-quinquies. Unione solidale del cittadino all’estero. Il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nel presente titolo anche qualora sottoscriva un contratto di unione solidale in un paese straniero secondo le forme ivi stabilite.455-sexies. Unione solidale dello straniero nello stato. Lo straniero regolarmente soggiornante in Italia che intenda sottoscrivere un contratto di unione deve osservare le disposizioni di cui all’articolo 116, commi primo e terzo.455-septies. Diritti e doveri dei contraenti. Coloro che hanno contratto un’unione solidale si portano aiuto reciproco e contribuiscono alle necessità della vita in comune in proporzione ai propri redditi, al proprio patrimonio e alle proprie capacità di lavoro professionale e casalingo. Il contratto di unione solidale può prevedere i tempi e i modi della contribuzione di ciascuno.Salvo diversa volontà espressa, le parti dell’unione solidale sono solidalmente responsabile verso i terzi per i debiti contratti da ciascuno in ragione dei bisogni della vita in comune e delle spese relative all’alloggio.455-octies. Regime patrimoniale. Nel contratto di unione solidale le parti devono indicare se intendono assoggettare alle norme della comunione in generale i beni acquistatati a titolo oneroso successivamente alla stipulazione del contratto stesso, anche quando l’acquisto sia compiuto da una sola delle parti.455-nonies. Assistenza. Le parti contraenti hanno reciprocamente gli stessi diritti e doveri spettanti ai parenti di primo grado in relazione all’assistenza e alle informazioni di carattere sanitario e penitenziario.455-decies. Agevolazioni e tutele in materia di lavoro. La legge e i contratti collettivi disciplinano i trasferimenti di sede di parti di unione solidale che siano dipendenti pubblici e privati al fine di agevolare il mantenimento della comune residenza, prevedendo tra i requisiti per l’accesso al beneficio una durata almeno triennale della convivenza.455-undecies. Malattia e decisioni successive in caso di morte. In mancanza di una diversa volontà manifestata per iscritto, ovvero di una procura sanitaria, e in presenza di uno stato di incapacità di intendere e di volere anche temporaneo, fatte salve le norme in materia di misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia di cui al libro I, titolo XII, capo I, tutte le decisioni relative allo stato di salute e in generale di carattere sanitario, ivi comprese quelle concernenti la donazione degli organi, sono adottate dall'altra parte di un'unione solidale.In mancanza di una diversa volontà manifestata per iscritto, tutte le scelte relative al trattamento del corpo e alle celebrazioni funerarie, nei limiti previsti dalle disposizioni vigenti, sono adottate dall'altra parte dell'unione solidale in assenza gli ascendenti o discendenti diretti maggiorenni del soggetto interessato.455-duodecies. Diritto di successione nel contratto di locazione. 1. Qualora una delle parti dell'unione solidale sia titolare del contratto di locazione per l'alloggio comune, si applicano in caso di morte le disposizioni dell'articolo 1614.455-terdecies. Risoluzione del contratto di unione solidale. Il contratto di unione solidale si risolve nei seguenti casi:1) Per comune accordo delle parti2) Per decisione unilaterale di uno dei due contraenti3) Per matrimonio di uno dei due contraenti4) Per morte di uno dei due contraenti.Nel caso in cui intendano risolvere il contratto di comune accordo le parti rendono una dichiarazione congiunta al giudice di pace presso il cui ufficio è registrata la dichiarazione iniziale o al notaio che ha ricevuto la dichiarazione iniziale. Nel caso di cui al numero 2 del comma precedente, la parte che intende porre fine al contratto manifesta la propria volontà all'altro contraente per mezzo di una dichiarazione scritta da inviare in copia al giudice di pace presso il cui ufficio è registrato il contratto di unione solidale. Nel caso di cui al numero 3 del comma precedente, la parte che ha contratto matrimonio deve darne comunicazione al giudice di pace presso il cui ufficio è registrato il contratto di unione solidale allegando il certificato di nascita sul quale è riportata menzione del matrimonio. Nel caso di cui al numero 4 del comma precedente, il superstite invia al giudice di pace presso il cui ufficio è registrato il contratto di unione solidale copia dell'atto di decesso. È fatta menzione della cessazione degli effetti del contratto a margine di quest'ultimo.455-quaterdecies. Effetti della risoluzione del contratto di unione solidale. Gli effetti della risoluzione del contratto si producono, a seconda dei casi:1) dal momento della menzione, a margine del contratto, della dichiarazione congiunta;2) dal novantesimo giorno successivo all'invio della dichiarazione unilaterale di risoluzione all'altra parte e al giudice di pace o al notaio competente;3) dalla data del matrimonio o del decesso di una delle parti.Nel contratto di unione solidale possono essere stabilite le conseguenze patrimoniali della risoluzione per cause diverse dalla morte.I contraenti procedono autonomamente alla liquidazione dei diritti e delle obbligazioni risultanti dal contratto. In mancanza di accordo il giudice decide sulle conseguenze patrimoniali della risoluzione del contratto, ivi compreso il risarcimento dei danni eventualmente subiti.Articolo 2(Diritti successori)1. L'articolo 565 del codice civile è sostituito dal seguente:565. Categorie di successibili. Nella successione legittima l'eredità si devolve al coniuge, ai discendenti legittimi naturali, agli ascendenti legittimi, ai collaterali, agli altri parenti, alla parte di unione solidale dopo nove anni dalla registrazione del contratto e allo Stato, nell'ordine e secondo le regole stabilite nel presente titolo.2. Dopo il Capo II del Titolo II del libro II del codice civile è inserito il seguente:Capo II-bisDella successione della parte di unione solidale585-bis. Concorso della parte di unione solidale con i figli, ascendenti legittimi, fratelli e sorelle. Quando la parte di unione solidale concorra con figli legittimi o naturali, con ascendenti legittimi o con fratelli e sorelle anche se unilaterali, ovvero con gli uni e con gli altri, ha diritto ad un quarto dell'eredità.583-ter. Concorso della parte di unione solidale con altri parenti. Quando la parte di unione solidale concorre con i parenti di cui all'articolo 572, ha diritto a metà dell'eredità.583-quater. Successione della sola parte di unione solidale. Se alcuno muore senza lasciare parenti oltre il sesto grado, alla parte di unione solidale si devolve tutta l'eredità.Articolo 3(Modifiche all'articolo 6 della legge 27 luglio 1978, n.392)1. Al primo comma dell'articolo 6 della legge 27 luglio 1978, n.392, le parole: "ed i parenti ed affini" sono sostituite dalle altre: ", i parenti ed affini e la parte di unione solidale".Articolo 4(Disciplina previdenziale )1. In sede di riordino della normativa previdenziale e pensionistica, la legge disciplina i trattamenti da attribuire alla parte superstite dell'unione solidale, stabilendo requisiti di durata minima dell'unione stessa e tenendo conto dei prevalenti diritti dei figli minori o non autosufficienti del defunto.

La scienza può condurre a Dio

di Roberto Persico, Tempi num.28 del 12 luglio 2007
Francis Collins – padre del genoma umano: non c'è contraddizione tra i dati della scienza e la verità dell'esperienza religiosa
Un'altra vittima di C. S. Lewis. Eppure c'erano tutte le premesse perché Francis Sellers Collins finisse come uno dei tanti pazienti ideali di Berlicche, quelli che arrivano quietamente all'inferno senza mai porsi neppure il problema. «Come figlio di liberi pensatori - scrive ne Il linguaggio di Dio, da poco uscito in Italia - ho avuto un'educazione tipicamente moderna per quanto riguarda l'atteggiamento nei confronti della fede: semplicemente, non era considerata una cosa importante». E quel «desiderio di qualcosa che stava al di fuori di me, spesso associato alla bellezza della natura o a un'esperienza musicale particolarmente profonda», che racconta di avere talvolta sperimentato nell'adolescenza, non trovò nessuno pronto ad accoglierlo. Anzi, approdato nelle aule universitarie, l'anticristianesimo militante che vi si era diffuso spinse il professor Collins da un agnosticismo in fondo indifferente al problema religioso a un deciso ateismo. L’incontro con Dio nella sofferenzaIntanto maturava un curriculum di tutto rispetto, passando dalla chimica alla fisica alla biologia, per approdare infine alla medicina. Ma proprio qui Dio era in agguato, tra le corsie in cui Collins faceva il suo tirocinio da medico, nel volto di morenti che trovavano nella fede la forza per affrontare lietamente l'ultima sofferenza. «Se la fede non era altro che la maschera di una tradizione culturale, perché quelle persone non alzavano il pugno a Dio e non chiedevano di smetterla con quelle chiacchiere su una potenza amorevole e benefica?». Di colpo, si rese conto che l'indifferenza non è una posizione degna di un uomo di scienza. La domanda più importante«Non mi ritenevo uno scienziato? E uno scienziato tira forse conclusioni senza riflettere sui dati? Poteva esserci una domanda più importante di "Dio esiste"? Questa presa di coscienza fu un'esperienza assolutamente terrificante». E sulle prime tentò di offrire ragioni al proprio ateismo. Poi però incappò in Scusi, qual è il suo Dio? di Lewis. «Mi resi conto che tutti i miei costrutti contro la plausibilità della fede erano degni, al massimo, di uno scolaretto. Lewis pareva conoscere tutte le mie obiezioni, talvolta prima che fossi riuscito a formularle con precisione, e le risolveva invariabilmente nell'arco di una o due pagine».Spiegare il Dna a Bill ClintonDai giorni dell'università, Francis Collins ne ha fatta di strada, fino a diventare direttore del "Progetto Genoma", l'impresa internazionale che ha condotto alla mappatura dell'intero patrimonio genetico dell'uomo. E durante la presentazione ufficiale dei risultati, nel giugno del 2000 alla Casa Bianca, accanto al presidente Bill Clinton, così commentò l'evento: «Pensare che abbiamo potuto dare una prima fugace occhiata al nostro manuale di istruzioni, finora noto soltanto a Dio, mi fa sentire umile. Provo un grande timore reverenziale».Nessuna contraddizione tra scienza e religioneLa sua carriera di studioso è cresciuta di pari passo con la sua fede, e ora con Il linguaggio di Dio ha voluto delineare una posizione che lui chiama "evoluzionismo teologico" - «espressione poco accattivante», riconosce - sostituendola col più sintetico e suggestivo "BioLogos": correttamente intesi, non c'è nessuna contraddizione tra i dati della conoscenza scientifica e la verità dell'esperienza religiosa. Una posizione lucidamente critica sia nei confronti di chi pretende di fare della scienza un sostegno dell'ateismo, sia rispetto agli integralismi religiosi che negano le evidenze scientifiche in nome di letture letterali della Bibbia. Ma vuole anche superare la teoria del "disegno intelligente", che fa intervenire Dio come "tappabuchi" di un'evoluzione difettosa. Chiuso il libro, abbiamo raggiunto Collins nel suo ufficio al National Human Genome Research Institute, e lui ha trovato il tempo di fare due chiacchiere con Tempi.Due argomenti che rendono plausibile l’ipotesi DioGli argomenti che porta nel suo libro a sostegno della ragionevolezza dell'ipotesi di Dio sono fondamentalmente due. Uno è il cosiddetto principio antropico, cioè la sorprendente convergenza delle costanti fisiche fondamentali dell'universo verso le condizioni che rendono possibile la vita sulla Terra. L'altro è l'esistenza della legge morale, dell'altruismo, di valori che l'evoluzione (che pure chiarisce tante altre verità) non basta a spiegare. Il principio antropico convince dell’esistenza di un Disegno sull’uomo Al contrario dei sostenitori del principio antropico, gli scienziati che propendono per l'esistenza del "multiverso" teorizzano che il nostro universo non sarebbe che una delle infinite bollicine di una sconfinata schiuma cosmica, bollicine che continuamente si formano e si distruggono. Così la "sorprendente convergenza" delle costanti del cosmo sarebbe solo una delle infinite possibilità, che prima o poi avrebbe dovuto realizzarsi comunque. «Ma se le costanti che determinano le proprietà della materia e dell'energia nel nostro universo fossero anche solo lievemente differenti - ribatte Collins - non ci sarebbe nessuna possibilità per la vita. Perciò è difficile sfuggire alla conclusione che, come ha scritto Freeman Dyson, "l'universo sembrava sapere che stavamo arrivando noi"».Ci vuole molta “fede” per sostenere che Dio non c’entraA proprio sostegno Collins cita anche la recente pubblica professione di fede fatta da Antony Flew, ateo da una vita, che «è stato pesantemente influenzato dalla scoperta del potere teologico del principio antropico. Una tale precisione nella regolazione di queste costanti non può essere liquidata come una "coincidenza". L'ipotesi del multiverso, secondo la quale il nostro non sarebbe che uno tra pressoché infiniti universi paralleli dove queste costanti assumono di volta in volta valori diversi, è a mio parere l'unica alternativa praticabile alla conclusione che tali valori siano stati definiti da un'intelligenza superiore. Molti osserverebbero, tuttavia, che credere nel multiverso richiede almeno tanta fede quanta credere in Dio. Uno come Leonard Susskind può supporre che la questione potrebbe essere definita se si potessero rilevare segnali dagli altri universi, ma al momento sembra altamente improbabile. E anche se accadesse, lascerebbe comunque senza risposta la domanda su come tutti questi universi abbiano avuto origine. Il che sembra riportarci alla necessità di una Causa Prima che stia fuori da tutti questi universi. E così torniamo a Dio».L’esistenza della legge morale e rigetto della teoria darwinianaAnche l'idea che la coscienza morale sia un segno di Dio ha trovato diversi critici, i quali suggeriscono che si potrebbe scoprire che i gruppi umani che sviluppano attitudini altruistiche sopravvivrebbero più facilmente di quelli che si scannano l'un l'altro: se così fosse, la teoria di Collins si rivelebbe un altro caso di "Dio tappabuchi". «Nessuno degli argomenti che sviluppo ne Il linguaggio di Dio ha la pretesa di essere una prova. Se l'argomento della legge morale dovesse risultare debole e saltasse fuori che le nostre tendenze altruistiche possono essere spiegate sulla base dell'evoluzione darwiniana, la mia fede non ne sarebbe scossa. Ma non credo che sia probabile, dato che, primo, l'evoluzione opera sugli individui, non sui gruppi (e Richard Dawkins su questo è d'accordo). Secondo, l'evoluzione riguarda solo la capacità di un individuo di trasmettere il proprio Dna meglio dei concorrenti. Terzo, proprio per questo il gesto di una persona che aiuta un'altra a rischio della vita è uno scandalo per l'evoluzione, e dovrebbe essere qualcosa a cui noi umani guarderemmo con scherno, non con ammirazione. Tenga presente anche la conseguenza dell'argomento che la legge morale sarebbe un puro risultato dell'evoluzione: vorrebbe dire che il nostro senso del bene e del male è una pura illusione, uno sporco trucco della selezione naturale, con nessun significato di valore di alcun tipo. È una conclusione che trova riscontro nell'esperienza di ciascuno?»Per gli scienziati parlare di fede è un tabùEppure scienziati come Dawkins, "il rottweiler di Darwin", o Daniel Dennet, autore di Illusioni filosofiche sulla coscienza, scrivono libri per dimostrare che «la fede è uno dei più grandi mali del mondo» o che la coscienza può essere totalmente ridotta alla neurobiologia. Collins nel suo libro li bastona duramente, smontando le loro tesi pezzo per pezzo. Ma sono sempre loro a tener banco agli occhi dell'opinione pubblica. «Circa il 40 per cento degli scienziati crede in un Dio personale - replica Collins - e per quel che ne so la maggior parte di loro aderisce alla prospettiva che ho definito BioLogos per tenere insieme quel che conoscono come scienziati e quel che credono come esseri spirituali. Ma discutere apertamente la propria fede nell'ambiente scientifico è generalmente tabù. Quelli che lo fanno corrono il rischio di essere considerati dei rammolliti intellettuali, così molti credenti tengono le proprie opinioni per sé. Inoltre, questa riluttanza a mettersi in gioco non è solo degli scienziati: le tensioni in atto fra atei conclamati da una parte e fondamentalisti religiosi dall'altra rende molti riluttanti ad affrontare la questione per timore di essere incasellati in uno dei due schieramenti».Le forme diverse dello sguardo a Dio, senza sincretismiMalgrado l'inasprirsi del dibattito fra atei e credenti, però, è possibile tenere insieme l'affermazione della verità e la tolleranza. Scrive Collins: «Ciascuno deve intraprendere una propria ricerca della verità spirituale. Se Dio esiste, sarà lui a offrire aiuto. La tolleranza è una virtù, l'intolleranza un vizio. Mi turba profondamente sentire gli adepti di una tradizione di fede liquidare le esperienze spirituali di altri credenti. Tuttavia, se la fede è una ricerca della verità assoluta, non dobbiamo commettere l'errore di affermare che tutti i punti di vista in conflitto fra loro sono ugualmente veri. Il monoteismo e il politeismo non possono essere entrambi corretti. Personalmente, credo che il cristianesimo abbia un particolare accento di verità. Ma ciascuno, come ho detto, deve condurre la propria ricerca». Una posizione troppo poco promossa oggi, spiega lo scienziato a Tempi: «Purtroppo, la nostra società sembra aver preso l'abitudine di amplificare solo le posizioni estreme. Io credo che moderazione, tolleranza e comprensione siano molto più diffuse di quel che comunemente si ritiene».Un’alleanza tra scienza e fedeE cosa si potrebbe fare, allora, per dare maggior eco a questa concezione del rapporto tra scienza e fede? «Potremmo cominciare - risponde Collins - chiedendo ai grandi scienziati di spendere un po' di tempo a cercar di capire il punto di vista dei più profondi pensatori religiosi, e allo stesso modo chiedere ai capi delle Chiese di immergersi nelle ultime scoperte scientifiche. Oggi entrambi i gruppi sono fin troppo pronti a fare una caricatura gli uni degli altri piuttosto che a cercare di capirsi seriamente. Bisognerebbe creare delle opportunità per mettere insieme i leader dalla mente aperta in un ambiente che incoraggi l'idea che la scienza e la fede sono forme diverse di conoscenza, ed entrambe possono offrire scorci impressionanti di Dio. E dovremmo lavorare molto di più nelle nostre scuole, per insegnare alle giovani generazioni la verità sulla natura come ce la mostra la scienza e insieme aiutarle ad apprezzare il valore permanente delle verità che derivano dalla fede».

giovedì 19 luglio 2007

Darwin: le sue teorie scientifiche, il suo pensiero

Tratto dalla voce “Charles Darwin” a cura di Giovanni Monastra, del Dizionario interdisciplinare di scienza e fede
Uno sguardo approfondito su uno dei “padri” del pensiero contemporaneo
È il nome forse più citato nell’attuale dibattito scientifico-culturale, emblema dell’opposizione tra scienza e fede e fondatore di un “nuovo corso” nella comprensione dell’uomo. Documentazione.info presenta qui in forma ridotta (per la versione integrale cliccare qui) un’ampia disamina della figura del naturalista inglese (1809-1882), forse più rilevante in campo filosofico che in quello scientifico. Si presentano inoltre obiezioni al darwinismo avanzate da studiosi in entrambi i campi.Le radici intellettuali di Darwin… Darwin era avido di letture di carattere economico e sociologico. Ancor più dell’influenza dei naturalisti e dei geologi del suo tempo, egli subì quella di autori come il demografo e sociologo ecclesiastico Robert Malthus (1766-1834), l’economista liberista Adam Smith (1723-1790) e lo statistico Lambert-Adolphe Quételet (1796-1874), oltre che quella dei filosofi materialisti Herbert Spencer (1820-1903) e Auguste Comte (1798-1857), autori ai quali riserverà, quasi sempre, riconoscimenti espliciti nelle sue opere, come nel caso di Malthus, di cui lesse nel 1838 il suo Saggio sul principio di popolazione (1798). Sulla base della osservazione che le popolazioni aumentano in progressione geometrica, mentre le disponibilità alimentari si accrescono solo in progressione aritmetica, Malthus affermava che, se non si fosse intervenuto con mezzi artificiali, le popolazioni sarebbero andate inevitabilmente incontro a gravissime crisi alimentari periodiche, che ne avrebbero determinato la decimazione per fame e malattie. Darwin trasse da queste riflessioni l’idea del ruolo importantissimo della “selezione naturale”, che successivamente coniugò con la definizione spenceriana della “sopravvivenza del più adatto”.Egli aveva ormai maturato l’idea che le specie non sono immutabili, contrariamente a quanto affermato dai fissisti; ma nell’affermarlo, come scrisse in una lettera a Hooker l’11 gennaio del 1844, aveva quasi l’impressione di «confessare di aver commesso un assassinio», sebbene quattro anni più tardi, in una nuova lettera allo stesso Hooker (10 maggio 1848), non esiterà a paragonare l’autorevolezza della sua teoria delle specie «a quella del vangelo» (sic!). La concezione darwiniana dell’evoluzione costituiva l’estensione al campo biologico del principio del laissez-faire economico di Smith. Tale principio postulava che un’economia ordinata ed assicuratrice del massimo benessere per tutti poteva essere realizzata solo lasciando che gli individui fossero liberi di competere l’uno con l’altro, seguendo unicamente la propria utilità, senza interventi di autorità super partes esterne al campo dell’economia, le cui leggi divenivano totalizzanti e invadenti per l’intera società. Da questa lotta sarebbero derivati “spontaneamente” ordine e armonia sociale, perché eliminati gli inefficienti e gli incapaci e favoriti i migliori e più dotati. Come sottolineato da Elders (1984), sotto certi aspetti anche Comte fu tra gli ispiratori di Darwin, specie per quel che riguarda la contrapposizione fra l’idea della vera scienza e la teologia (Positivismo). Darwin andò così maturando il progetto di una biologia positivista, libera da interferenze religiose. Ciononostante, egli non ammise mai il suo debito verso Comte, al punto da eliminare dal suo diario alcune pagine riferite a questo filosofo.La teoria evoluzionistaLa teoria di Darwin si caratterizza per il particolare meccanismo con il quale egli intende spiegare il divenire dei viventi: a suo parere tutta la varietà che oggi osserviamo in natura sarebbe derivata da pochi individui originari, o forse anche da uno solo, e si sarebbe formata attraverso il lento accumulo di piccole variazioni, insorte in alcuni individui e poi trasmesse alla prole. Queste sarebbero di due tipi: variazioni indotte dall’uso o dal non uso di un organo o di una funzione (eredità dei caratteri acquisiti, che egli condivideva con Lamarck) e variazioni del tutto casuali, di origine ignota (quelle che oggi chiamiamo «mutazioni»).Tre premesse fondamentali del darwinismoa) gli organismi variano; b) queste variazioni possono essere ereditate; c) tutti gli organismi sono soggetti alla “lotta per la vita” nella quale le variazioni favorevoli vengono preservate dalla selezione naturale, che riveste un ruolo “creativo”. Mentre le prime due sono osservazioni obiettive con fondamento sperimentale, la terza assume una forte carica filosofica e resta alquanto discutibile. Altri autori, come Linneo, Buffon e de Candolle, avevano già parlato di «lotta per la vita», anche a proposito delle piante, sebbene nel mondo animale questa veniva principalmente ristretta ai rapporti di predazione. Darwin, da parte sua, estese in modo parossistico questo concetto, suggestionato dalle idee di Malthus, focalizzandolo in particolare sul problema della disponibilità delle risorse. Le principali obiezioni alla terza “premessa fondamentale” del darwinismo classico sono due: il “competizionismo” esasperato trascura la cooperazione esistente in natura a vari livelli; inoltre, come osservato da moltissimi biologi e naturalisti, sia contemporanei a Darwin che a lui successivi, attribuire alla selezione naturale un “ruolo creativo” resta una pura ipotesi, mai dimostrata. Di quest’ultima, Darwin ne “dilata” il peso, proponendo un meccanismo “selezionista” per spiegare la nascita di nuove specie attraverso la fase di “varietà” (teoria della speciazione) per poi applicarlo anche alla comparsa dei gruppi tassonomici superiori alla specie, quali generi, famiglie, ordini, classi (teoria generale), attraverso un’estensione del tutto gratuita: in altre parole egli intende spiegare la macroevoluzione con i meccanismi della microevoluzione.Il tema delle origini dell’uomoDopo averlo deliberatamente evitato ne Le origini delle specie, Darwin dedicò a tale tema un’opera successiva The descent of man and Selection in Relation to Sex (1871), che provocò accesi dibattiti in quanto vi si sosteneva la tesi delle origini della specie umana dai Primati (prima tr. it. L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto col sesso, Torino 1871). Per supportare la sua idea di una continuità uomo-primati inferiori lo studioso inglese analizzò le espressioni delle emozioni sia nell’uomo, sia in altri mammiferi, più o meno vicini filogeneticamente all’uomo, rilevando — a suo parere — una serie di analogie spiegabili solo alla luce della sua teoria evolutiva (The expression of the emotions in man and animals, 1872). Per l’autore le nostre espressioni di stati emotivi, come gioia, paura, disgusto, sarebbero il prodotto di un processo di derivazione da forme animali inferiori, al pari della nostra struttura anatomica e fisiologica. Come hanno notato vari critici, il linguaggio adottato nel libro è antropomorfico e le argomentazioni sono spesso aneddotiche e poco scientifiche. Philip Prodger (1998) ha recentemente dimostrato che una parte delle foto utilizzate da Darwin a sostegno della sua tesi erano state truccate, su esplicita richiesta dello studioso, dal fotografo Oscar Gustave Rejlander. Mancando immagini che raffigurassero espressioni umane spontanee in vari stati psicologici, Rejlander ricorse a vari stratagemmi per accontentare l’autore: ritoccò delle foto, spacciò disegni per fotografie, usò espressioni simulate. Darwin utilizzò anche immagini di volti stimolati con impulsi elettrici per ottenere smorfie e deformazioni che, prima di essere pubblicate, vennero opportunamente ritoccate per nascondere i fili elettrici. Seguirono poi altri lavori, principalmente di botanica, nei quali cercò sempre di dimostrare, con casi specifici, la portata innovativa e creatrice della selezione naturale.La lotta per l’esistenzaLa centralità del concetto di «lotta per l’esistenza» per tutto il darwinismo viene riassunta dalle stesse parole del suo autore: «tra tutti i viventi ed in tutto il mondo, [essa] scaturisce necessariamente dalla loro elevata capacità di moltiplicarsi in ragione geometrica. È, questa, la dottrina di Malthus applicata all’intero regno animale e vegetale. Gli individui di ciascuna specie, che nascono, sono molto più numerosi di quanti ne possano sopravvivere e quindi la lotta per l’esistenza si ripete di frequente. Ne consegue che qualsiasi vivente, che sia variato sia pure di poco, ma in un senso a lui favorevole nell’ambito delle condizioni di vita, che a loro volta sono complesse ed alquanto variabili, avrà maggiori possibilità di sopravvivere e, quindi, sarà selezionato naturalmente. In virtù del possente principio dell’ereditarietà, ciascuna varietà, selezionata in via naturale, tenderà a perpetuare la sua nuova forma modificata» (L’Origine delle specie, tr. it. Roma 1989, p. 43).Due sono i caratteri precipui della selezione naturale: provocare quasi inevitabilmente «l’estinzione delle forme di vita meno perfette», per cui «se una specie non si modifica e perfeziona parallelamente ai concorrenti, ben presto sarà sterminata» (ibidem, p. 114), e indurre la «divergenza dei caratteri», ossia la loro differenziazione e specializzazione, modo attraverso il quale certi individui possono occupare nuovi ambienti, nuovi habitat liberi o non perfettamente occupati da altri viventi (cfr. ibidem, pp. 43, 124). La competizione più aspra avviene tra le specie più affini per abitudini, costituzione e struttura (cfr. ibidem, p. 126).Il concetto di specieDarwin maturò tra il 1840 e il 1860 una concezione nominalistica di specie. Per lo studioso inglese il termine «specie» è una definizione arbitraria di utilità pratica, in quanto fa riferimento a gruppi di individui simili, ma la specie non si differenzia di molto dalla varietà, che è solo più fluttuante e meno distinta (cfr. ibidem, p. 78). Secondo Darwin le varietà sarebbero specie incipienti: esse si formano come conseguenza inevitabile della lotta per la vita che favorisce qualsiasi variazione, anche lieve e di qualunque origine, purché risulti utile a un individuo nei suoi rapporti con gli altri viventi e con il mondo esterno, variazione che viene ereditata, permettendo così anche ai discendenti di avere migliori possibilità di sopravvivenza (cfr. L’Origine delle specie, pp. 86-87).Rifiuto dell’idea di creazioneUn punto centrale, qualificante, del darwinismo è infine il rifiuto assoluto non soltanto dell’idea di una “creazione immediata delle diverse specie” (creazionismo), ma anche di ogni tipo di cambiamenti improvvisi da una generazione all’altra, il cosiddetto «saltazionismo», ritenuto antiscientifico e miracolistico. La selezione naturale determina la spenceriana sopravvivenza del più adatto agendo con estrema lentezza, come i processi geologici: «il suo potere non ha limiti creativi» (L’Origine delle specie, p. 118). Infatti, attraverso la divergenza (radiazione adattativa), le specie si moltiplicano per formare poi generi, famiglie, ordini tassonomici, ecc. (cfr. ibidem, p. 128). Dalla microevoluzione si passa alla macroevoluzione senza soluzione di continuità. L’accumulo di variazioni conservate dalla selezione naturale «conduce inevitabilmente al graduale progresso dell’organizzazione» dei viventi e «porta verso l’alto», partendo da una condizione originaria in cui tutti i viventi erano «strutturalmente semplicissimi» (ibidem, pp. 136 e 138). Questo quadro, nettamente “progressista”, non è più tipologico, ma radicalmente genealogico e viene simbolizzato dalla figura di un grande albero (cfr. ibidem, p. 130). Ogni classificazione naturale può essere solo genealogica, cioè derivazionista e storica.I problemi del pensiero di DarwinDarwin era perfettamente cosciente delle difficoltà incontrate dalla sua teoria. Di alcune di esse giungerà a dire che «sono talmente gravi che attualmente non ci posso riflettere senza sgomentarmi» (ibidem, p. 167). Egli stesso le classifica in quattro gruppi: a) perché i viventi non presentano un gran numero di forme di transizione? b) Come possono essersi formati degli individui (ad es. il pipistrello) attraverso piccole variazioni da progenitori completamente diversi? O, anche, come possono essersi formati organi così perfetti come l’occhio? c) Come può la selezione naturale far acquisire o modificare istinti altamente raffinati (ad es. quello che guida l’ape a fare cellette di un’incredibile perfezione geometrica)? d) Come spiegare la non fecondità o la produzione di ibridi sterili tra specie diverse, mentre fra varietà non ci sono barriere riproduttive? (cfr. ibidem, p. 167). A queste obiezioni se ne aggiungeranno altre, che Darwin riporterà in un capitolo apposito, aggiunto nella sesta edizione del suo libro. Fra queste, l’osservazione dei suoi critici che molti caratteri non risultavano di alcuna utilità ai loro possessori (è la teoria neutralista); che la selezione naturale non è in grado di rendere conto delle fasi iniziali delle strutture utili (è il classico caso del mimetismo); e che, infine, è più probabile che le nuove specie si manifestino improvvisamente e per mezzo di modificazioni repentine (cfr. ibidem, pp. 199, 202, 217). Si tratta in buona parte di critiche ancora scientificamente valide.Risposte e non-risposte di DarwinPer quel che riguarda l’assenza di forme viventi intermedie tra le varie specie a noi note, Darwin ritiene che queste siano state eliminate dalla selezione naturale, che ha provocato i “vuoti” e la discontinuità che oggi osserviamo. Le varietà “intermedie” avrebbero in sostanza una vita media assai più breve delle forme che originariamente collegavano. L’assenza di anelli di congiunzione fossili tra i gruppi zoologici si spiegherebbe, sempre secondo Darwin, perché le forme di transizione erano composte di un ridotto numero di individui (donde un minor numero di occasioni per fossilizzarsi); perché gli strati geologici furono sottoposti a sconvolgimenti che li hanno alterati (erosione e processi metamorfici); e, infine, perché non di tutti gli organismi possono formarsi e conservarsi dei fossili, deducendone, come conclusione generale, che la documentazione fossile non è rappresentativa della vita sulla terra nel passato. Egli non sa però rispondere al perché si assista alla comparsa improvvisa di molti tipi di organismi viventi (è quella che oggi chiamiamo «esplosione cambriana»), mentre non esistono dei fossili più antichi, essendo gli strati precedenti a questa esplosione né erosi né metamorfosati, per cui avrebbero dovuto permettere la formazione e il mantenimento dei fossili corrispondenti (cfr. ibidem, p. 291). Proprio su questo punto egli dovrà ammettere che «se è vero che numerose specie, appartenenti agli stessi generi ed alle stesse famiglie, sono comparse improvvisamente, [allora] la teoria delle modificazioni lentamente prodotte della selezione naturale subirebbe un colpo mortale. Infatti lo sviluppo di un gruppo di forme, tutte derivanti da un solo progenitore, deve essere stato un processo lentissimo» (ibidem, p. 288). Ancora oggi il mistero permane: infatti, anche se sono stati trovati organismi fossili dei periodi antecedenti al Cambriano (fossili ignoti al tempo di Darwin), questi presentano una morfologia molto diversa da quella degli organismi successivi: non c’è alcuna continuità, ma un salto.Riguardo alla costituzione di organi molto complessi Darwin scrisse con una certa “imprudenza”: «se si potesse dimostrare che esiste un qualsiasi organo complesso che non può essersi formato tramite molte tenui modificazioni successive, la mia teoria crollerebbe completamente» (ibidem, p. 178). La comparsa delle varie morfologie dei viventi, inutile dirlo, è vista solo come frutto di utilità e di adattamento, e non avrebbe senso alcuno valutare queste sotto l’aspetto della bellezza, della piacevolezza o della varietà gratuita: se una dottrina che attribuisse importanza a questi fattori fosse vera — egli riconosce — «sarebbe assolutamente fatale per la mia teoria» (cfr. ibidem, pp. 184-185). Analoga procedura logica viene usata per rispondere alla terza obiezione sul potere della selezione naturale di dare forma a istinti altamente raffinati, sebbene analizzando le caste delle formiche vi trova una tale perfezione organizzativa e strutturale da riconoscere di aver incontrato in questo ambito «la maggior difficoltà» per la sua teoria (ibidem, p. 241).La critica del darwinismo classico alla luce di alcuni studi recentiIn alcuni ambiti, le idee del naturalista inglese sono state abbandonate anche dai suoi seguaci più “ortodossi”: ci riferiamo alla convinzione che i caratteri acquisiti siano ereditabili, e alla concezione nominalistica e convenzionale delle specie viventi, per limitarci agli esempi più rilevanti. In linea più generale, la prima e principale obiezione riguarda la pretesa di far derivare tutta la ricchezza morfogenetica e fenomenica della natura vivente (che presenta, fra l’altro, un certo ordine ed armonia), da un puro meccanicismo basato su processi casuali oppure esclusivamente deterministici. Di fatto, né Darwin, né i suoi continuatori hanno mai potuto fornire in merito spiegazioni convincenti, come mostra oggi un’abbondante bibliografia.L’ambizione esplicativa totalizzante del darwinismo — in modo particolare quella attribuita alla selezione naturale quale suo motore trainante — ha suscitato un comprensibile dibattito quando applicata anche alle facoltà, ai sentimenti e alle convinzioni dell’essere umano, incluse quelle di carattere religioso. Nella sua Autobiografia (cfr. tr. it. 1962, pp. 74ss) Darwin si chiede che valore abbia l’argomentazione con la quale la mente umana, ragionando in termini di causa-effetto e giudicando assai difficile che tutto sia frutto del “cieco caso” o della “cieca necessità”, inferisce l’esistenza di Dio come Causa Prima che possa fondare l’esistenza dell’universo e della natura, uomo compreso. Egli risponde però che questo tipico modo di operare della logica umana potrebbe essere anch’esso il frutto di un processo evolutivo, e dunque non possedere un valore universale. L’idea di Dio, inoltre, potrebbe essere solo una credenza sorta ad un certo stadio dell’evoluzione della specie umana, dalla quale non è stato più possibile liberarsi. Di qui, l’origine del suo agnosticismo. Ma, sulla logica seguita da Darwin, si chiede giustamente Mary Midgley «perché la sfiducia di Darwin fosse così selettiva. Perché dubitava soltanto delle facoltà che lo rendevano propenso a credere e non di quelle che agivano in senso contrario? I motivi addotti a favore della sfiducia sono gli stessi in entrambi i casi. Tutte le credenze, comprese quelle che ci fanno dubitare dell’esistenza di Dio e quelle che la incoraggiano, si sviluppano in noi grazie alle facoltà che ci sono state trasmesse attraverso l’evoluzione e hanno origine nella nostra cultura. Se riteniamo, come faceva Darwin, che questi due fattori possano essere offuscati in modo impercettibile dall’eredità di caratteristiche acquisite culturalmente, la diffidenza deve estendersi a tutto, perché ogni nostro pensiero è oggetto in egual misura a una corruzione non individuabile» (Scienza come salvezza. Un mito moderno e il suo significato, Genova 2000, pp. 130-131). Come ha inoltre osservato anche Thomas Nagel, il funzionalismo utilitaristico, che sottende tutta la teoria darwiniana, finisce con lo svalutare inevitabilmente ogni capacità umana di giungere alla verità (cfr. Uno sguardo da nessun luogo, Milano 1990). Una volta che tutte le facoltà e i modi del pensiero umano sono compresi come conseguenze dell’evoluzione darwiniana, anche limitandoci alla sola sfera delle doti razionali, ci possiamo chiedere quale utilità rivestano, o abbiano rivestito nel corso dell’evoluzione, tutta una serie di facoltà complesse, come ad esempio il ragionamento di tipo matematico, che, tra l’altro, non possono essere “ridotte” a substrati elementari. Un’obiezione di questo genere era stata già avanzata da A.R. Wallace (vedi supra, III), il quale, diversamente da Darwin, era molto cauto nell’attribuire alla selezione naturale ogni genere di emergenza e rifiutava una spiegazione utilitaristica del sorgere e dell’affermarsi dell’etica in seno alla comunità umana, per cui non esitava a porre ben definiti “limiti interpretativi” alla teoria dell’evoluzione, della quale era peraltro anch’egli sostenitore (cfr. A.R. Wallace, Contribution to the Theory of Natural Selection, London 1870, e Darwinism, London 1889). Quando la natura smentisce il darwinismoNon poche delle apparenze del mondo animale ricondotte da Darwin all’azione della selezione naturale si è poi visto che non ammettevano certamente questo tipo di lettura. Fra queste, la comparsa dei cosiddetti «sosia australiani» (cfr. L’Origine delle specie, p. 401), mammiferi marsupiali che riproducono la morfologia di mammiferi placentati (lupo, gatto, scoiattolo, ecc.) e che vivono in altri continenti. Oggi sappiamo che le due linee, dopo la biforcazione da un ipotetico progenitore comune, vissero separate per circa 100 milioni di anni in condizioni ambientali molto differenti, senza alcuna possibilità di incrocio (cfr. Koestler, 1980, p. 241). Il mimetismo animale e vegetale ci offre una tale ricchezza di forme che risulterebbe impossibile spiegare in un’ottica “opportunistica”, mentre un obiettivo esame di tali morfologie lascia intravedere una rete di modelli geometrici sottostanti che, nella loro astoricità, rimandano a un mondo di forme e di proporzioni determinato da leggi di tipo strutturale. Cercando di spiegare la morfologia dell’insetto-foglia in termini di imitazione di una struttura vegetale con la quale mimetizzarsi, sfuggendo così ai predatori, Darwin ignorava che la comparsa dell’insetto-foglia precedette quella delle foglie sotto le quali esso si sarebbe poi mimetizzato. Analogamente, la sua convinzione che la selezione naturale desse ragione della infinita diversità strutturale e funzionale della bocca degli insetti, “adattatasi” col tempo alle strutture floreali, sarà superata da ricerche posteriori. Sulla base dei reperti fossili, Labandeira e Sepkoski hanno dimostrato che, in concomitanza con l’espansione delle varie famiglie degli insetti, quasi il 90% degli apparati boccali oggi noti si erano differenziati (cfr. Insect Diversity in the Fossil Record, “Science” 261 (1993), pp. 310-315). Questo avveniva cento milioni di anni prima che apparissero le angiosperme (piante con fiori), quasi che gli insetti avessero “costruito”, in modo del tutto autonomo, le loro strutture atte ad assumere il nutrimento, ma “sapendo” già quali sarebbero state le future conformazioni dei fiori, in modo da essere “preparati” a usufruire delle nuove possibilità di alimentazione offerte dalla natura.Incompletezza dell’analisi di DarwinÈ anche opportuno notare la presenza di una certa implicita tautologia insita nel concetto spenceriano di “sopravvivenza del più adatto”. La scarsa scientificità di questa idea è stata evidenziata, da differenti punti di vista, da vari studiosi. Fra essi, il citogenetista Antonio Lima-de-Faria (1988), il panbiogeografo Leon Croizat (1987), il matematico René Thom (1983), il genetista Giuseppe Sermonti (1999), lo zoologo Wolfgang Kuhn (1990). Secondo lo zoologo francese Pier-Paul Grassé, Darwin attribuisce alla selezione naturale doti di “divinazione”, di “profezia”, dato che per scegliere deve «prevedere il ruolo futuro dell’organo in formazione. In assenza di questa previsione, la coordinazione degli stati successivi diventa incomprensibile. Darwin ci ha pensato?» (Grassé, 1979, p. 156). L’osservazione critica, che vale per tutti gli organi assai complessi (occhio compreso), ha in realtà un carattere più generale, volendo mettere in luce che l’autore de L’Origine delle specie non ha mai preso in considerazione i processi che hanno dato vita alle relazioni tra le parti. L’approccio meccanicistico-casualista di Darwin cercava di spiegare (in modo insufficiente) la comparsa delle singole parti di un organismo, ma non il formarsi di una interazione armonica tra queste, interazione alla quale egli non può fare a meno di far riferimento quando afferma che il cambiamento di una parte dell’organismo comporta un cambiamento bilanciato di altre parti. Darwin si è fermato ad un approccio puntiforme, prendendo come dato di fatto la cornice relazionale di tipo organicista e olista, senza fornirle tuttavia un’adeguata spiegazione.Alla concezione darwiniana della natura come cieco fluire continuo che, come osserva opportunamente René Thom, ha preteso di eliminare «la problematica della forma in biologia» (Thom, 1983, p. 18; cfr. anche Thom, 1980), si oppongono, oggi come ieri, anche i dati della paleontologia. La nostra conoscenza odierna in proposito, non più frammentaria e carente come all’epoca del naturalista inglese, ci assicura che i fossili contenuti negli strati geologici sono effettivamente rappresentativi degli organismi vissuti in passato sulla Terra, cioè che la documentazione fossile è sufficientemente adeguata da smentire l’idea di un lento processo lineare di «modificazioni ereditarie infinitesimalmente piccole», cioè di variazioni graduali, minime, cumulative degli organismi (cfr. ad es. M.J. Benton, M.A. Wills, R. Hitchin, Quality of the fossil record through time, “Nature” 403 (2000), pp. 534-537). Le argomentazioni impiegate da Darwin per rispondere ai suoi critici incontrerebbero oggi problemi assai maggiori. Infatti, le ipotetiche forme di transizione, per quanto poco numerose, non possono essere scomparse nel nulla e gli strati geologici non sono così diffusamente alterati come si riteneva all’epoca. Quanto i geologi osservano non sono cambiamenti graduali ma sussulti irregolari e rapidi, nei quali le specie compaiono improvvisamente, rimangono pressoché inalterate per l’intera durata della loro storia, e poi scompaiono all’improvviso (cfr. D. Raup, Conflicts between Darwin and Paleontology, “Field Museum of Natural History Bulletin” (Chicago) 50 (1979), n. 1, pp. 22-29). Il superamento di DarwinSuperata la concezione gradualista di Darwin, riacquista credibilità il saltazionismo (evoluzione con pause e scatti improvvisi), motivo dell’assenza dei cosiddetti «anelli di congiunzione» tra i vari gruppi tassonomici. Si è fatta strada in biologia, negli ultimi decenni, una concezione della specie che ricorda quanto affermato tempo addietro dalla teoria organicista, che poneva una analogia tra “specie” e “macro-organismo” o “super-individuo”: la specie, in sostanza, non sarebbe più vista come la semplice somma di tanti individui, ma come una realtà vivente e unitaria, costituita da organismi diversi, così come ogni organismo è composto da cellule. Per cui, al pari degli individui, le specie nascono, vivono più o meno a lungo e poi muoiono.Forzature per dimostrare le teorie di DarwinNon è forse senza significato, infine, segnalare che l’insistente desiderio di trovare “anelli mancanti” in alcune genealogie evolutive ricostruite con criteri darwiniani abbia talvolta condotto ad interpretare reperti in modo affrettato e superficiale, quando non a proporre — in alcuni casi — dei veri e propri “falsi storici”. Si possono ricordare, ad esempio, l’uomo-scimmia di Piltdown, costituito da ossa di uomo accostate a quelle di una scimmia (forse un orango), o il rettile-uccello battezzato col nome di Archaeoraptor liaoningensis, successivamente riconosciuto come un artefatto ottenuto unendo il fossile del corpo di un uccello a quello della coda di un rettile, e non a caso ribattezzato ironicamente “Piltdown bird” (cfr. J. Hecht, Piltdown bird, “New Scientist”, 29.1.2000, p. 12). Sembrerebbe quasi che, non potendo la documentazione paleontologica fornire gli “anelli di congiunzione”, occorresse crearli a tavolino. Atteggiamenti inconsciamente favoriti da quella singolare “logica delle possibilità” utilizzata dallo stesso Darwin e che, come messo in luce da Himmelfarb (1974), lo conduceva a convincersi che varie possibilità si sommassero insieme per generare delle probabilità, e che queste ultime, sommandosi ulteriormente l’una all’altra, generassero una certezza. Egli assumeva infatti che la mera “possibilità” di immaginare una serie di passaggi intermedi tra una condizione organica ed un’altra doveva essere accettata come ragione valida per ritenere “probabili” questi passaggi, portando così a far credere praticamente “certo” il loro verificarsi. Centrata sul meccanismo della selezione naturale, la capacità esplicativa della sua teoria veniva ritenuta da lui sufficiente per accettare i fatti che se ne mostravano in accordo e guardare con sospetto quelli che se ne distaccavano.Il darwinismo socialeFra le correnti di pensiero che traggono la loro origine dalle idee di Charles Darwin va annoverato quanto conosciuto col nome di “darwinismo sociale”. Leggiamo in una pagina de L’Origine dell’uomo: «Il progresso della prosperità del genere umano è un problema intricatissimo; tutti quelli che non possono evitare una grande povertà per i figli dovrebbero astenersi dal matrimonio, perché la povertà non è soltanto un gran male, ma con la prole tende ad aumentare. D’altra parte, come ha notato Galton, se i prudenti si astengono dal matrimonio, mentre i negligenti si sposano, membri inferiori della società tenderanno a soppiantare i membri migliori. L’uomo, come qualunque altro animale, ha senza dubbio progredito fino alla sua condizione attuale attraverso una lotta per l’esistenza, frutto del suo rapido moltiplicarsi; e, per progredire ed elevarsi ancora di più, deve andar soggetto ad una dura lotta. Altrimenti egli in breve cadrebbe nell’indolenza, e gli uomini più dotati non riuscirebbero meglio nella battaglia della vita dei meno dotati [...]. Le leggi e i costumi non devono impedire ai più abili di riuscire meglio e di allevare un numero più grande di figli» (tr. it. Milano 1997, pp. 414-415). Vi troviamo enunciati i princìpi-base del darwinismo sociale, che alcuni attribuiscono riduttivamente al solo Francis Galton (cfr. Hereditary Genius, London 1869, Natural inheritance, London 1889) e ai suoi continuatori, teorici dell’eugenetica, forse volendo allontanare da Darwin questa pesante responsabilità. Un’ideologia fonte di discriminazioniNon sfugge infatti il potenziale negativo in essi contenuto, al teorizzare una discriminazione sociale ove i poveri e i meno dotati sono considerati “inferiori” e l’uomo viene ricondotto alla pura dimensione animale, di un “animale”, oltretutto, frutto esso stesso di una visione ideologica preconcetta. Siamo in presenza di una antropologia fortemente riduzionista, che caratterizzerà le varie forme di darwinismo sociale, il cui terreno più favorevole si riscontra purtroppo in quelle nazioni dominate da una visione fortemente competizionista della società e dei popoli. Non andiamo troppo lontano se affermiamo che l’idea della “sopravvivenza del più adatto” si è tramutata tristemente in un’ideologia con la quale alcuni hanno voluto giustificare l’espansionismo, l’imperialismo ed alcune forme di capitalismo. Parallelamente, i libri di Darwin riscossero un ampio successo tra il pubblico americano.La sociobiologia: estirpare l’altruismo dalla societàÈ in ambito anglosassone, ove non sono certo assenti forme di forte competitività economica e sociale, che si è principalmente sviluppata negli anni Settanta un’espressione assai sofisticata del darwinismo sociale: la sociobiologia, che, in sintesi, sostiene che altruismo e rispetto per il prossimo costituirebbero dei “difetti biologici” da evitare. Sulla scia di questo pensiero, un gruppo di “bioeconomisti” affermerà con enfasi che «il capitalismo è insito nei nostri geni». Secondo la rivista Business Week (10.4.78), molto vicina a questo gruppo, la moderna ricerca scientifica avrebbe “dimostrato” che competizione e interesse personale, importanti in modo essenziale nell’economia di mercato “pura”, stanno anche alla base dei processi della natura, per cui esisterebbe una forte analogia, un accordo di fondo assai stretto, fra concezioni iperliberiste e selezione naturale, tra capitalismo privo di ogni controllo e biologia evoluzionista.Etica sociale: un divenire utilitaristicoUn altro campo in cui il darwinismo ha incontrato nuovi teorizzatori è quello dell’etica sociale. Privata di qualsiasi reale valore in sé, tale disciplina è stata reimpostata in chiave evoluzionista, in perenne divenire, secondo quell’ottica funzionalista e utilitarista che trovavamo già presente in Darwin. Esponente di tali posizioni, Bentley Glass (1967) scriveva anni addietro: «L’etica di una società umana statica non può far fronte a una situazione evolutiva. Essa deve essere rimpiazzata da un’etica che tenga conto della natura umana in evoluzione sia biologica che culturale. La nostra crescente saggezza deve essere basata su una visione evolutiva del passato, del presente e del futuro dell’uomo, e su una conoscenza dei modi in cui il processo evolutivo può essere controllato» (The centrality of evolution in biology teaching, p. 705). Osservava in proposito, con toni intenzionalmente provocanti, Giuseppe Sermonti (1974): «Questo innocente discorso è in realtà una serie di disinvolte mistificazioni. Bentley Glass, e con lui tutti gli evoluzionisti contemporanei, sanno benissimo che la natura umana non è affatto in evoluzione biologica, e che per almeno cinquantamila anni rimarremo identici a quelli che siamo, sempre nell’ipotesi che non intervenga una degenerazione. Per quanto riguarda l’“evoluzione culturale”, se essa deve significare la lotta per la vita trasferita sul piano delle ideologie, allora non resta che attendersi una catena di sopraffazioni spirituali senza altra misura che il successo, una trasformazione irresponsabile di idee e di costumi, sostenuta dalla pretesa che comunque si proceda si andrà verso il bene, purché si proceda.Il darwinismo, punto di riferimento culturaleDarwin ha influenzato e continua a influenzare il pensiero di tutto l’Occidente in moltissimi campi. In accordo con le concezioni da lui suggerite, il darwinismo è entrato in settori al di fuori della biologia, come la psicologia, l’etica, l’economia, la sociologia, ecc. Darwin fu apprezzato da Marx ed Engels per aver demolito il modo di pensare teleologico e per aver fornito il fondamento storico-naturale del loro programma, anche se il rapporto tra lo studioso inglese e quello tedesco è controverso (cfr. Christen, 1982). Freud (1856-1939) paragonò il mutamento della concezione in merito al posto dell’uomo nella natura al passaggio dal narcisismo infantile all’amore oggettuale, introducendo nella sua antropologia il concetto di “orda primordiale darwiniana”. La visione della natura di Charles Darwin è stata presentata, non a torto, come il coronamento del pensiero meccanicista di Descartes, come la bandiera del libero pensiero e del progresso contro l’“oscurantismo” di coloro che trasmettevano conoscenze in modo acritico e tradizionalista. Ma ha costituito anche il simbolo, occorre riconoscerlo, di un dogmatismo feroce, di una fede secolare, basata su una concezione materialista e meccanicista della natura e della vita. Come ammette Mauro Ceruti, evoluzionista eterodosso, con Darwin «furono poste le basi per una concezione atomistica degli organismi, intesi come entità riducibili alla somma delle loro parti e quindi scomponibili in singoli “caratteri” o “tratti” che possono variare indipendentemente da tutti gli altri caratteri» (Ceruti, 1995, p. 27). Le scoperte scientifiche recenti ridimensionano le teorie di DarwinAlla luce del pensiero scientifico contemporaneo, sappiamo oggi che le variazioni ed i mutamenti posseggono dei vincoli imposti dalle interazioni fra tutte le parti dell’organismo, o meglio, dall’organismo inteso come un tutto e come un intero, nel quale si danno dinamismi e coordinamento funzionali, nel quale lo sviluppo, le variazioni e l’adattamento, paiono rispondere più a delle tendenze intrinseche che al caso o alla lotta per la sopravvivenza. Il sostantivo «evoluzione» resta certamente uno dei concetti centrali di tutta la biologia, ma l’aggettivo «darwiniano» è ormai oggetto di dibattito e di revisione sempre crescenti.Lo spirito ottocentesco, humus per l’evoluzionismo di DarwinCome l’uniformitarianismo di Lyell fu influenzato dal monismo materialista, così l’evoluzionismo di Darwin risentì dello spirito del tempo, cioè delle idee filosofiche dominanti nella cultura di allora. Sul piano metodologico, ad esempio, l’ottimismo, che caratterizzava la mentalità del XIX secolo, spinse gli scienziati dell’epoca a pensare che tutti i fenomeni naturali potessero essere compresi in una semplice sintesi scientifica, in perfetto accordo con l’idea di un progresso continuo verso un mondo migliore, idea che rappresentava in fondo una versione materialista e secolarizzata della concezione escatologica cristiana. Analogamente, il generalizzato metodo riduzionista impiegato da Darwin era l’espressione, in biologia, di quel meccanicismo ottocentesco che aveva posto l’accento della conoscenza scientifica esclusivamente sulla quantità e sulla materia.Più filosofo che scienziatoRiteniamo che il contributo di Darwin fu di carattere più “filosofico” che scientifico in senso stretto. Egli non fu autore di vere e proprie scoperte, ma propose una lettura completamente diversa di quanto altri avevano fatto in precedenza. Utilizzò, ad esempio, molti dei dati raccolti da un altro naturalista, lo zoologo Edward Blyth, ma mentre questi sosteneva la sostanziale inalterabilità delle specie, pur riconoscendo l’esistenza dei fenomeni di variazione, selezione ed eredità, Darwin li lesse alla luce dell’evoluzione delle specie. Secondo Blyth la selezione in natura avrebbe svolto e svolgerebbe un ruolo unicamente conservatore; Darwin, invece, finì col rovesciare le conclusioni alle quali Blyth era arrivato. Siamo probabilmente di fronte ad un classico caso di “rivoluzione scientifica” nel senso usato da Kuhn (cfr. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1978): si impone un nuovo orizzonte teorico, e quindi emergono nuovi paradigmi esplicativi e interpretativi della realtà naturale che sostituiscono i precedenti, ritenuti meno efficaci nello spiegare l’insieme dei dati disponibili.Tentativo di svincolarsi dalla visione religiosa del mondoNella formulazione della teoria evoluzionista di Darwin confluirono vari elementi, già analizzati in precedenza, che operarono a livelli diversi, a volte in modo diretto, altre implicito. Fra questi, la particolare psicologia del suo autore e la sua storia personale; l’influenza del nonno Erasmus di fede illuminista e deista; la lettura di libri di filosofi, economisti e sociologi, di indirizzo materialista e liberista; le idee dominanti nello spirito inglese dell’epoca vittoriana (ottimismo verso il progresso, competizionismo, scientismo incipiente, capitalismo); la prospettiva geologica “attualista” di Hutton e Lyell, secondo la quale nel passato agirono con gradualità le stesse forze operanti nel presente (opposta al catastrofismo). Ma il significato ultimo del messaggio darwiniano è che l’ordine e l’armonia non discendono da un’“autorità” predestinata o dalle leggi con cui essa governa la natura, bensì sorgono “spontaneamente” dalla lotta che gli individui intraprendono per la loro sopravvivenza. In questo si può cogliere un certo spirito di emancipazione dalla religione (e dall’autorità) di cui Darwin si sentì personalmente investito, anche a motivo delle sue vicende personali, il suo desiderio di non obbedire più a nulla e a nessuno e di competere liberamente con gli altri a modo proprio, obbedendo alla propria natura e alle proprie inclinazioni. Ragioni del successo delle teorie di DarwinLa diffusione e la successiva, quasi generale, accettazione della teoria di Darwin fu anche favorita, a nostro avviso, dall’influenza di fattori extra-scientifici e di sottili “corrispondenze” con lo spirito del tempo. Ne segnaliamo tre: a) il concetto di gradualismo e di continuità, che permeano il darwinismo, erano in perfetto accordo con la concezione vittoriana caratterizzata da un moderato conservatorismo sociale, nemico di ogni sconvolgimento e di ogni cambiamento troppo repentino; b) la certezza che permea tutto il pensiero di Darwin circa il progresso inarrestabile del mondo vivente, da forme meno perfette verso forme più perfette, ben si accordava con l’ottimismo progressista del XIX secolo; c) l’importanza attribuita alla selezione naturale era in piena sintonia con la concezione competitiva legata alla concezione (quasi religiosa) del “libero mercato” preminente in Inghilterra. L’ambiente generale era in fondo già preparato e maturo per recepire un bagaglio di idee che egli stesso aveva contribuito a coagulare in modo implicito.Osservazioni conclusiveL’idea di fondo di Darwin sull’interazione organismo-ambiente era viziata da un approccio di tipo meccanicista, banalmente lineare, dove molta importanza rivestiva il concetto di “stimolo-risposta”, cioè l’idea che l’uso e il non uso degli organi, delle funzioni e dei comportamenti, ne determinasse, rispettivamente, lo sviluppo o il regresso, e quindi potesse influire sui caratteri dell’individuo, facendone mutare il “fenotipo” con effetti ereditari sulla progenie. Ma, in modo più radicale, Darwin distrusse la concezione “creazionista” della natura, che era tipologica (cioè essenzialista in senso platonico), finalistica, fondamentalmente statica, basata sul concetto di armonia prestabilita tra i viventi e tra questi e l’ambiente. Ma così facendo egli contribuì in modo determinante ad operare una lettura assai riduttiva della nozione di creazione, impedendo che se ne valorizzasse una visione filosofico-teologica in accordo con le idee di trasformazione e di evoluzione — non necessariamente legate a quella di selezione naturale — e che pure erano implicite nella Scrittura e ben rintracciabili nella tradizione teologica cristiana, fin dall’epoca patristica. La sua opposizione ad ogni idea di “progetto” o “disegno” di origine divina presente in natura finì col condizionare anche l’immagine del Creatore, assimilato sempre più alla figura di un demiurgo legislatore, che non aveva ormai più ragione di essere scomodato per spiegare l’origine e le morfologie degli esseri viventi.È difficile poter definire Darwin come un grande naturalista, quali furono un Linneo o un Cuvier. Animato da grandi curiosità scientifiche, ma anche da sensibili pregiudizi di fondo, sotto certi aspetti egli fu più dilettante dei suoi predecessori. Proprio questi pregiudizi non gli consentirono di osservare la natura con maggior obiettività, impedendogli di essere un evoluzionista equilibrato, capace di demolire alcune idee errate di tipo fissista e di tracciare con realismo un affresco del mondo vivente in perenne divenire. La sua influenza a livello filosofico è stata tuttavia della massima importanza, non solo per l’immagine della natura che dalla sua teoria è scaturita, ma anche per comprendere la vicenda dei rapporti fra pensiero scientifico e pensiero religioso nell’Ottocento e nel Novecento. Parlare di Darwin e delle sue idee significa parlare di noi stessi, del nostro tempo e delle sue radici ideologico-culturali. Non è affatto un puro argomentare astratto. Infatti, come ha giustamente scritto Arnold Gehlen (1983) «Il bisogno, avvertito da chi riflette, di interpretare la propria esistenza umana non è un bisogno meramente teoretico. Secondo le decisioni implicite in tale interpretazione, si rendono visibili o invece si occultano determinati compiti. Che l’uomo si concepisca come creatura di Dio oppure come scimmia arrivata implica una netta differenza nel suo atteggiamento verso i fatti della realtà; nei due casi si obbedirà a imperativi in sé diversissimi» (p. 35).