Tratto dalla voce “Charles Darwin” a cura di Giovanni Monastra, del Dizionario interdisciplinare di scienza e fede
Uno sguardo approfondito su uno dei “padri” del pensiero contemporaneo
È il nome forse più citato nell’attuale dibattito scientifico-culturale, emblema dell’opposizione tra scienza e fede e fondatore di un “nuovo corso” nella comprensione dell’uomo. Documentazione.info presenta qui in forma ridotta (per la versione integrale cliccare qui) un’ampia disamina della figura del naturalista inglese (1809-1882), forse più rilevante in campo filosofico che in quello scientifico. Si presentano inoltre obiezioni al darwinismo avanzate da studiosi in entrambi i campi.Le radici intellettuali di Darwin… Darwin era avido di letture di carattere economico e sociologico. Ancor più dell’influenza dei naturalisti e dei geologi del suo tempo, egli subì quella di autori come il demografo e sociologo ecclesiastico Robert Malthus (1766-1834), l’economista liberista Adam Smith (1723-1790) e lo statistico Lambert-Adolphe Quételet (1796-1874), oltre che quella dei filosofi materialisti Herbert Spencer (1820-1903) e Auguste Comte (1798-1857), autori ai quali riserverà, quasi sempre, riconoscimenti espliciti nelle sue opere, come nel caso di Malthus, di cui lesse nel 1838 il suo Saggio sul principio di popolazione (1798). Sulla base della osservazione che le popolazioni aumentano in progressione geometrica, mentre le disponibilità alimentari si accrescono solo in progressione aritmetica, Malthus affermava che, se non si fosse intervenuto con mezzi artificiali, le popolazioni sarebbero andate inevitabilmente incontro a gravissime crisi alimentari periodiche, che ne avrebbero determinato la decimazione per fame e malattie. Darwin trasse da queste riflessioni l’idea del ruolo importantissimo della “selezione naturale”, che successivamente coniugò con la definizione spenceriana della “sopravvivenza del più adatto”.Egli aveva ormai maturato l’idea che le specie non sono immutabili, contrariamente a quanto affermato dai fissisti; ma nell’affermarlo, come scrisse in una lettera a Hooker l’11 gennaio del 1844, aveva quasi l’impressione di «confessare di aver commesso un assassinio», sebbene quattro anni più tardi, in una nuova lettera allo stesso Hooker (10 maggio 1848), non esiterà a paragonare l’autorevolezza della sua teoria delle specie «a quella del vangelo» (sic!). La concezione darwiniana dell’evoluzione costituiva l’estensione al campo biologico del principio del laissez-faire economico di Smith. Tale principio postulava che un’economia ordinata ed assicuratrice del massimo benessere per tutti poteva essere realizzata solo lasciando che gli individui fossero liberi di competere l’uno con l’altro, seguendo unicamente la propria utilità, senza interventi di autorità super partes esterne al campo dell’economia, le cui leggi divenivano totalizzanti e invadenti per l’intera società. Da questa lotta sarebbero derivati “spontaneamente” ordine e armonia sociale, perché eliminati gli inefficienti e gli incapaci e favoriti i migliori e più dotati. Come sottolineato da Elders (1984), sotto certi aspetti anche Comte fu tra gli ispiratori di Darwin, specie per quel che riguarda la contrapposizione fra l’idea della vera scienza e la teologia (Positivismo). Darwin andò così maturando il progetto di una biologia positivista, libera da interferenze religiose. Ciononostante, egli non ammise mai il suo debito verso Comte, al punto da eliminare dal suo diario alcune pagine riferite a questo filosofo.La teoria evoluzionistaLa teoria di Darwin si caratterizza per il particolare meccanismo con il quale egli intende spiegare il divenire dei viventi: a suo parere tutta la varietà che oggi osserviamo in natura sarebbe derivata da pochi individui originari, o forse anche da uno solo, e si sarebbe formata attraverso il lento accumulo di piccole variazioni, insorte in alcuni individui e poi trasmesse alla prole. Queste sarebbero di due tipi: variazioni indotte dall’uso o dal non uso di un organo o di una funzione (eredità dei caratteri acquisiti, che egli condivideva con Lamarck) e variazioni del tutto casuali, di origine ignota (quelle che oggi chiamiamo «mutazioni»).Tre premesse fondamentali del darwinismoa) gli organismi variano; b) queste variazioni possono essere ereditate; c) tutti gli organismi sono soggetti alla “lotta per la vita” nella quale le variazioni favorevoli vengono preservate dalla selezione naturale, che riveste un ruolo “creativo”. Mentre le prime due sono osservazioni obiettive con fondamento sperimentale, la terza assume una forte carica filosofica e resta alquanto discutibile. Altri autori, come Linneo, Buffon e de Candolle, avevano già parlato di «lotta per la vita», anche a proposito delle piante, sebbene nel mondo animale questa veniva principalmente ristretta ai rapporti di predazione. Darwin, da parte sua, estese in modo parossistico questo concetto, suggestionato dalle idee di Malthus, focalizzandolo in particolare sul problema della disponibilità delle risorse. Le principali obiezioni alla terza “premessa fondamentale” del darwinismo classico sono due: il “competizionismo” esasperato trascura la cooperazione esistente in natura a vari livelli; inoltre, come osservato da moltissimi biologi e naturalisti, sia contemporanei a Darwin che a lui successivi, attribuire alla selezione naturale un “ruolo creativo” resta una pura ipotesi, mai dimostrata. Di quest’ultima, Darwin ne “dilata” il peso, proponendo un meccanismo “selezionista” per spiegare la nascita di nuove specie attraverso la fase di “varietà” (teoria della speciazione) per poi applicarlo anche alla comparsa dei gruppi tassonomici superiori alla specie, quali generi, famiglie, ordini, classi (teoria generale), attraverso un’estensione del tutto gratuita: in altre parole egli intende spiegare la macroevoluzione con i meccanismi della microevoluzione.Il tema delle origini dell’uomoDopo averlo deliberatamente evitato ne Le origini delle specie, Darwin dedicò a tale tema un’opera successiva The descent of man and Selection in Relation to Sex (1871), che provocò accesi dibattiti in quanto vi si sosteneva la tesi delle origini della specie umana dai Primati (prima tr. it. L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto col sesso, Torino 1871). Per supportare la sua idea di una continuità uomo-primati inferiori lo studioso inglese analizzò le espressioni delle emozioni sia nell’uomo, sia in altri mammiferi, più o meno vicini filogeneticamente all’uomo, rilevando — a suo parere — una serie di analogie spiegabili solo alla luce della sua teoria evolutiva (The expression of the emotions in man and animals, 1872). Per l’autore le nostre espressioni di stati emotivi, come gioia, paura, disgusto, sarebbero il prodotto di un processo di derivazione da forme animali inferiori, al pari della nostra struttura anatomica e fisiologica. Come hanno notato vari critici, il linguaggio adottato nel libro è antropomorfico e le argomentazioni sono spesso aneddotiche e poco scientifiche. Philip Prodger (1998) ha recentemente dimostrato che una parte delle foto utilizzate da Darwin a sostegno della sua tesi erano state truccate, su esplicita richiesta dello studioso, dal fotografo Oscar Gustave Rejlander. Mancando immagini che raffigurassero espressioni umane spontanee in vari stati psicologici, Rejlander ricorse a vari stratagemmi per accontentare l’autore: ritoccò delle foto, spacciò disegni per fotografie, usò espressioni simulate. Darwin utilizzò anche immagini di volti stimolati con impulsi elettrici per ottenere smorfie e deformazioni che, prima di essere pubblicate, vennero opportunamente ritoccate per nascondere i fili elettrici. Seguirono poi altri lavori, principalmente di botanica, nei quali cercò sempre di dimostrare, con casi specifici, la portata innovativa e creatrice della selezione naturale.La lotta per l’esistenzaLa centralità del concetto di «lotta per l’esistenza» per tutto il darwinismo viene riassunta dalle stesse parole del suo autore: «tra tutti i viventi ed in tutto il mondo, [essa] scaturisce necessariamente dalla loro elevata capacità di moltiplicarsi in ragione geometrica. È, questa, la dottrina di Malthus applicata all’intero regno animale e vegetale. Gli individui di ciascuna specie, che nascono, sono molto più numerosi di quanti ne possano sopravvivere e quindi la lotta per l’esistenza si ripete di frequente. Ne consegue che qualsiasi vivente, che sia variato sia pure di poco, ma in un senso a lui favorevole nell’ambito delle condizioni di vita, che a loro volta sono complesse ed alquanto variabili, avrà maggiori possibilità di sopravvivere e, quindi, sarà selezionato naturalmente. In virtù del possente principio dell’ereditarietà, ciascuna varietà, selezionata in via naturale, tenderà a perpetuare la sua nuova forma modificata» (L’Origine delle specie, tr. it. Roma 1989, p. 43).Due sono i caratteri precipui della selezione naturale: provocare quasi inevitabilmente «l’estinzione delle forme di vita meno perfette», per cui «se una specie non si modifica e perfeziona parallelamente ai concorrenti, ben presto sarà sterminata» (ibidem, p. 114), e indurre la «divergenza dei caratteri», ossia la loro differenziazione e specializzazione, modo attraverso il quale certi individui possono occupare nuovi ambienti, nuovi habitat liberi o non perfettamente occupati da altri viventi (cfr. ibidem, pp. 43, 124). La competizione più aspra avviene tra le specie più affini per abitudini, costituzione e struttura (cfr. ibidem, p. 126).Il concetto di specieDarwin maturò tra il 1840 e il 1860 una concezione nominalistica di specie. Per lo studioso inglese il termine «specie» è una definizione arbitraria di utilità pratica, in quanto fa riferimento a gruppi di individui simili, ma la specie non si differenzia di molto dalla varietà, che è solo più fluttuante e meno distinta (cfr. ibidem, p. 78). Secondo Darwin le varietà sarebbero specie incipienti: esse si formano come conseguenza inevitabile della lotta per la vita che favorisce qualsiasi variazione, anche lieve e di qualunque origine, purché risulti utile a un individuo nei suoi rapporti con gli altri viventi e con il mondo esterno, variazione che viene ereditata, permettendo così anche ai discendenti di avere migliori possibilità di sopravvivenza (cfr. L’Origine delle specie, pp. 86-87).Rifiuto dell’idea di creazioneUn punto centrale, qualificante, del darwinismo è infine il rifiuto assoluto non soltanto dell’idea di una “creazione immediata delle diverse specie” (creazionismo), ma anche di ogni tipo di cambiamenti improvvisi da una generazione all’altra, il cosiddetto «saltazionismo», ritenuto antiscientifico e miracolistico. La selezione naturale determina la spenceriana sopravvivenza del più adatto agendo con estrema lentezza, come i processi geologici: «il suo potere non ha limiti creativi» (L’Origine delle specie, p. 118). Infatti, attraverso la divergenza (radiazione adattativa), le specie si moltiplicano per formare poi generi, famiglie, ordini tassonomici, ecc. (cfr. ibidem, p. 128). Dalla microevoluzione si passa alla macroevoluzione senza soluzione di continuità. L’accumulo di variazioni conservate dalla selezione naturale «conduce inevitabilmente al graduale progresso dell’organizzazione» dei viventi e «porta verso l’alto», partendo da una condizione originaria in cui tutti i viventi erano «strutturalmente semplicissimi» (ibidem, pp. 136 e 138). Questo quadro, nettamente “progressista”, non è più tipologico, ma radicalmente genealogico e viene simbolizzato dalla figura di un grande albero (cfr. ibidem, p. 130). Ogni classificazione naturale può essere solo genealogica, cioè derivazionista e storica.I problemi del pensiero di DarwinDarwin era perfettamente cosciente delle difficoltà incontrate dalla sua teoria. Di alcune di esse giungerà a dire che «sono talmente gravi che attualmente non ci posso riflettere senza sgomentarmi» (ibidem, p. 167). Egli stesso le classifica in quattro gruppi: a) perché i viventi non presentano un gran numero di forme di transizione? b) Come possono essersi formati degli individui (ad es. il pipistrello) attraverso piccole variazioni da progenitori completamente diversi? O, anche, come possono essersi formati organi così perfetti come l’occhio? c) Come può la selezione naturale far acquisire o modificare istinti altamente raffinati (ad es. quello che guida l’ape a fare cellette di un’incredibile perfezione geometrica)? d) Come spiegare la non fecondità o la produzione di ibridi sterili tra specie diverse, mentre fra varietà non ci sono barriere riproduttive? (cfr. ibidem, p. 167). A queste obiezioni se ne aggiungeranno altre, che Darwin riporterà in un capitolo apposito, aggiunto nella sesta edizione del suo libro. Fra queste, l’osservazione dei suoi critici che molti caratteri non risultavano di alcuna utilità ai loro possessori (è la teoria neutralista); che la selezione naturale non è in grado di rendere conto delle fasi iniziali delle strutture utili (è il classico caso del mimetismo); e che, infine, è più probabile che le nuove specie si manifestino improvvisamente e per mezzo di modificazioni repentine (cfr. ibidem, pp. 199, 202, 217). Si tratta in buona parte di critiche ancora scientificamente valide.Risposte e non-risposte di DarwinPer quel che riguarda l’assenza di forme viventi intermedie tra le varie specie a noi note, Darwin ritiene che queste siano state eliminate dalla selezione naturale, che ha provocato i “vuoti” e la discontinuità che oggi osserviamo. Le varietà “intermedie” avrebbero in sostanza una vita media assai più breve delle forme che originariamente collegavano. L’assenza di anelli di congiunzione fossili tra i gruppi zoologici si spiegherebbe, sempre secondo Darwin, perché le forme di transizione erano composte di un ridotto numero di individui (donde un minor numero di occasioni per fossilizzarsi); perché gli strati geologici furono sottoposti a sconvolgimenti che li hanno alterati (erosione e processi metamorfici); e, infine, perché non di tutti gli organismi possono formarsi e conservarsi dei fossili, deducendone, come conclusione generale, che la documentazione fossile non è rappresentativa della vita sulla terra nel passato. Egli non sa però rispondere al perché si assista alla comparsa improvvisa di molti tipi di organismi viventi (è quella che oggi chiamiamo «esplosione cambriana»), mentre non esistono dei fossili più antichi, essendo gli strati precedenti a questa esplosione né erosi né metamorfosati, per cui avrebbero dovuto permettere la formazione e il mantenimento dei fossili corrispondenti (cfr. ibidem, p. 291). Proprio su questo punto egli dovrà ammettere che «se è vero che numerose specie, appartenenti agli stessi generi ed alle stesse famiglie, sono comparse improvvisamente, [allora] la teoria delle modificazioni lentamente prodotte della selezione naturale subirebbe un colpo mortale. Infatti lo sviluppo di un gruppo di forme, tutte derivanti da un solo progenitore, deve essere stato un processo lentissimo» (ibidem, p. 288). Ancora oggi il mistero permane: infatti, anche se sono stati trovati organismi fossili dei periodi antecedenti al Cambriano (fossili ignoti al tempo di Darwin), questi presentano una morfologia molto diversa da quella degli organismi successivi: non c’è alcuna continuità, ma un salto.Riguardo alla costituzione di organi molto complessi Darwin scrisse con una certa “imprudenza”: «se si potesse dimostrare che esiste un qualsiasi organo complesso che non può essersi formato tramite molte tenui modificazioni successive, la mia teoria crollerebbe completamente» (ibidem, p. 178). La comparsa delle varie morfologie dei viventi, inutile dirlo, è vista solo come frutto di utilità e di adattamento, e non avrebbe senso alcuno valutare queste sotto l’aspetto della bellezza, della piacevolezza o della varietà gratuita: se una dottrina che attribuisse importanza a questi fattori fosse vera — egli riconosce — «sarebbe assolutamente fatale per la mia teoria» (cfr. ibidem, pp. 184-185). Analoga procedura logica viene usata per rispondere alla terza obiezione sul potere della selezione naturale di dare forma a istinti altamente raffinati, sebbene analizzando le caste delle formiche vi trova una tale perfezione organizzativa e strutturale da riconoscere di aver incontrato in questo ambito «la maggior difficoltà» per la sua teoria (ibidem, p. 241).La critica del darwinismo classico alla luce di alcuni studi recentiIn alcuni ambiti, le idee del naturalista inglese sono state abbandonate anche dai suoi seguaci più “ortodossi”: ci riferiamo alla convinzione che i caratteri acquisiti siano ereditabili, e alla concezione nominalistica e convenzionale delle specie viventi, per limitarci agli esempi più rilevanti. In linea più generale, la prima e principale obiezione riguarda la pretesa di far derivare tutta la ricchezza morfogenetica e fenomenica della natura vivente (che presenta, fra l’altro, un certo ordine ed armonia), da un puro meccanicismo basato su processi casuali oppure esclusivamente deterministici. Di fatto, né Darwin, né i suoi continuatori hanno mai potuto fornire in merito spiegazioni convincenti, come mostra oggi un’abbondante bibliografia.L’ambizione esplicativa totalizzante del darwinismo — in modo particolare quella attribuita alla selezione naturale quale suo motore trainante — ha suscitato un comprensibile dibattito quando applicata anche alle facoltà, ai sentimenti e alle convinzioni dell’essere umano, incluse quelle di carattere religioso. Nella sua Autobiografia (cfr. tr. it. 1962, pp. 74ss) Darwin si chiede che valore abbia l’argomentazione con la quale la mente umana, ragionando in termini di causa-effetto e giudicando assai difficile che tutto sia frutto del “cieco caso” o della “cieca necessità”, inferisce l’esistenza di Dio come Causa Prima che possa fondare l’esistenza dell’universo e della natura, uomo compreso. Egli risponde però che questo tipico modo di operare della logica umana potrebbe essere anch’esso il frutto di un processo evolutivo, e dunque non possedere un valore universale. L’idea di Dio, inoltre, potrebbe essere solo una credenza sorta ad un certo stadio dell’evoluzione della specie umana, dalla quale non è stato più possibile liberarsi. Di qui, l’origine del suo agnosticismo. Ma, sulla logica seguita da Darwin, si chiede giustamente Mary Midgley «perché la sfiducia di Darwin fosse così selettiva. Perché dubitava soltanto delle facoltà che lo rendevano propenso a credere e non di quelle che agivano in senso contrario? I motivi addotti a favore della sfiducia sono gli stessi in entrambi i casi. Tutte le credenze, comprese quelle che ci fanno dubitare dell’esistenza di Dio e quelle che la incoraggiano, si sviluppano in noi grazie alle facoltà che ci sono state trasmesse attraverso l’evoluzione e hanno origine nella nostra cultura. Se riteniamo, come faceva Darwin, che questi due fattori possano essere offuscati in modo impercettibile dall’eredità di caratteristiche acquisite culturalmente, la diffidenza deve estendersi a tutto, perché ogni nostro pensiero è oggetto in egual misura a una corruzione non individuabile» (Scienza come salvezza. Un mito moderno e il suo significato, Genova 2000, pp. 130-131). Come ha inoltre osservato anche Thomas Nagel, il funzionalismo utilitaristico, che sottende tutta la teoria darwiniana, finisce con lo svalutare inevitabilmente ogni capacità umana di giungere alla verità (cfr. Uno sguardo da nessun luogo, Milano 1990). Una volta che tutte le facoltà e i modi del pensiero umano sono compresi come conseguenze dell’evoluzione darwiniana, anche limitandoci alla sola sfera delle doti razionali, ci possiamo chiedere quale utilità rivestano, o abbiano rivestito nel corso dell’evoluzione, tutta una serie di facoltà complesse, come ad esempio il ragionamento di tipo matematico, che, tra l’altro, non possono essere “ridotte” a substrati elementari. Un’obiezione di questo genere era stata già avanzata da A.R. Wallace (vedi supra, III), il quale, diversamente da Darwin, era molto cauto nell’attribuire alla selezione naturale ogni genere di emergenza e rifiutava una spiegazione utilitaristica del sorgere e dell’affermarsi dell’etica in seno alla comunità umana, per cui non esitava a porre ben definiti “limiti interpretativi” alla teoria dell’evoluzione, della quale era peraltro anch’egli sostenitore (cfr. A.R. Wallace, Contribution to the Theory of Natural Selection, London 1870, e Darwinism, London 1889). Quando la natura smentisce il darwinismoNon poche delle apparenze del mondo animale ricondotte da Darwin all’azione della selezione naturale si è poi visto che non ammettevano certamente questo tipo di lettura. Fra queste, la comparsa dei cosiddetti «sosia australiani» (cfr. L’Origine delle specie, p. 401), mammiferi marsupiali che riproducono la morfologia di mammiferi placentati (lupo, gatto, scoiattolo, ecc.) e che vivono in altri continenti. Oggi sappiamo che le due linee, dopo la biforcazione da un ipotetico progenitore comune, vissero separate per circa 100 milioni di anni in condizioni ambientali molto differenti, senza alcuna possibilità di incrocio (cfr. Koestler, 1980, p. 241). Il mimetismo animale e vegetale ci offre una tale ricchezza di forme che risulterebbe impossibile spiegare in un’ottica “opportunistica”, mentre un obiettivo esame di tali morfologie lascia intravedere una rete di modelli geometrici sottostanti che, nella loro astoricità, rimandano a un mondo di forme e di proporzioni determinato da leggi di tipo strutturale. Cercando di spiegare la morfologia dell’insetto-foglia in termini di imitazione di una struttura vegetale con la quale mimetizzarsi, sfuggendo così ai predatori, Darwin ignorava che la comparsa dell’insetto-foglia precedette quella delle foglie sotto le quali esso si sarebbe poi mimetizzato. Analogamente, la sua convinzione che la selezione naturale desse ragione della infinita diversità strutturale e funzionale della bocca degli insetti, “adattatasi” col tempo alle strutture floreali, sarà superata da ricerche posteriori. Sulla base dei reperti fossili, Labandeira e Sepkoski hanno dimostrato che, in concomitanza con l’espansione delle varie famiglie degli insetti, quasi il 90% degli apparati boccali oggi noti si erano differenziati (cfr. Insect Diversity in the Fossil Record, “Science” 261 (1993), pp. 310-315). Questo avveniva cento milioni di anni prima che apparissero le angiosperme (piante con fiori), quasi che gli insetti avessero “costruito”, in modo del tutto autonomo, le loro strutture atte ad assumere il nutrimento, ma “sapendo” già quali sarebbero state le future conformazioni dei fiori, in modo da essere “preparati” a usufruire delle nuove possibilità di alimentazione offerte dalla natura.Incompletezza dell’analisi di DarwinÈ anche opportuno notare la presenza di una certa implicita tautologia insita nel concetto spenceriano di “sopravvivenza del più adatto”. La scarsa scientificità di questa idea è stata evidenziata, da differenti punti di vista, da vari studiosi. Fra essi, il citogenetista Antonio Lima-de-Faria (1988), il panbiogeografo Leon Croizat (1987), il matematico René Thom (1983), il genetista Giuseppe Sermonti (1999), lo zoologo Wolfgang Kuhn (1990). Secondo lo zoologo francese Pier-Paul Grassé, Darwin attribuisce alla selezione naturale doti di “divinazione”, di “profezia”, dato che per scegliere deve «prevedere il ruolo futuro dell’organo in formazione. In assenza di questa previsione, la coordinazione degli stati successivi diventa incomprensibile. Darwin ci ha pensato?» (Grassé, 1979, p. 156). L’osservazione critica, che vale per tutti gli organi assai complessi (occhio compreso), ha in realtà un carattere più generale, volendo mettere in luce che l’autore de L’Origine delle specie non ha mai preso in considerazione i processi che hanno dato vita alle relazioni tra le parti. L’approccio meccanicistico-casualista di Darwin cercava di spiegare (in modo insufficiente) la comparsa delle singole parti di un organismo, ma non il formarsi di una interazione armonica tra queste, interazione alla quale egli non può fare a meno di far riferimento quando afferma che il cambiamento di una parte dell’organismo comporta un cambiamento bilanciato di altre parti. Darwin si è fermato ad un approccio puntiforme, prendendo come dato di fatto la cornice relazionale di tipo organicista e olista, senza fornirle tuttavia un’adeguata spiegazione.Alla concezione darwiniana della natura come cieco fluire continuo che, come osserva opportunamente René Thom, ha preteso di eliminare «la problematica della forma in biologia» (Thom, 1983, p. 18; cfr. anche Thom, 1980), si oppongono, oggi come ieri, anche i dati della paleontologia. La nostra conoscenza odierna in proposito, non più frammentaria e carente come all’epoca del naturalista inglese, ci assicura che i fossili contenuti negli strati geologici sono effettivamente rappresentativi degli organismi vissuti in passato sulla Terra, cioè che la documentazione fossile è sufficientemente adeguata da smentire l’idea di un lento processo lineare di «modificazioni ereditarie infinitesimalmente piccole», cioè di variazioni graduali, minime, cumulative degli organismi (cfr. ad es. M.J. Benton, M.A. Wills, R. Hitchin, Quality of the fossil record through time, “Nature” 403 (2000), pp. 534-537). Le argomentazioni impiegate da Darwin per rispondere ai suoi critici incontrerebbero oggi problemi assai maggiori. Infatti, le ipotetiche forme di transizione, per quanto poco numerose, non possono essere scomparse nel nulla e gli strati geologici non sono così diffusamente alterati come si riteneva all’epoca. Quanto i geologi osservano non sono cambiamenti graduali ma sussulti irregolari e rapidi, nei quali le specie compaiono improvvisamente, rimangono pressoché inalterate per l’intera durata della loro storia, e poi scompaiono all’improvviso (cfr. D. Raup, Conflicts between Darwin and Paleontology, “Field Museum of Natural History Bulletin” (Chicago) 50 (1979), n. 1, pp. 22-29). Il superamento di DarwinSuperata la concezione gradualista di Darwin, riacquista credibilità il saltazionismo (evoluzione con pause e scatti improvvisi), motivo dell’assenza dei cosiddetti «anelli di congiunzione» tra i vari gruppi tassonomici. Si è fatta strada in biologia, negli ultimi decenni, una concezione della specie che ricorda quanto affermato tempo addietro dalla teoria organicista, che poneva una analogia tra “specie” e “macro-organismo” o “super-individuo”: la specie, in sostanza, non sarebbe più vista come la semplice somma di tanti individui, ma come una realtà vivente e unitaria, costituita da organismi diversi, così come ogni organismo è composto da cellule. Per cui, al pari degli individui, le specie nascono, vivono più o meno a lungo e poi muoiono.Forzature per dimostrare le teorie di DarwinNon è forse senza significato, infine, segnalare che l’insistente desiderio di trovare “anelli mancanti” in alcune genealogie evolutive ricostruite con criteri darwiniani abbia talvolta condotto ad interpretare reperti in modo affrettato e superficiale, quando non a proporre — in alcuni casi — dei veri e propri “falsi storici”. Si possono ricordare, ad esempio, l’uomo-scimmia di Piltdown, costituito da ossa di uomo accostate a quelle di una scimmia (forse un orango), o il rettile-uccello battezzato col nome di Archaeoraptor liaoningensis, successivamente riconosciuto come un artefatto ottenuto unendo il fossile del corpo di un uccello a quello della coda di un rettile, e non a caso ribattezzato ironicamente “Piltdown bird” (cfr. J. Hecht, Piltdown bird, “New Scientist”, 29.1.2000, p. 12). Sembrerebbe quasi che, non potendo la documentazione paleontologica fornire gli “anelli di congiunzione”, occorresse crearli a tavolino. Atteggiamenti inconsciamente favoriti da quella singolare “logica delle possibilità” utilizzata dallo stesso Darwin e che, come messo in luce da Himmelfarb (1974), lo conduceva a convincersi che varie possibilità si sommassero insieme per generare delle probabilità, e che queste ultime, sommandosi ulteriormente l’una all’altra, generassero una certezza. Egli assumeva infatti che la mera “possibilità” di immaginare una serie di passaggi intermedi tra una condizione organica ed un’altra doveva essere accettata come ragione valida per ritenere “probabili” questi passaggi, portando così a far credere praticamente “certo” il loro verificarsi. Centrata sul meccanismo della selezione naturale, la capacità esplicativa della sua teoria veniva ritenuta da lui sufficiente per accettare i fatti che se ne mostravano in accordo e guardare con sospetto quelli che se ne distaccavano.Il darwinismo socialeFra le correnti di pensiero che traggono la loro origine dalle idee di Charles Darwin va annoverato quanto conosciuto col nome di “darwinismo sociale”. Leggiamo in una pagina de L’Origine dell’uomo: «Il progresso della prosperità del genere umano è un problema intricatissimo; tutti quelli che non possono evitare una grande povertà per i figli dovrebbero astenersi dal matrimonio, perché la povertà non è soltanto un gran male, ma con la prole tende ad aumentare. D’altra parte, come ha notato Galton, se i prudenti si astengono dal matrimonio, mentre i negligenti si sposano, membri inferiori della società tenderanno a soppiantare i membri migliori. L’uomo, come qualunque altro animale, ha senza dubbio progredito fino alla sua condizione attuale attraverso una lotta per l’esistenza, frutto del suo rapido moltiplicarsi; e, per progredire ed elevarsi ancora di più, deve andar soggetto ad una dura lotta. Altrimenti egli in breve cadrebbe nell’indolenza, e gli uomini più dotati non riuscirebbero meglio nella battaglia della vita dei meno dotati [...]. Le leggi e i costumi non devono impedire ai più abili di riuscire meglio e di allevare un numero più grande di figli» (tr. it. Milano 1997, pp. 414-415). Vi troviamo enunciati i princìpi-base del darwinismo sociale, che alcuni attribuiscono riduttivamente al solo Francis Galton (cfr. Hereditary Genius, London 1869, Natural inheritance, London 1889) e ai suoi continuatori, teorici dell’eugenetica, forse volendo allontanare da Darwin questa pesante responsabilità. Un’ideologia fonte di discriminazioniNon sfugge infatti il potenziale negativo in essi contenuto, al teorizzare una discriminazione sociale ove i poveri e i meno dotati sono considerati “inferiori” e l’uomo viene ricondotto alla pura dimensione animale, di un “animale”, oltretutto, frutto esso stesso di una visione ideologica preconcetta. Siamo in presenza di una antropologia fortemente riduzionista, che caratterizzerà le varie forme di darwinismo sociale, il cui terreno più favorevole si riscontra purtroppo in quelle nazioni dominate da una visione fortemente competizionista della società e dei popoli. Non andiamo troppo lontano se affermiamo che l’idea della “sopravvivenza del più adatto” si è tramutata tristemente in un’ideologia con la quale alcuni hanno voluto giustificare l’espansionismo, l’imperialismo ed alcune forme di capitalismo. Parallelamente, i libri di Darwin riscossero un ampio successo tra il pubblico americano.La sociobiologia: estirpare l’altruismo dalla societàÈ in ambito anglosassone, ove non sono certo assenti forme di forte competitività economica e sociale, che si è principalmente sviluppata negli anni Settanta un’espressione assai sofisticata del darwinismo sociale: la sociobiologia, che, in sintesi, sostiene che altruismo e rispetto per il prossimo costituirebbero dei “difetti biologici” da evitare. Sulla scia di questo pensiero, un gruppo di “bioeconomisti” affermerà con enfasi che «il capitalismo è insito nei nostri geni». Secondo la rivista Business Week (10.4.78), molto vicina a questo gruppo, la moderna ricerca scientifica avrebbe “dimostrato” che competizione e interesse personale, importanti in modo essenziale nell’economia di mercato “pura”, stanno anche alla base dei processi della natura, per cui esisterebbe una forte analogia, un accordo di fondo assai stretto, fra concezioni iperliberiste e selezione naturale, tra capitalismo privo di ogni controllo e biologia evoluzionista.Etica sociale: un divenire utilitaristicoUn altro campo in cui il darwinismo ha incontrato nuovi teorizzatori è quello dell’etica sociale. Privata di qualsiasi reale valore in sé, tale disciplina è stata reimpostata in chiave evoluzionista, in perenne divenire, secondo quell’ottica funzionalista e utilitarista che trovavamo già presente in Darwin. Esponente di tali posizioni, Bentley Glass (1967) scriveva anni addietro: «L’etica di una società umana statica non può far fronte a una situazione evolutiva. Essa deve essere rimpiazzata da un’etica che tenga conto della natura umana in evoluzione sia biologica che culturale. La nostra crescente saggezza deve essere basata su una visione evolutiva del passato, del presente e del futuro dell’uomo, e su una conoscenza dei modi in cui il processo evolutivo può essere controllato» (The centrality of evolution in biology teaching, p. 705). Osservava in proposito, con toni intenzionalmente provocanti, Giuseppe Sermonti (1974): «Questo innocente discorso è in realtà una serie di disinvolte mistificazioni. Bentley Glass, e con lui tutti gli evoluzionisti contemporanei, sanno benissimo che la natura umana non è affatto in evoluzione biologica, e che per almeno cinquantamila anni rimarremo identici a quelli che siamo, sempre nell’ipotesi che non intervenga una degenerazione. Per quanto riguarda l’“evoluzione culturale”, se essa deve significare la lotta per la vita trasferita sul piano delle ideologie, allora non resta che attendersi una catena di sopraffazioni spirituali senza altra misura che il successo, una trasformazione irresponsabile di idee e di costumi, sostenuta dalla pretesa che comunque si proceda si andrà verso il bene, purché si proceda.Il darwinismo, punto di riferimento culturaleDarwin ha influenzato e continua a influenzare il pensiero di tutto l’Occidente in moltissimi campi. In accordo con le concezioni da lui suggerite, il darwinismo è entrato in settori al di fuori della biologia, come la psicologia, l’etica, l’economia, la sociologia, ecc. Darwin fu apprezzato da Marx ed Engels per aver demolito il modo di pensare teleologico e per aver fornito il fondamento storico-naturale del loro programma, anche se il rapporto tra lo studioso inglese e quello tedesco è controverso (cfr. Christen, 1982). Freud (1856-1939) paragonò il mutamento della concezione in merito al posto dell’uomo nella natura al passaggio dal narcisismo infantile all’amore oggettuale, introducendo nella sua antropologia il concetto di “orda primordiale darwiniana”. La visione della natura di Charles Darwin è stata presentata, non a torto, come il coronamento del pensiero meccanicista di Descartes, come la bandiera del libero pensiero e del progresso contro l’“oscurantismo” di coloro che trasmettevano conoscenze in modo acritico e tradizionalista. Ma ha costituito anche il simbolo, occorre riconoscerlo, di un dogmatismo feroce, di una fede secolare, basata su una concezione materialista e meccanicista della natura e della vita. Come ammette Mauro Ceruti, evoluzionista eterodosso, con Darwin «furono poste le basi per una concezione atomistica degli organismi, intesi come entità riducibili alla somma delle loro parti e quindi scomponibili in singoli “caratteri” o “tratti” che possono variare indipendentemente da tutti gli altri caratteri» (Ceruti, 1995, p. 27). Le scoperte scientifiche recenti ridimensionano le teorie di DarwinAlla luce del pensiero scientifico contemporaneo, sappiamo oggi che le variazioni ed i mutamenti posseggono dei vincoli imposti dalle interazioni fra tutte le parti dell’organismo, o meglio, dall’organismo inteso come un tutto e come un intero, nel quale si danno dinamismi e coordinamento funzionali, nel quale lo sviluppo, le variazioni e l’adattamento, paiono rispondere più a delle tendenze intrinseche che al caso o alla lotta per la sopravvivenza. Il sostantivo «evoluzione» resta certamente uno dei concetti centrali di tutta la biologia, ma l’aggettivo «darwiniano» è ormai oggetto di dibattito e di revisione sempre crescenti.Lo spirito ottocentesco, humus per l’evoluzionismo di DarwinCome l’uniformitarianismo di Lyell fu influenzato dal monismo materialista, così l’evoluzionismo di Darwin risentì dello spirito del tempo, cioè delle idee filosofiche dominanti nella cultura di allora. Sul piano metodologico, ad esempio, l’ottimismo, che caratterizzava la mentalità del XIX secolo, spinse gli scienziati dell’epoca a pensare che tutti i fenomeni naturali potessero essere compresi in una semplice sintesi scientifica, in perfetto accordo con l’idea di un progresso continuo verso un mondo migliore, idea che rappresentava in fondo una versione materialista e secolarizzata della concezione escatologica cristiana. Analogamente, il generalizzato metodo riduzionista impiegato da Darwin era l’espressione, in biologia, di quel meccanicismo ottocentesco che aveva posto l’accento della conoscenza scientifica esclusivamente sulla quantità e sulla materia.Più filosofo che scienziatoRiteniamo che il contributo di Darwin fu di carattere più “filosofico” che scientifico in senso stretto. Egli non fu autore di vere e proprie scoperte, ma propose una lettura completamente diversa di quanto altri avevano fatto in precedenza. Utilizzò, ad esempio, molti dei dati raccolti da un altro naturalista, lo zoologo Edward Blyth, ma mentre questi sosteneva la sostanziale inalterabilità delle specie, pur riconoscendo l’esistenza dei fenomeni di variazione, selezione ed eredità, Darwin li lesse alla luce dell’evoluzione delle specie. Secondo Blyth la selezione in natura avrebbe svolto e svolgerebbe un ruolo unicamente conservatore; Darwin, invece, finì col rovesciare le conclusioni alle quali Blyth era arrivato. Siamo probabilmente di fronte ad un classico caso di “rivoluzione scientifica” nel senso usato da Kuhn (cfr. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1978): si impone un nuovo orizzonte teorico, e quindi emergono nuovi paradigmi esplicativi e interpretativi della realtà naturale che sostituiscono i precedenti, ritenuti meno efficaci nello spiegare l’insieme dei dati disponibili.Tentativo di svincolarsi dalla visione religiosa del mondoNella formulazione della teoria evoluzionista di Darwin confluirono vari elementi, già analizzati in precedenza, che operarono a livelli diversi, a volte in modo diretto, altre implicito. Fra questi, la particolare psicologia del suo autore e la sua storia personale; l’influenza del nonno Erasmus di fede illuminista e deista; la lettura di libri di filosofi, economisti e sociologi, di indirizzo materialista e liberista; le idee dominanti nello spirito inglese dell’epoca vittoriana (ottimismo verso il progresso, competizionismo, scientismo incipiente, capitalismo); la prospettiva geologica “attualista” di Hutton e Lyell, secondo la quale nel passato agirono con gradualità le stesse forze operanti nel presente (opposta al catastrofismo). Ma il significato ultimo del messaggio darwiniano è che l’ordine e l’armonia non discendono da un’“autorità” predestinata o dalle leggi con cui essa governa la natura, bensì sorgono “spontaneamente” dalla lotta che gli individui intraprendono per la loro sopravvivenza. In questo si può cogliere un certo spirito di emancipazione dalla religione (e dall’autorità) di cui Darwin si sentì personalmente investito, anche a motivo delle sue vicende personali, il suo desiderio di non obbedire più a nulla e a nessuno e di competere liberamente con gli altri a modo proprio, obbedendo alla propria natura e alle proprie inclinazioni. Ragioni del successo delle teorie di DarwinLa diffusione e la successiva, quasi generale, accettazione della teoria di Darwin fu anche favorita, a nostro avviso, dall’influenza di fattori extra-scientifici e di sottili “corrispondenze” con lo spirito del tempo. Ne segnaliamo tre: a) il concetto di gradualismo e di continuità, che permeano il darwinismo, erano in perfetto accordo con la concezione vittoriana caratterizzata da un moderato conservatorismo sociale, nemico di ogni sconvolgimento e di ogni cambiamento troppo repentino; b) la certezza che permea tutto il pensiero di Darwin circa il progresso inarrestabile del mondo vivente, da forme meno perfette verso forme più perfette, ben si accordava con l’ottimismo progressista del XIX secolo; c) l’importanza attribuita alla selezione naturale era in piena sintonia con la concezione competitiva legata alla concezione (quasi religiosa) del “libero mercato” preminente in Inghilterra. L’ambiente generale era in fondo già preparato e maturo per recepire un bagaglio di idee che egli stesso aveva contribuito a coagulare in modo implicito.Osservazioni conclusiveL’idea di fondo di Darwin sull’interazione organismo-ambiente era viziata da un approccio di tipo meccanicista, banalmente lineare, dove molta importanza rivestiva il concetto di “stimolo-risposta”, cioè l’idea che l’uso e il non uso degli organi, delle funzioni e dei comportamenti, ne determinasse, rispettivamente, lo sviluppo o il regresso, e quindi potesse influire sui caratteri dell’individuo, facendone mutare il “fenotipo” con effetti ereditari sulla progenie. Ma, in modo più radicale, Darwin distrusse la concezione “creazionista” della natura, che era tipologica (cioè essenzialista in senso platonico), finalistica, fondamentalmente statica, basata sul concetto di armonia prestabilita tra i viventi e tra questi e l’ambiente. Ma così facendo egli contribuì in modo determinante ad operare una lettura assai riduttiva della nozione di creazione, impedendo che se ne valorizzasse una visione filosofico-teologica in accordo con le idee di trasformazione e di evoluzione — non necessariamente legate a quella di selezione naturale — e che pure erano implicite nella Scrittura e ben rintracciabili nella tradizione teologica cristiana, fin dall’epoca patristica. La sua opposizione ad ogni idea di “progetto” o “disegno” di origine divina presente in natura finì col condizionare anche l’immagine del Creatore, assimilato sempre più alla figura di un demiurgo legislatore, che non aveva ormai più ragione di essere scomodato per spiegare l’origine e le morfologie degli esseri viventi.È difficile poter definire Darwin come un grande naturalista, quali furono un Linneo o un Cuvier. Animato da grandi curiosità scientifiche, ma anche da sensibili pregiudizi di fondo, sotto certi aspetti egli fu più dilettante dei suoi predecessori. Proprio questi pregiudizi non gli consentirono di osservare la natura con maggior obiettività, impedendogli di essere un evoluzionista equilibrato, capace di demolire alcune idee errate di tipo fissista e di tracciare con realismo un affresco del mondo vivente in perenne divenire. La sua influenza a livello filosofico è stata tuttavia della massima importanza, non solo per l’immagine della natura che dalla sua teoria è scaturita, ma anche per comprendere la vicenda dei rapporti fra pensiero scientifico e pensiero religioso nell’Ottocento e nel Novecento. Parlare di Darwin e delle sue idee significa parlare di noi stessi, del nostro tempo e delle sue radici ideologico-culturali. Non è affatto un puro argomentare astratto. Infatti, come ha giustamente scritto Arnold Gehlen (1983) «Il bisogno, avvertito da chi riflette, di interpretare la propria esistenza umana non è un bisogno meramente teoretico. Secondo le decisioni implicite in tale interpretazione, si rendono visibili o invece si occultano determinati compiti. Che l’uomo si concepisca come creatura di Dio oppure come scimmia arrivata implica una netta differenza nel suo atteggiamento verso i fatti della realtà; nei due casi si obbedirà a imperativi in sé diversissimi» (p. 35).
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